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SANTA MESSA NELLA BASILICA DI SAN PAOLO
A CONCLUSIONE DELL’OTTAVARIO PER L’UNITÀ DEI CRISTIANI

OMELIA DI GIOVANNI PAOLO II

Lunedì, 25 gennaio 1988

 

1. “Io sono un giudeo, nato a Tarso di Cilicia . . . pieno di zelo per Dio, come oggi siete tutti voi” (At 22, 3).

La chiesa riascolta oggi il discorso straordinario che l’uomo in catene (At 22, 2), dall’alto della scalinata tra la torre e il Tempio di Gerusalemme (At 21, 35), rivolse un giorno in lingua ebraica (At 22, 2), al popolo in tumulto.

È un discorso che ci aiuta a comprendere la sconvolgente novità della nostra fede, il suo carattere di avvenimento imprevedibile, di irruzione folgorante nella nostra esistenza, che ne viene messa in questione e indotta a riconsiderare tutte le certezze sulle quali precedentemente si reggeva.

“Io perseguitai a morte questa nuova dottrina . . .” (At 22, 4), dice Paolo. È sconcertante costatare come, a volte, la violenza delle passioni umane sembri trovare alimento proprio nello zelo per Dio. La spiegazione di ciò va cercata nella precarietà di un equilibrio spirituale che induce il soggetto a vedere in ogni “novità” una minaccia, tanto più temibile quanto meno essa appare omogenea all’universo dei significati che fino a quel momento danno consistenza alla sua vita. Accade allora che un simile equilibrio, fragile perché intimamente insicuro, tenda a scomporsi ben presto nella violenza, motivata - se la questione è religiosa - con lo zelo per la religione. Ma si tratta di zelo “non illuminato” (Rm 10, 1), come dirà Paolo stesso giudicando, alla luce della propria esperienza, il comportamento dei suoi connazionali.

2. Negli Atti degli Apostoli, troviamo, al contrario, un esempio di zelo illuminato tanto più significativo in quanto si pone quando ormai si va profilando la tensione tra la Sinagoga e la Chiesa nascente. È l’esempio di Gamaliele, dottore della Legge (At 5, 34), il quale parlando agli Israeliti, li esortava: “Lasciate stare questi uomini e rimandateli: perché se questo disegno, o quest’opera, è dagli uomini si dissolverà; ma se è da Dio non potrete dissolverla” (At 5, 33). Questa è la voce di un uomo veramente radicato nel mistero, capace di portare in se stesso la pazienza di Dio nella storia. L’atteggiamento di Gamaliele non indulge ad un irenismo facile, privo di convinzioni realmente rassodate nello spirito, e perciò incosciente sia della posta in gioco che della costante minaccia che grava su di essa. Gamaliele è un uomo pieno di zelo per Dio; egli sa andare incontro alle crisi inevitabili della storia con quella fiducia salda e serena, che è propria dell’uomo veramente radicato nella luce e nell’amore dell’Eterno.

3. Lo “zelo non illuminato”, di cui parla l’Apostolo, è frutto dell’insicurezza ansiosa, dell’amore cieco, il quale non sa maturare nella conoscenza del mistero.

Il fanatismo, che ne consegue, è il fallimento nell’amore di Dio.

Quante volte nella storia questo fallimento doloroso ha lasciato le sue cicatrici nel tessuto invisibile dell’unità della Chiesa!

Quante volte anche fra i cristiani, in luogo del discernimento tranquillo di una fede salda perché aperta realmente al mistero, ha prevalso la timidezza ansiosa pronta al rifiuto - magari al rifiuto violento - sintomo infallibile di insicurezza e di crisi!

L’esperienza di Paolo di Tarso deve illuminarci e ravvivare la nostra speranza. Il suo zelo focoso e intollerante si scontra con la luce che lo acceca e lo atterra. Gli occhi della sua mente gradatamente si aprono a tale luce sino alle altezze di una visione interamente rinnovata di ogni cosa, così che allo zelo ardente del suo cuore si dischiudono gli spazi sconfinati dell’amore.

In questa celebrazione eucaristica, nel ricordo delle esperienze storiche vissute, invochiamo questa luce su tutta la Chiesa.

4. Invochiamola sorretti dalla speranza. Ad essa ci invita il profeta Isaia con le parole riportate dalla liturgia odierna: “Il Signore degli eserciti preparerà per tutti i popoli, su questo monte, un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti . . .” (Is 25, 6).

La speranza dei popoli, e specialmente quella del popolo che Dio si è scelto, si esprime nel simbolo umanissimo di un banchetto alla fine della storia, “sopra il monte”. Il mangiare e bere dell’uomo, su quel monte, diventerà finalmente eucaristia; esso sarà consapevolmente vissuto nello spazio interiore di quel rendimento di grazie continuo e spontaneo, nel quale, finalmente, l’uomo troverà se stesso, aderendo alla verità che lo costituisce.

La fede è l’alba di questa condizione finale, liberata dell’uomo che realizza pienamente nell’amore la sua verità di creatura.

Il banchetto di cui il profeta ci parla si svolge in una luce della quale la fede, nella sua penombra, è anticipazione fascinosa, ed insieme fervida aspettazione ed incessante domanda.

