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APERTURA DEL CONGRESSO NAZIONALE
DELL'ASSOCIAZIONE MEDICI CATTOLICI ITALIANI

OMELIA DEL CARD. TARCISIO BERTONE,
SEGRETARIO DI STATO DEL SANTO PADRE

Domenica, 18 novembre 2012

 

Cari fratelli e sorelle!

Il volgere dell’anno liturgico verso la fine invita a guardare verso le realtà ultime e definitive dell’esistenza e della storia. La liturgia lo fa – in questa penultima domenica – con il discorso escatologico di Gesù, secondo la redazione dell’evangelista Marco, di cui ci ha proposto la parte centrale. Il futuro terminale della vita e del mondo è interrogativo che attraversa e inquieta l’animo umano: che ne sarà dell’esistenza?, dove sfocia lo scorrere del tempo?, c’è un futuro oltre la morte?

Con espressioni e immagini misteriose, attinte dal genere e dal linguaggio apocalittico, Gesù orienta lo sguardo della fede verso gli eventi ultimi. L’incedere del tempo, nella scansione dei giorni e degli anni, non va verso una caduta nel nulla ma verso il compimento. Il fine ultimo non è la fine di tutto, ma un nuovo inizio. Lo sconvolgimento cosmico, di cui abbiamo sentito nel Vangelo, non è una catastrofe annientatrice ma una trasformazione innovatrice: il compimento del “disegno” del Padre – ci dice san Paolo – “di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra” (cfr Ef 1,10). Questa ricapitolazione redentrice ha avuto inizio “nella pienezza dei tempi” (ibid.), con la prima venuta di Cristo; e troverà piena realizzazione alla fine dei tempi, con la sua seconda venuta. Ciò che è avvenuto con la Risurrezione nell’umanità corporea di Cristo – la trasfigurazione gloriosa della sua realtà umana – è premessa e promessa di ciò che si compirà per tutti gli uomini e per il cosmo alla fine dei tempi. L’esistenza e la storia prendono così la forma dell’attesa itinerante, vigile e operante del secondo avvento del “Figlio dell’uomo”. Avvento che non sarà più, come il primo, nella debolezza e nella povertà, ma “con grande potenza e gloria”, per il “raduno” escatologico degli “eletti”: “Egli manderà gli angeli – abbiamo ascoltato nel Vangelo – e radunerà i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo”. Il futuro ultimo dell’umanità e del mondo non è un destino impersonale e fatale, ma un incontro: l’incontro con il Signore della vita e della storia – il Risorto – che viene a “fare nuove tutte le cose” (Ap 21,5). Nuove della novità trasfigurante della Pasqua, che il Kyrios – il Signore – viene a compiere in modo pieno e definitivo per l’umanità e per il mondo.

In questa luce di vita e di speranza – accesa in noi dal Vangelo – possiamo considerare la vostra professione di medici cattolici, convenuti qui a Roma da tutta Europa per celebrare il vostro congresso. C’è bisogno, in effetti, di una Parola di vita – di vita eterna – a fondamento e sostegno di una professione – che per voi è una vocazione e una missione – tanto impegnativa. Una professione a diretto contatto con le persone, persone in situazione di fragilità, di precarietà, di sofferenza. Una professione che comporta coinvolgimento, empatia, amore, compassione. Com-passione, nel senso etimologico della parola: patire-con, prendere su di sé, con-dividere il pathos, lo stato d’animo e la sofferenza del  malato. Ce lo ha spiegato bene – come sempre, con parole avvincenti e persuasive – Papa Benedetto, nell’Enciclica sulla speranza Spe salvi: “Accettare l’altro che soffre significa assumere in qualche modo la sua sofferenza, cosicché essa diventa anche mia. Ma proprio perché ora è divenuta sofferenza condivisa, nella quale c’è la presenza di un altro, questa sofferenza è penetrata dalla luce dell’amore. La parola latina con-solatio, consolazione, lo esprime in maniera molto bella suggerendo un essere-con nella solitudine, che allora non è più solitudine” (n° 38). Voi, come medici, avete accesso nella solitudine della persona malata, ne com-patite la sofferenza, con la vostra competenza diagnostica, terapeutica, riabilitativa e profilattica.  Competenza istruita dalla scienza medica e innervata dalla fede, dalla speranza e dalla carità. Quest’animazione teologale dà al vostro operare sanitario una dignità più che professionale: un valore quasi ministeriale. L’“indole secolare” della vostra vocazione – per usare l’espressione del Concilio Vaticano II (Lumen gentium, 31) – inscrive il vostro lavoro nella ministerialità evangelizzatrice e salvifica della Chiesa: siete ministri nel saeculum (nella società e nel mondo) della carità terapeutica della Chiesa. Abbiate dunque la consapevolezza di questa dignità teologale ed ecclesiale. Essa è fondamento e fonte di una spiritualità della vostra professione. Dire spiritualità equivale a dire la vita bella e buona del Vangelo, scandita dalle beatitudini e animata in noi dallo Spirito di Dio. Per questa elevazione spirituale, il vostro lavoro diventa luogo e via di santificazione.

