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INAUGURAZIONE DELL’ANNO GIUDIZIARIO DEL TRIBUNALE VATICANO

OMELIA DEL CARD. TARCISIO BERTONE,
SEGRETARIO DI STATO D
EL SANTO PADRE

Cappella di Maria, Madre della Famiglia - Palazzo del Governatorato
Sabato, 9 gennaio 2010

 

Cari Fratelli e Sorelle,

con gli occhi ed il cuore ancora colmi di stupore per aver contemplato il mistero della nascita del Salvatore, ci troviamo, insieme ai Responsabili ed al Personale degli Uffici Giudiziari dello Stato della Città del Vaticano, intorno alla Mensa eucaristica per la celebrazione di inaugurazione dell’Anno Giudiziario, nella quale vogliamo invocare la divina assistenza sul compito delicato e impegnativo dell’amministrazione della giustizia nello Stato della Città del Vaticano. Sono lieto di presiedere ancora una volta questa Santa Messa e di formulare ai presenti il mio cordiale e deferente saluto. Rivolgo il mio particolare pensiero anzitutto ai Signori Cardinali, agli Ecc.mi Arcivescovi, Vescovi e Prelati presenti. Saluto, altresì, con viva cordialità il Presidente del Tribunale, prof. Giuseppe Dalla Torre, i giudici, le Autorità della magistratura italiana, gli invitati e tutti i presenti.

Abbiamo poc’anzi ascoltato le parole del Salmo 71, un canto regale che i Padri della Chiesa hanno meditato e reinterpretato in chiave messianica. Questo Salmo è aperto da una intensa invocazione corale a Dio perché conceda al sovrano il dono della giustizia, fondamentale per il buon governo. Essa si applica soprattutto nei confronti dei poveri, sovente vittime del potere. In particolare il Salmista pone l’accento sull’impegno morale di reggere il popolo secondo la giustizia e il diritto: «Dio, affida al re il tuo giudizio, al figlio del re la tua giustizia; giudichi secondo giustizia il tuo popolo e i tuoi poveri secondo il diritto» (vv. 1-2). Come il Signore regge il mondo secondo giustizia (cfr Sal 35,7), così il re, che per la mentalità biblica ne è il rappresentante visibile sulla terra, deve uniformarsi all’azione di Dio.

Secondo la Scrittura, se si violano i diritti dei poveri, non si compie soltanto un atto moralmente iniquo, ma si offende anche Dio, perché il Signore è il tutore e il difensore dei miseri e degli oppressi, delle vedove e degli orfani (cfr Sal 67,6), cioè di coloro che non hanno protettori umani. È facile intuire come alla figura spesso deludente del re davidico, la tradizione biblica abbia sostituito la fisionomia luminosa e gloriosa del Messia, nella linea della speranza profetica espressa da Isaia: «Egli giudicherà con giustizia i poveri e prenderà decisioni eque per gli oppressi del paese» (11,4). Tale sostituzione la troviamo anche in Geremia, che più volte abbiamo ascoltato durante la liturgia di Avvento: «Ecco, verranno giorni - dice il Signore - nei quali susciterò a Davide un germoglio giusto, che regnerà da vero re e sarà saggio ed eserciterà il diritto e la giustizia sulla terra» (23,5).

La giustizia e la pace sono il segno dell’ingresso del Messia nella storia dell’umanità. In questa prospettiva è illuminante il commento dei Padri della Chiesa, che vedono in quel re-Messia il volto di Cristo, re eterno e universale. Così san Cirillo d’Alessandria nella sua Explanatio in Psalmos osserva che il giudizio, che Dio dà al re, è quello di cui parla san Paolo, «il disegno cioè di ricapitolare in Cristo tutte le cose» (Ef 1,10). Infatti «nei suoi giorni fiorirà la giustizia e abbonderà la pace», come a dire che «nei giorni di Cristo per mezzo della fede sorgerà per noi la giustizia, e nel nostro volgerci verso Dio sorgerà per noi l’abbondanza della pace». Del resto, proprio noi siamo i «miseri» e i «figli dei poveri» che questo re soccorre e salva: e se anzitutto «chiama "miseri" i santi apostoli, perché erano poveri in spirito, noi dunque egli ha salvato in quanto "figli dei poveri", giustificandoci e santificandoci nella fede per mezzo dello Spirito» (PG LXIX, 1180).