In questa luce l’uomo, alla fine, saprà ricevere se stesso e le cose come un dono, vivendo la libertà suprema della lode. “Egli strapperà su questo monte il velo che copriva la faccia di tutti i popoli, e la coltre che copriva tutte le genti” (Is 25, 7).

L’amore dell’uomo, come la esperienza di san Paolo ci aiuta a comprendere, è prigioniero di questa “coltre”; e si consuma vanamente nel timore e nella diffidenza, nella violenza generata dal timore, fino a quando non riceve un raggio almeno della luce divina.

Tale luce, per la quale “sono in attesa le isole” si è svelata sulla croce, in quel mistero del Messia sofferente ed abbandonato, “scandalo per i Giudei, follia per i pagani”, nel quale lo sguardo della fede riconosce l’impensabile profondità dell’amore di Dio.

Il monte sul quale Dio ha squarciato il velo e imbandito il banchetto è, secondo la fede della Chiesa, quello stesso sul quale è stata piantata la croce del Signore.

5. Di tale evento la Chiesa sa di essere stata fatta banditrice dal suo Signore: “Andate per il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura” (Mc 16, 15). Nella figura di Paolo essa ricorda e venera l’esempio più grande di una vita apostolica spesa nell’adempimento di questo comando del Signore, una vita consumata nella passione missionaria alimentata dalla rivelazione straordinaria del “mistero nascosto nei secoli”: cioè del disegno di innestare tutte le genti nell’eredità della promessa, nell’attesa operosa del banchetto finale già iniziato nel memoriale della morte del Signore.

La Chiesa, sulle orme di Paolo, ha conosciuto lungo i secoli esempi mirabili di zelo missionario, di zelo per Dio, radicato in un amore maturo; esempi di zelo per la promessa in via di compimento. Nel corso di quest’anno ricorderemo la conversione del Principe Vladimiro di Kiev e del suo popolo, per la quale, con l’ingresso nella Chiesa degli slavi dell’Est, trovò compimento ideale la magnifica opera missionaria dei santi Cirillo e Metodio.

La memoria di questo evento così ricco di frutti per la causa del Vangelo, ma anche, possiamo ben dirlo, per la cultura della famiglia umana, ci darà occasione di riflettere sui compiti che attendono la Chiesa ai nostri giorni e di approfondire, nella fede, il senso della sua storia passata, e l’appello che viene da essa per il presente.

6. Nel contesto di questa celebrazione conclusiva della Settimana di preghiere per l’Unità dei cristiani il pensiero si indirizza, prima di tutto, alla Chiesa sorella del Patriarcato di Mosca che ha assunto gran parte dell’eredità cristiana dell’antica Rus’ di Kiev. Ad essa l’intera comunità cattolica, nella persona del Vescovo di Roma, porge l’abbraccio della pace del Signore in quest’ora solenne della sua storia.

Possa la memoria del Battesimo di san Vladimiro ravvivare la coscienza di quei vincoli strettissimi di comunione che già ci uniscono ai nostri fratelli ortodossi; insieme alla consapevolezza della loro importanza ai fini della ricostruzione dell’unità visibile di tutti i battezzati. A nessuno può sfuggire, infatti, sino a che punto l’evangelizzazione del nostro mondo dipende in misura determinante dall’unità di tutti i cristiani, d’Oriente e d’Occidente, come segno visibile dell’amore di Dio operante nella storia.

Mi rallegro pertanto, rendendone grazie a Dio, dei progressi costanti nella reciproca comprensione con tutte le Chiese e comunità ecclesiali con le quali siamo in dialogo. Il progresso continuo del movimento ecumenico, malgrado le difficoltà di una così difficile storia, è in se stesso un chiaro indirizzo della volontà del Signore, al quale rinnoviamo incondizionata obbedienza.

7. Voglio ricordare in particolar modo i fratelli e le sorelle della Chiesa cattolica ucraina, costruita con le pietre vive della loro fede, che si collega con l’eredità di san Vladimiro. Essi, obbedendo alla voce della loro coscienza, sono nella piena comunione cattolica conservando l’eredità orientale. Il Concilio Vaticano II, grazie al suo approfondimento ecclesiologico, ha aperto una nuova via di incontro con l’Oriente cristiano, con il quale noi oggi speriamo non lontana la piena comunione.

8. Vorrei estendere ancora il mio augurio di pace e di prosperità a tutte le care popolazioni - ai Russi, agli Ucraini, ai Bielorussi - nelle quali vivono, come parte essenziale della loro storia e della loro cultura, le comunità dei fedeli ortodossi e cattolici che celebrano, nella memoria del Millennio, l’inizio della loro storia cristiana.

Affido infine a Maria, memoria vivente dei grandi eventi della Chiesa in tutto il corso della sua storia, queste riflessioni con le quali ho voluto anticipare alcuni dei contenuti di due documenti di prossima pubblicazione; il mio vivo desiderio è che tutti ci prepariamo a prendere parte, nello spirito - valutando in modo adeguato la grande rilevanza ecclesiale, ecumenica e culturale dell’avvenimento - alla grande festa dei nostri fratelli ortodossi e cattolici, eredi di san Vladimiro.

Possa questa importante ricorrenza affrettare la piena realizzazione della preghiera di Gesù nel cenacolo: “Ut omnes unum sint . . .”.

“Che tutti siano una cosa sola”.

Amen!

 

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