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INAUGURAZIONE DELL'ANNO GIUDIZIARIO
DEL TRIBUNALE DELLA ROTA ROMANA

OMELIA DEL CARD. TARCISIO BERTONE,
SEGRETARIO DI STATO DEL SANTO PADRE

Sabato, 26 gennaio 2013

 

Illustri Giudici, distinti Collaboratori
del Tribunale Apostolico della Rota Romana!

Questo momento orante, che precede l’Udienza che vi concederà il Santo Padre, si colloca nel contesto della solenne inaugurazione dell’attività giudiziaria del vostro Tribunale, che molto opportunamente volete ogni anno iniziare con la Celebrazione eucaristica e con l’invocazione allo Spirito Santo, affinché rinnovi in ciascuno di voi la passione per la verità, illuminando il vostro peculiare servizio della giustizia. Vi saluto tutti molto cordialmente, ad iniziare dal Decano, Sua Eccellenza Mons. Pio Vito Pinto, che da poco è stato chiamato a questo incarico. Con lui saluto i Prelati Uditori, gli Officiali e gli Avvocati, esprimendo a tutti l’espressione del mio apprezzamento per gli importanti compiti a cui attendete con grande dedizione e riconosciuta professionalità, quali fedeli collaboratori del Papa e della Santa Sede.

Oggi è la festa dei santi Timoteo e Tito, discepoli di san Paolo e figure di grande rilievo nella Chiesa nascente. Furono a capo, l’uno della comunità di Efeso, l’altro di quella di Creta, e spesero la loro esistenza per la diffusione del Vangelo seguendo l’Apostolo e ponendo fedelmente in pratica le sue direttive.

Timoteo era oriundo di Listra, nell’Asia Minore; di padre greco, fu educato all’osservanza delle Sacre Scritture secondo la tradizione religiosa ebraica, essendo la madre e la nonna di origine ebrea. Timoteo seguì da subito con profonda convinzione l’esempio delle due donne che accolsero convintamente la buona novella portata da Paolo. Il ministero di Timoteo si caratterizzò per un continuo andare nelle comunità dove l’Apostolo lo inviava, per poi tornare ad aggiornarlo. Con lui sostò circa un anno e mezzo ad Efeso. Lo precedette poi a Gerusalemme, per portare il frutto delle collette raccolte tra i gentili in favore dei poveri della Comunità gerosolimitana. Nella Città santa Paolo fu arrestato, e Timoteo lo seguì prima a Cesarea e poi a Roma, assistendolo in tutte le sue necessità e firmando con lui le lettere ai Colossesi, ai Filippesi e a Filemone. Dopo questa prima prigionia romana, Paolo affidò a Timoteo l’importante comunità di Efeso, dove fu sempre molto venerato dai cristiani. Ma l’elogio più bello di lui lo si trova nelle Lettere paoline, dove è chiamato «figlio mio carissimo e fedele nel Signore» (1 Cor 4,17), «mio collaboratore» (Rm 16,21), «fratello nostro e ministro di Dio nella predicazione del Vangelo di Cristo» (1 Ts 3,2).

Tito, nato ad Antiochia, di origine greca per parte sia di padre sia di madre, abbracciò il cristianesimo durante il primo viaggio apostolico di Paolo e Barnaba e fu battezzato dall’Apostolo. Non avendo una formazione basata sulla legge mosaica, come Timoteo, ma quella del mondo dei gentili, Paolo e Barnaba lo presero con sé e lo condussero alla comunità di Gerusalemme (cfr At 15) per mostrare agli scettici quali frutti stava producendo il Vangelo tra i non circoncisi. Paolo, nella Lettera ai Galati, faceva notare con compiacimento che in quella occasione «neppure Tito, che era con me, sebbene fosse greco, fu obbligato a farsi circoncidere» (Gal 2,3). La libertà del Vangelo aveva trionfato sulle prescrizioni legaliste e ognuno poteva finalmente «adorare Dio in spirito e verità» (cfr Gv 4,24).

