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 FESTA DELLA NATIVITÀ DI SAN GIOVANNI BATTISTA,
PATRONO DI GENOVA

OMELIA DEL CARD. TARCISIO BERTONE,
SEGRETARIO DI STATO D
EL SANTO PADRE

Giovedì, 24 giugno 2010
 

Signor Cardinale,
Eccellenze,
Distinte Autorità,
Cari Sacerdoti, Religiosi, Religiose e Fedeli dell’Arcidiocesi di Genova!

Sono molto lieto di essere oggi qui con voi, nella festa solenne della natività di san Giovanni Battista, Patrono di Genova. Rivolgo un cordiale saluto al caro Arcivescovo, il Signor Cardinale Angelo Bagnasco, che ringrazio per avermi invitato a celebrare l’eucaristia e a festeggiare il 50° anniversario della mia ordinazione sacerdotale. Saluto anche l’Ecc.mo Vescovo Ausiliare, gli altri Vescovi presenti, le Autorità, i Sacerdoti, i Religiosi, le Religiose e i tanti fedeli laici qui convenuti. A tutti e a ciascuno vorrei manifestare i miei sentimenti di riconoscenza e di stima, ricordando con particolare gioia gli anni trascorsi come Arcivescovo di questa Città, prima di assumere l’incarico di Segretario di Stato di Sua Santità. Voglio dirvi, con tutta franchezza, che non vi ho mai dimenticato e vi ringrazio per il sostegno e, soprattutto, per la preghiera, con la quale mi accompagnate nell’incarico di primo Collaboratore del Santo Padre.

La festa del Patrono è sempre un’occasione grande che viene offerta per riflettere sull’identità della comunità, sul senso e il valore dell’appartenenza, più in particolare sul significato della presenza della comunità cristiana in un territorio, sul valore della fede nella costruzione della società.

La prima lettura della liturgia della parola di questa solennità proietta sulla figura di Giovanni il Battista le parole del secondo canto del “servo del Signore”, la figura profetica che caratterizza l’annuncio del secondo Isaia e che Gesù scelse come riferimento principale della propria identità messianica, chiave interpretativa della sua missione e della sua passione e risurrezione. Quel che colpisce, in modo particolare, nel testo proclamato, sono le espressioni finali, in cui Dio, rivolgendosi a questo misterioso personaggio gli dice: «Io ti renderò luce delle nazioni, perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra» (Is 49,6). Nel Nuovo Testamento è Gesù ad apparire come colui che realizza compiutamente la figura misteriosa preannunciata dal profeta, tanto che l’evangelista Giovanni per condensare l’identità del Figlio di Dio fatto uomo ricorrerà proprio a questa immagine della luce offerta a tutti: «In lui era la vita, e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta» (Gv 1,4-5). Il medesimo evangelista si premura di indicare proprio in questo una netta distinzione tra Gesù e Giovanni Battista, mettendo tuttavia il precursore in relazione a Gesù in questa prospettiva della luce, sia pur nella forma della testimonianza: «Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. Non era lui la luce ma doveva dare testimonianza alla luce» (Gv 1,6-8). La «luce vera» (Gv 1,9) è Gesù, ma anche Giovanni partecipa al suo ministero di illuminazione come testimone, non diversamente di quanto sono chiamati a fare i Dodici e Paolo.

Su questa linea si pone il compito dei discepoli di Gesù e anche di noi oggi. Il servo del Signore, il Battista, Gesù, Paolo e gli altri apostoli, noi, discepoli del Vangelo siamo tutti partecipi di una missione di illuminazione della vita dell’uomo che ha come caratteristica la sua estensione fino ai confini dell’umanità.