D’altro lato, il Salmista delinea anche l’ambito spaziale entro cui si colloca la regalità del Messia, che reca giustizia e pace, evocando Tarsis e le isole, i territori occidentali più remoti secondo l’antica geografia biblica (cfr v. 10), come pure Saba e Seba. È uno sguardo sulla mappa del mondo allora conosciuto, che coinvolge Arabi e nomadi, sovrani di stati remoti e persino i nemici, in un abbraccio universale. L’ideale suggello a questa visione potrebbe, allora, essere formulato proprio con le parole del profeta Zaccaria, che i Vangeli applicheranno a Cristo: «Esulta grandemente figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto... Farà sparire i carri da Efraim e i cavalli da Gerusalemme, l’arco di guerra sarà spezzato, annunzierà la pace alle genti, il suo dominio sarà da mare a mare e dal fiume ai confini della terra» (Zc 9,9-10; cfr Mt 21,5).

All’inizio di questo anno giudiziario, un altro importante suggerimento, quello di inserire la nostra logica umana in una prospettiva più grande, ci viene dal racconto evangelico, che abbiamo appena ascoltato. Gesù si manifesta agli Apostoli in una maniera che sconcerta e lascia stupefatti: “Andò verso di loro camminando sul mare”. Questa volta gli Apostoli, a disagio di fronte ad un modo di manifestarsi singolare, sono presi da timore e costretti a mettere in discussione il proprio modo di pensare. Ma Gesù dice loro: “Coraggio, sono io, non temete!” e li riporta alla fiducia. Li invita a porsi su un piano diverso, superiore; non possono più pensare a lui semplicemente come a un uomo che li libererà dalle situazioni difficili, e che recherà armonia, giustizia e pace. Devono guardare a lui come al Salvatore, che dona loro una liberazione ed una pace che vengono dall’alto: “Essi non avevano compreso il fatto dei pani – commenta san Marco – essendo il loro cuore indurito”. Essi, cioè, non essendo entrati nella logica del dono, evidenziata dal miracolo della moltiplicazione dei pani, e non riconoscendolo, rimanevano nell’incertezza e nella paura. Gesù, presenta più volte il mistero della sua passione per accrescere la loro fede e per renderli disponibili alla sua chiamata, che li trasforma in apostoli e discepoli del divin Maestro.

La stessa logica della prospettiva più grande è suggerita dalla prima Lettera di san Giovanni appena letta. Quando ascoltiamo che dobbiamo amarci gli uni gli altri, tutti, anche i non cristiani, sono concordi nel dire che se questo avvenisse il mondo sarebbe più bello, più giusto, più solidale. Ma la lettera di Giovanni ci conduce ad un livello più profondo: l’amore di cui parla ha il suo fondamento e il suo modello in Dio e si estende beneficamente ai fratelli. Abbiamo letto: “Chiunque riconosce che Gesù è il Figlio di Dio, Dio dimora in lui, ed egli in Dio”. Non si tratta di vivere un amore puramente umano, che rientra nelle nostre capacità, ma di accogliere in noi l’amore di Dio. Soltanto aderendo all’amore di Cristo diventiamo capaci di diffondere questo amore attorno a noi e di testimoniarlo nei vari ambiti in cui siamo chiamati ad operare, compresa la giustizia, la cui amministrazione chiede a chi è credente competenza umana, ma anche capacità di andare oltre perché tutto, anche un’eventuale decisione sfavorevole, sia dettata dall’amore più grande che nasce da Dio.

Cari amici, auguro a tutti voi, che a vario titolo partecipate all’inaugurazione dell’anno giudiziario, di poter crescere nella consapevolezza che l’armonia, la giustizia e la pace non sono pienamente raggiungibili senza l’adesione a Dio e l’accoglienza della sua grazia. Chiediamo al Signore di aiutarci a superare le difficoltà che nascono dalla nostra prospettiva umana, per aprirci pienamente in ogni cosa a quella del suo amore, che è più grande del cuore dell’uomo (1 Gv 4,20). Sui nostri propositi e sul nuovo anno giudiziario dello Stato della Città del Vaticano invochiamo la materna intercessione di Maria, Speculum iustitiae.

 

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