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OMELIA DEL CARDINALE ANGELO SODANO 
DURANTE LA SANTA MESSA NELLA BASILICA DI SAN PIETRO
 PER LA CELEBRAZIONE DEL GIUBILEO 
DELL'UNIVERSITÀ CATTOLICA DEL SACRO CUORE

Giovedì, 13 Aprile 2000

 

Cari Concelebranti,
Signor Rettore, Docenti e studenti dell'Università Cattolica del Sacro Cuore,
Distinte Autorità,
Fratelli e sorelle nel Signore!

Siete convenuti numerosi a Roma per la celebrazione del Grande Giubileo, e per rinnovarvi interiormente, per un migliore servizio alla Chiesa ed alla società. L'onda di grazia che il Giubileo del 2000 sta riversando nel mondo penetrerà così nel cuore di tutti voi, chiamati a portare il fermento del Vangelo nella realtà contemporanea.

Stiamo infatti vivendo un periodo di trasformazione della società e della cultura i cui esiti sono molto incerti. Come cristiani abbiamo il dovere di non lasciar mancare il lievito evangelico a questo grande processo di maturazione, e perché la presenza cristiana sia efficace occorre una sinergia di intelligenze e di risorse culturali. La vostra Università, per il ruolo che svolge e soprattutto per la sua ispirazione, rappresenta un elemento imprescindibile di questo progetto.

1. Il roveto ardente

È necessario per questo, riscoprire il "carisma" delle origini, quello che animò i grandi ispiratori del vostro Ateneo, dal venerabile Toniolo che a lungo ne preparò la nascita con le sue molteplici iniziative culturali, a Padre Agostino Gemelli che gli diede vita e orientamento. Fu lui a volere che la vostra Università portasse dichiarato fin nel nome, quello del Sacro Cuore, il suo legame con Cristo. Un nome che non può risolversi in un'etichetta, ma è piuttosto criterio ispiratore, programma, identità che vi distingue.

Ed è Cristo che siete venuti ad incontrare in questa vostra celebrazione giubilare. Cristo nella pienezza del suo mistero divino-umano, come il Vangelo appena proclamato ce lo ha presentato:  Prima che Abramo fosse, Io sono (Gv 8, 58). In questo verbo al presente che mette alla prova la sintassi, andando oltre le regole della consecutio temporum, affiora il mistero della divinità di Cristo.

Io sono è l'espressione con cui Dio stesso si qualificò nella teofania del roveto ardente. A Mosè che gli chiedeva il nome, rispose:  Io sono colui che sono (Es 3, 14). È il nome di Dio che Gesù fa suo:  quel nome, dirà Paolo, che è al di sopra di ogni altro nome (Fil 2, 10); nome che gli appartiene in quanto Verbo che da sempre è "presso il Padre" (Gv 1, 1), e pertanto condivide la sua eternità, in quell'assoluto presente della vita divina che è tutt'altra cosa rispetto al succedersi del tempo proprio delle creature. Io sono:  pienezza dell'essere, Mistero del totalmente Altro, che in Gesù si rende visibile.

Accompagnando il Santo Padre al Monte Sinai, il 26 febbraio scorso, mi sono anch'io inginocchiato nel luogo stesso dove fioriva il roveto di Mosè, ripensando a quelle parole misteriose di Jawhé:  Io sono Colui che sono. È la voce di Dio che parla al cuore di tutti coloro che umilmente lo vogliono ascoltare.

Gesù stesso ce lo ricorda, nella sua preghiera di giubilo:  Ti ringrazio, o Padre, [...], perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli (Mt 11, 25). Per incontrare Dio in Cristo anche lo scienziato deve farsi semplice. Con l'umiltà dei pastori di Betlemme, o di san Francesco davanti al presepio di Greccio, ogni cristiano potrà così incontrare Cristo.

2. II Verbo si fece carne

Celebrare il Giubileo, a duemila anni dalla nascita di Cristo, significa fermarsi in contemplazione adorante di questo mistero:  il Verbo si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi (cfr Gv 1, 14). Di questo mistero l'evangelista Giovanni annuncia lo splendore:  noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito del Padre, pieno di grazia e di verità (Gv 1, 14). Ma al tempo stesso, questo mistero si nasconde nella "kenosi" della croce. Dio ha veramente assunto la "forma del servo" (cfr Fil 2, 7), la nostra concreta umanità:  non l'apparenza umana, come suggeriva l'antica eresia docetista, ma l'integra realtà dell'uomo, escluso il peccato (cfr Eb 4, 15). 

Occorre riscoprire sempre di nuovo questo mistero, che il Concilio di Calcedonia nel 451 definì, affermando la piena divinità e la piena umanità di Cristo, due nature unite nella persona del Verbo, inscindibili ma anche inconfondibili. Ci ha ricordato, a tal proposito, il Catechismo della Chiesa Cattolica (n. 464):  "L'evento unico e del tutto singolare dell'incarnazione del Figlio di Dio non significa che Gesù Cristo sia in parte Dio e in parte uomo, né che sia il risultato di una confusa mescolanza di divino e di umano. Egli si è fatto veramente uomo rimanendo veramente Dio. Gesù Cristo è vero Dio e vero uomo".