Le Letture dell’odierna liturgia sottolineano l’urgenza della fede in ordine soprattutto all’annuncio del Regno. Di fronte alla mentalità secolarista e praticamente agnostica in cui siamo immersi, risuonano quanto mai incoraggianti le parole di san Paolo rivolte a Timoteo: «Dio non ci ha dato uno spirito di timidezza, ma di forza, di carità e di prudenza. Non vergognarti dunque di dare testimonianza al Signore nostro» (2 Tm 1,7-8). Siamo circondati da un ambiente che spesso ostenta indifferenza nei confronti della religione o anche aperta insofferenza per ogni richiamo ai superiori valori del Vangelo. La secolarizzazione ha largamente influenzato la mentalità corrente, trasformandosi in non poche coscienze in dichiarato secolarismo. Non possiamo nasconderci le difficoltà che un simile clima culturale oppone all’azione evangelizzatrice della Chiesa. Può succedere che la previsione di tali ostacoli freni il necessario slancio apostolico nei vari ambiti in cui si esplica l’opera ecclesiale, tra i quali quello della giustizia.

La funzione giudiziale, infatti, non esula dall’impegno evangelizzatore della Chiesa, ma è parte viva della sua missione salvifica. All’interno della Chiesa, infatti, vi sono diversi ministeri che concorrono a questa sua universale missione. L’aspetto pastorale della funzione del giudice ecclesiastico trova il suo solido fondamento nell’ecclesiologia del Concilio Vaticano II, secondo la quale gli aspetti visibili della Chiesa sono inseparabilmente uniti a quelli spirituali, formando una sola, complessa realtà, paragonabile al mistero del Verbo incarnato. La dimensione giuridica e quella pastorale sono quindi strettamente unite nella Chiesa. Anzitutto vi è una loro armonia derivante dalla comune finalità: la salvezza delle anime. Ma soprattutto l’attività giuridico-canonica è per sua natura pastorale, in quanto costituisce una peculiare partecipazione alla missione di Cristo Pastore. Non sarebbe possibile condurre le anime verso il Regno dei Cieli, se si prescindesse dall’atteggiamento di carità e di prudenza che deve animare anche l’impegno di far osservare fedelmente la legge e i diritti di tutti nella Chiesa.

Cari Giudici, anche a voi è rivolta l’esortazione di san Paolo ad avere il coraggio di proseguire con serenità il vostro delicato e importante ministero ecclesiale, confidando nella «forza di Dio» (2 Tm 1,8), soprattutto quando lo svolgimento della vostra attività giudiziaria non è da tutti compresa o può comportare anche un «soffrire per il Vangelo» (cfr 2 Tm 1,8). Gesù stesso, nel brano evangelico or ora ascoltato, suggerisce il segreto di un ministero pastorale fruttuoso, capace di vincere le diffidenze e di conquistare il cuore anche di chi è prevenuto ed ostile: «In qualunque casa entriate, prima dite: “Pace a questa casa”!» (Lc 10,5). È il saluto di Gesù risorto consegnato agli Apostoli la sera di Pasqua: «Pace a voi!». La pace scaturisce dalla Risurrezione del Signore che ha abbattuto ogni muro, come aveva ribaltato la pietra del sepolcro, e ha fatto dei due un popolo solo, vincendo l’inimicizia. La pace è un bene messianico, il trofeo conquistato dal Signore nel suo combattimento vittorioso contro il peccato e la morte; un bene da chiedere con insistenza al Signore, affinché di esso pervada il nostro animo. Soltanto con la pace nel cuore si può raggiungere quella serenità d’animo, indispensabile per formulare giudizi secondo equità e verità.

Al mondo segnato purtroppo dalle guerre, alle famiglie distrutte da odii e rancori, a quanti sono stanchi e sfiduciati, ad ogni uomo è inviata la Chiesa ad annunciare la pace e la giustizia di Dio in Cristo Gesù. Ovunque giunga il ministero di quanti esercitano una missione nella Chiesa, si fa presente il Regno di Dio, a cui appartengono coloro che hanno ricevuto tutto gratuitamente e tutto gratuitamente donano: l’amore e la misericordia. Per questo, essi non portano con sé sicurezze terrene, appoggi umani se non la Parola di Dio per la quale sono stati inviati. La Parola che dà fondamento alle loro parole.

Noi non siamo i padroni né della Parola che annunciamo, né delle persone a cui la annunciamo. Siamo piuttosto i servi dell’una e delle altre, impegnati dalla grazia di Dio a farci «tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno» (1 Cor 9,22). Vivere questa consapevolezza traendone le conseguenze per quanto concerne il comportamento quotidiano, significa fare spazio nella propria esistenza allo Spirito Santo.

Maria SS.ma, Madre della Chiesa, Sposa dello Spirito Santo ci ottenga con la sua potente intercessione ciò che invochiamo in questa Santa Messa: i doni della sapienza e dell’ intelletto, affinché possiamo accogliere sempre e nuovamente la vera logica evangelica, unico criterio di giudizio secondo verità e carità.

 

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