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MESSA IN SUFFRAGIO DEI DUE PONTEFICI PAOLO VI E GIOVANNI PAOLO I

OMELIA DI GIOVANNI PAOLO II

Mercoledì, 28 settembre 1988

 

“. . . Dove sono io, là sarà anche il mio servo.
Se uno mi serve, il Padre lo onorerà”
(Gv 12, 6).

1. Queste parole Gesù pronuncia all’inizio della settimana santa, e costituiscono come il prologo della sua passione. Nell’imminenza della sua immolazione d’amore al Padre per la salvezza degli uomini, che è al tempo stesso la “glorificazione” presso il Padre, egli associa strettamente a sé i servi fedeli, che nei secoli lo seguiranno col loro amore e con la loro testimonianza. Essi saranno là, dov’è lui. Anch’essi, come lui, saranno onorati dal Padre.

Celebrando questa liturgia eucaristica in memoria dei miei venerati e sempre cari predecessori Paolo VI e Giovanni Paolo I, nel decimo anniversario della loro chiamata al cielo, sentiamo più viva e parlante sorgere nella nostra mente e nel nostro cuore la loro figura. Anche loro, soprattutto loro, sono stati i servi di Cristo; anch’essi sono stati chiamati a partecipare a quella “glorificazione”, alla quale non si giunge se non attraverso la croce.

“Dove sono io, là sarà anche il mio servo. Se uno mi serve, il Padre lo onorerà”. In questo momento, in cui stiamo per immolare la vittima divina dell’unico ed eterno sacrificio, la fede ci assicura che essi sono con Cristo, perché lo hanno servito con tutte le fibre del loro essere, sino alla immolazione finale; la fede ci assicura che, per questo, sono stati “onorati” dal Padre. Si è compiuto certamente per essi l’estremo anelito di tutta la loro esistenza: amare Dio, vedere Dio. Anche per essi, dunque, si è compiuta - e per questo li ricordiamo costantemente nella preghiera, e oggi in modo particolare - la Parola di Dio, che abbiamo udita nel fervore profetico di Giobbe: “Dopo che questa mia pelle sarà distrutta, senza la mia carne, vedrò Dio. Io lo vedrò, io stesso, e i miei occhi lo contempleranno” (Gb 19, 26-27).

2. Dieci anni fa, in questo 28 settembre, il Signore chiamava a sé il mio predecessore Giovanni Paolo I, con una morte tanto inaspettata e umanamente prematura: “magis ostensus quam datus”. Il Signore ce lo ha mostrato in quell’indimenticabile Pontificato di trentatre giorni, e poi subito tolto.

In così poco tempo egli esercitò un fascino straordinario, con il suo “senso della Chiesa”, la sua pastoralità, il suo metodo di governo, il suo tratto umile ed accattivante, il suo sorriso, il suo modo di parlare, con cui dialogava affabilmente e familiarmente con tutti, come se si trovasse a tu per tu con ciascuno. Il segreto di questa irradiazione, tuttora viva, consiste nel fatto che “Giovanni Paolo I fu sempre intimamente compreso della suprema realtà dell’amore proveniente da Dio”, come volli dire ai fedeli di Vittorio Veneto nell’agosto 1979 (Insegnamenti di Giovanni Paolo II, II, 2 [1979] 192).

A dieci anni di distanza, continua a manifestarsi e ad estendersi il ricordo e l’influsso di quell’uomo di Dio, che dimostrava la sua profonda dedizione a Dio e ai fratelli, ispirata unicamente dall’amore.

3. Mediante questa commemorazione facciamo riferimento anche al decimo anniversario - due morti così vicine nel tempo! - della dipartita di Paolo VI, il 6 agosto, nella solennità della Trasfigurazione. In questi dieci anni dalla sua scomparsa egli ha giganteggiato sempre di più nel ricordo e nella venerazione universali.

Il Signore aveva dato a Paolo VI doti incomparabili, che egli fece stupendamente fruttificare, pur nella sua delicatissima modestia: il cuore pieno di comprensione e di longanimità; l’intelligenza acuta, lucida, sintetica; lo sguardo vivo e penetrante; la volontà adamantina senza compromessi; la forza e la bellezza della espressione parlata e scritta; i monumenti delle sue encicliche e dei suoi discorsi; l’ardimento dei suoi viaggi ch’egli iniziò, primo in questo secolo, su scala internazionale, nell’assillo che urgeva nel suo intimo di proclamare la verità, di annunciare Cristo, di far amare Maria, Madre della Chiesa, di far conoscere la stessa Chiesa.