Questa tradizionale formula di fede ha sostenuto la Chiesa in questi due millenni. È una formula che non esaurisce certo il mistero, ma ci aiuta a coglierlo senza cedere a riduzionismi:  mentre illumina il mistero di Cristo, illumina al tempo stesso il mistero dell'uomo. Cristo è rivelatore dell'uomo a se stesso (Gaudium et spes, 22). In Lui la nostra umanità appare in tutto il suo valore, con quelle proprietà che Dio stesso rispetta fino in fondo nella incarnazione del suo Figlio. Nasce da questo anche il rispetto che il cristianesimo ha da sempre portato all'autonomia delle realtà terrestri (ibid., 36), al valore dell'intelligenza, della filosofia, della cultura, delle scienze. Il vostro impegno di uomini di cultura non è per nulla diminuito dalla vostra fede in Cristo; al contrario, trae da essa stimolo e orientamento, restando sul terreno del più alto rigore scientifico.

3. Cristo:  incontro di Dio e dell'uomo

Siete, dunque, qui a rinnovare la vostra fede in Cristo. A questo hanno mirato tutti i Giubilei della storia, dal 1300 fino ad oggi, ma è questo in modo particolare l'obiettivo del Grande Giubileo che stiamo celebrando.

Fissando gli occhi sul volto di Cristo, siamo invitati a riscoprire innanzitutto il cammino con cui Dio ci ha raggiunti, il cammino discendente, che lo ha portato sul nostro terreno, per cercare come Buon Pastore la pecora smarrita. "In Gesù Cristo - ci ha ricordato il Papa nella Tertio Millennio adveniente - Dio non solo parla all'uomo, ma lo cerca" (n. 7). Lo cerca lì dove si è perduto, "nella selva selvaggia e aspra e forte" del peccato, per dirla con Dante (Inferno, I, 4).

Ma in Cristo scopriamo anche la linea ascendente, con cui l'uomo cerca Dio e si apre all'incontro con lui. Questo movimento ascendente sarebbe in realtà del tutto inefficace, se Dio stesso non si fosse messo dalla parte dell'uomo. In Cristo c'è Dio che ama l'uomo, c'è insieme l'uomo che ama Dio. Cristo è il perfetto "sì" dell'uomo a Dio. Per questo, ci ricorda Paolo, è sempre attraverso lui che sale a Dio il nostro Amen per la sua gloria (2 Cor 1, 20). Egli è la via che ci conduce al Padre:  Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me (Gv 14, 6).

4. La grazia del Giubileo

Metterci sulla via di Cristo implica una "conversione" che, con terminolo gia biblica, è detta metanoia, ossia cambiamento dei nostri pensieri, dei nostri atteggiamenti, dei nostri progetti di vita. Metanoia è lasciare qualcosa, è abbandono di tutto ciò che è incompatibile col Vangelo. Ma più ancora che in questo aspetto negativo, la sostanza della conversione è nella dimensione positiva della scelta radicale di Cristo. Troppo spesso ci fermiamo alla dimensione negativa, accontentandoci di un cristianesimo mediocre, che si ritiene già appagato quando resta lontano dal peccato, che interrompe la nostra amicizia con Dio. 

L'impegno giubilare ci pone invece nella prospettiva di una conversione che ci liberi non solo dal peccato, ma anche dalle sue conseguenze, i residui negativi che il peccato lascia in noi persino dopo che è stato perdonato. È a questo che alludono le cosiddette "pene temporali" che il dono dell'indulgenza viene ad eliminare, se incontra le nostre disposizioni profonde. Invitandoci a questa purificazione veramente radicale, la Chiesa ci addita il traguardo della santità, ci invita a lasciarci "conquistare" da Cristo, come s'esprime Paolo nella lettera ai Filippesi (3, 12). 

La grazia giubilare che egli ci dona è forza sovrabbondante, ottenuta attraverso l'intercessione efficace della Chiesa. Da soli non saremmo capaci di superare il nostro peccato. Ma la potenza di Cristo ci soccorre. Sentiamo come s. Ambrogio descrive questa sua forza sanante e vivificante:  Cristo è tutto per noi:  se vuoi curare una ferita, egli è medico; se sei riarso da febbre, è fontana; se sei oppresso dall'iniquità, è giustizia; se hai bisogno di aiuto, è forza; se temi la morte, è vita; se desideri il cielo, è via; se fuggi le tenebre, è luce; se cerchi cibo, è alimento (De virginitate 99).

5. La professione di fede

Mi sembra che qui, presso la tomba di Pietro, Gesù ponga anche a noi la domanda che un giorno pose agli Apostoli:  Voi chi dite che io sia? E qui ancora una volta Pietro ci invita a far nostra la sua professione di fede:  Tu sei il Cristo, il figlio del Dio vivente (Mt 16, 15-16).

Su questa confessione di fede i martiri hanno scommesso la loro vita. È questa la testimonianza che ci viene ripetuta, nella liturgia odierna, dal Papa s. Martino I, martire del VII secolo. Tempi, i suoi, così lontani dai nostri, situazioni storiche così diverse, con la tensione fra il Papa e l'Imperatore di Costantinopoli. Il Papa Martino dovette difendere la dottrina cristiana e fu per questo confinato in esilio in Chersoneso, nell'attuale Crimea, dove morì fra grandi sofferenze sopportate per amore a Cristo ed alla sua santa Chiesa. Morì per ricordare alla Chiesa il mistero di Cristo, vero Dio e vero uomo, che ci vede oggi qui riuniti.

6. Conclusione

Questo mistero l'Università Cattolica del S. Cuore lo porta inscritto fin nel nome, quasi come un suo DNA, un progetto genetico a cui tutto si richiama. Siatene testimoni coraggiosi voi tutti, docenti, alunni, amministratori, operatori ed amici che a diverso titolo fate parte di questa grande famiglia a cui guarda con affetto l'intera cattolicità italiana.

È l'augurio che si fa preghiera, mentre offriamo al Signore il sacrificio eucaristico, nel quale si rende presente il mistero della nostra redenzione.

 

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