Questa vostra professione è chiamata oggi a misurarsi con le sfide del progresso biomedico e biotecnologico e i loro risvolti bioetici. A queste sfide occorre far fronte con una ratio non meramente tecnica, esposta a derive utilitaristiche ed efficientistiche, ma sapienziale: una ratio capace di integrare le opportunità della scienza con l’ordine dei valori, per una prassi medica umana e umanizzante. A questa medicina sapienziale vi chiamano e vi abilitano la fede e la grazia, cui sempre devono attingere la vostra coscienza e la vostra prassi medica. Sia per voi quest’Anno della fede un tempo di grazia, per una professionalità medica improntata al Vangelo e vissuta per gli altri come testimonianza evangelizzatrice. 

 Il raggio europeo di questo congresso vi ha portato a considerare su scala continentale i problemi bioetici, avendo sullo sfondo le radici e l’anima cristiana dell’Europa. Li avete affrontati con speciale attenzione alle fasi più precarie e minacciate della vita oggi: la fase iniziale e terminale. Li avete considerati in rapporto a quella anti-life mentality – denunciata dal Beato Giovanni Paolo II nella Familiaris consortio (n° 30) –, che come un vento soffia forte sul nostro Continente. Un vento che penetra la cultura, l’educazione, la politica, le istituzioni, il diritto, la comunicazione e influenza il pensare e l’agire, contrastando spesso il “Vangelo della vita”. Questo contrasto vi chiama a una rinnovata consapevolezza e a una testimonianza coraggiosa e profetica del bene sacro e inviolabile della vita. In tempi critici non basta l’impegno consueto e ordinario. Occorre l’audacia di chi non s’adegua, la coraggiosa franchezza, la parresia – così la chiamano il Vangelo e San Paolo – di dire la verità “nonostante tutto”.  Il medico cristiano sta sempre dalla parte della vita: una medicina che provoca la morte è una negazione, una sconfessione della professione medica. La stagione in cui viviamo – nella nostra Europa più che altrove e più che mai – ha bisogno della vostra fedeltà di medici amanti della vita, soprattutto nelle sue fasi e condizioni più fragili e precarie. E’ una fedeltà “sul campo” che conquista con la forza della convinzione e della coerenza operativa.

Cari fratelli e sorelle, il Vangelo della vita e della speranza – di cui abbiamo avuto un’eco significativa ed efficace nella liturgia odierna – vi sia d’incentivo e d’incoraggiamento nel vostro quotidiano lavoro di medici cattolici, chiamati a farvi samaritani illuminati e solleciti di ogni persona che soffre ed insieme promotori di strutture sanitarie improntate alla carità e alla giustizia. Il vostro operare non abbia altro intento e criterio che questo: la centralità del malato nell’esercizio della medicina e nel governo delle istituzioni sanitarie. E’ questo il modo più elevato e qualificato di vedere e curare Cristo nel malato e meritare l’appartenenza al Regno di Dio (cfr Mt 25,31-46).

   

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