Ambedue questi aspetti: la luce che sconfigge le tenebre e l’estendersi a tutti i confini dell’umano, sono particolarmente rilevanti per il compito dei credenti nel nostro tempo, anche qui, oggi, a Genova. Ci è chiesto anzitutto di rendere un servizio all’umanità in ordine alla verità, non come presuntuosi possessori di essa, ma come umili servitori di una testimonianza che non attira su di noi gli sguardi ma li rimanda all’uomo perfetto, Gesù Cristo. All’uomo esitante e frammentato di oggi, all’uomo svilito a una sola dimensione, quella materialistica e consumistica, all’uomo intimorito dalle sue stesse conquiste, la fede e la testimonianza dei cristiani deve poter mostrare la pienezza di vita e di speranza che si irradia dal volto di Cristo.

L’unica risposta all’angoscia del vivere sta nella contemplazione di questa luce che irradia della sua verità ogni creatura. Questa rivelazione di verità è lo specifico del cristiano nella vita culturale e sociale, un servizio irrinunciabile pena la riduzione della fede a una opinione vuota di significato, per la quale non merita impegnarsi. Rinunciare invece a testimoniare la verità sarebbe tradire il Santo Patrono, il testimone per eccellenza di Gesù-Verità, e sarebbe tradire la storia di Genova, che ha radicato nella fede il suo fiorire migliore.

Al tempo stesso occorre rivendicare che questa parola di verità vale per tutti gli uomini e per tutto l’uomo. L’evangelizzazione non accetta confini e ci rende responsabili dell’annuncio verso tutti, senza distinzioni. Come pure ci chiama a illuminare della sapienza del Vangelo ogni dimensione dell’umano, evitando di relegare la fede a spazi e tempi delimitati, lasciando il di più della vita fuori della sua influenza. C’è una luce che proviene dal Vangelo che sola può illuminare definitivamente il volto della persona umana e, in forza di questa esigenza, c’è una parola della fede che interessa ogni ambito dell’esistenza dell’uomo.

Nel Vangelo che abbiamo ascoltato si richiama l’attenzione sul fatto che Giovanni è un nome nuovo. Volevano chiamarlo con il nome di suo padre, Zaccaria; ma questo sarebbe stato semplicemente prolungare la storia: "Non c’è nessuno della tua parentela che si chiami con questo nome" (Lc 1,61). Invece, giustamente, il nome deve essere nuovo, perché quel bambino che nasce non è semplicemente il prodotto della storia familiare di Zaccaria, ma è soprattutto il segno dell’irruzione di Dio che fa qualche cosa di nuovo, che realizza una speranza per molti secoli attesa.

Di fronte alla nascita di questo bambino bisogna soprattutto sapere riconoscere l'azione di Dio per dare alla storia dell’uomo una speranza e conservare nel cuore le parole e le esperienze che riguardano il bambino. Occorre porsi la domanda: "Che sarà mai questo bambino?". Domanda che si pone per ogni bambino che nasce, perché nasce sempre con una speranza, con un futuro che è ancora tutto da scrivere e può portare i segni della creatività e della novità: "Davvero la mano del Signore stava con lui" (Lc 1,66). C’è dunque una novità legata a Giovanni e c’è un atteggiamento da parte di Giovanni per esprimere questa novità. Per questo egli vive in regioni deserte, fino al giorno della sua manifestazione ad Israele, e dopo questo cammino di crescita nel deserto, Giovanni è pronto, equipaggiato per svolgere la sua missione.

Tutta la grandezza di Giovanni sta nell’essere il Precursore, il testimone di Gesù Cristo. Sul finire della sua missione, egli dirà: "Io non sono quello che voi pensate! Ma ecco, viene dopo di me uno, al quale io non sono degno di slacciare i sandali" (At 13,25). Diceva sant'Agostino che la grandezza di Giovanni sta proprio in questo: nel fatto che si sarebbe potuto fare passare per il Messia, perché la gente aveva per lui una stima così grande, aveva visto in lui in modo così evidente l'azione e la presenza di Dio che lo avrebbe riconosciuto e accettato come Messia. Ma quando Giovanni dice: "io non sono quello che voi pensate", significa che Giovanni non ha chiesto alla gente la sua identità: chi sono io? Non è andato in prestito di una vocazione dalle attese o dalle pretese delle persone. Questa sua identità l'aveva riscoperta stando davanti a Dio nella percezione della sua volontà; e l'aveva scoperta come missione di preparazione e di attesa, quindi vissuta in funzione di un altro: "Ma ecco, viene dopo di me uno, al quale io non sono degno di slacciare i sandali". Giovanni è tutto riferito a Gesù, non solo con la voce, ma con le scelte di vita. E’ profeta non solo con le parole che dice, ma con la stessa vita e persona. Giovanni è al servizio della vera novità della storia: Gesù Cristo. Dall’incontro con Gesù sono nate in ogni tempo persone nuove, che hanno contribuito alla costruzione di un mondo nuovo.

Ogni comunità cristiana è chiamata a introdurre continuamente nella storia quella novità che genera passione per il presente e lo apre con speranza al futuro. Non una novità qualsiasi, come se tutto quello che oggi emerge o che l’uomo persegue sia costruttivo della dignità e della promozione dell’uomo, ma quella novità che nasce dal legare l’uomo, la sua origine, il suo destino, a Dio. C’è una condizione che la figura del Battista indica per realizzare tutto questo, ed è la scelta del deserto, cioè la capacità di tirarsi un po’ fuori dal flusso caotico degli eventi, non per evadere, ma per ricuperare l’essenziale e per saper cogliere meglio le domande vere, la voce del cuore e dell’intelligenza, e le risposte da dare per la costruzione della civiltà della verità e dell’amore.

In vista dell’edificazione di un mondo nuovo, basato sui presupposti evangelici, vorrei rivolgere una speciale parola di incoraggiamento alle ragazze e ai ragazzi dell’età della cresima. Ne ho incontrato un folto gruppo a Roma durante il loro pellegrinaggio, accompagnati dall’Arcivescovo, e mi piace, seppur brevemente, continuare il nostro dialogo. Cari ragazze e ragazzi, ad imitazione di Giovanni Battista, anche voi impegnatevi a crescere e fortificarvi nello spirito, costruendo rapporti di amore e di pace per voi stessi, per i vostri compagni e per il mondo presente e futuro. Coltivate, in particolare, la vostra relazione con Gesù, cercando un rapporto personale con Lui nella comunione della sua Chiesa: è nella Chiesa, infatti, che si incontra Gesù Cristo, il quale vi ama e per voi ha offerto se stesso sulla croce. Lui solo può soddisfare le vostre attese più profonde e dare pienezza di significato alla vostra esistenza.

Ed ora, prima di concludere, non posso non riandare col pensiero a quel primo luglio di cinquant’anni fa, quando venni ordinato sacerdote. Non dimenticherò mai quale giorno così luminoso e pieno di emozioni. Ora, a distanza di cinquant’anni, posso riguardare il passato e proclamare  a tutti quanto è buono il Signore, e la dolcezza che Egli fa gustare a chi lo ama. Mi ha accompagnato nella vita, mi ha aiutato a crescere nella fede, ad accogliere la sua chiamata, a vivere il ministero sacerdotale e poi, quello di Vescovo.

Lasciate, allora, che, io stesso e tutti i sacerdoti qui presenti, rivolgiamo al Signore la preghiera che il Santo Padre Benedetto XVI ha formulato nell’omelia della Santa Messa a conclusione dell’Anno Sacerdotale: “Signore, noi ti ringraziamo perché hai aperto il tuo cuore per noi; perché nella tua morte e nella tua risurrezione sei diventato fonte di vita. Fa’ che siamo persone viventi, viventi dalla tua fonte, e donaci di poter essere anche noi fonti, in grado di donare a questo nostro tempo acqua della vita. Ti ringraziamo per la grazia del ministero sacerdotale. Signore, benedici noi e benedici tutti gli uomini di questo tempo che sono assetati e in ricerca” (11.6.2010). Amen.

 

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