Effettivamente, come dissi a Brescia nel settembre 1982, “Paolo VI fu un dono del Signore alla Chiesa”. Ma non potevo non aggiungere: “Paolo VI è stato un dono del Signore anche all’umanità. Capì l’uomo del nostro tempo, e lo amò di un amore soprannaturale, guardandolo cioè con gli occhi misericordiosi di Cristo . . . La sua intelligenza e cultura gli diedero un senso acuto della grandezza e della miseria dell’uomo in una situazione contraddittoria come quella della nostra generazione; ma la sua fede e carità gli ispirarono quella "civiltà dell’amore" senza la quale, oggi come non mai, l’umanità difficilmente potrà trovare la soluzione ai problemi che la turbano profondamente. Capì l’uomo perché lo guardò con gli occhi di Cristo. Aiutò l’uomo, perché l’amò con l’amore di Cristo. Servì l’uomo, perché gli indicò la verità di Cristo in tutta la sua pienezza” (Insegnamenti di Giovanni Paolo II, V, 3 [1982] 588-589).

Anche la realtà somma e unificante del servizio di Paolo VI alla Chiesa e all’uomo è stata dunque l’amore: un amore che ha guardato con lungimiranza ai problemi laceranti dell’oggi per contribuire al “progresso dei popoli”; un amore che ha creduto, come Abramo, “in spem, contra spem” (cf. Rm 4, 18) che ha pazientato, che ha perdonato incomprensioni e offese, che ha mirabilmente portato avanti la Chiesa guidandola fermamente e dolcemente verso quella trasformazione, che il Vaticano II aveva richiesto a tutti i livelli; una trasformazione che - come dissi nel primo anniversario della morte - fu il particolare carisma, ma anche la particolare fatica della sua vita (cf. Insegnamenti di Giovanni Paolo II, II, 2 [1979] 98).

4. La scomparsa di due Pontefici, dieci anni fa, è stata un insieme di avvenimenti, colmi di dolore e di speranza, che hanno rappresentato un particolare “sconvolgimento”. Chiesa e mondo sono stati turbati, quasi atterriti, da quelle due morti che hanno ricordato a tutti quanto fragile e provvisoria sia la vita umana, e che, si può ben dire, il Signore agisce in modo per noi incomprensibile per farci sperimentare che è lui l’autore della vita e della morte, e solo lui guida la storia.

Superare infatti la dimensione puramente “umana” di eventi come quelli, rispondere alle domande che nascono in tale dimensione, è cosa che si può fare soltanto quando, anche qui, ci lasciamo guidare dalla fede.

E dalla fede riceviamo la capacità di leggere gli eventi terreni, per decifrare in essi il messaggio che Dio vi ha inscritto.

5. In questa prospettiva, desidero oggi, dopo dieci anni, riferirmi ai contenuti fondamentali di quella “ricca eredità”, che quei due recenti pontificati hanno lasciato alla Chiesa di oggi. Lo faccio seguendo a grandi cenni quanto ho più estesamente espresso nella prima enciclica Redemptor Hominis.

Tale eredità è costituita anzitutto dalla sempre più “matura compattezza di tutto il Popolo di Dio, consapevole della sua missione salvifica” (Redemptor Hominis, 3). Tale consapevolezza, frutto dell’azione dello Spirito durante e dopo il Concilio, fu il “primo tema della . . . fondamentale enciclica” di Paolo VI, la “Ecclesiam Suam”: “Illuminata e sorretta dallo Spirito Santo la Chiesa ha una coscienza sempre più approfondita sia riguardo al suo ministero divino, sia riguardo alla sua missione umana, sia finalmente riguardo alle stesse sue debolezze umane: ed è proprio questa coscienza che è e deve rimanere la prima sorgente dell’amore di questa Chiesa, così come l’amore, da parte sua, contribuisce a consolidare e ad approfondire la coscienza. Paolo VI ci ha lasciato la testimonianza di una tale coscienza, estremamente acuta della Chiesa” (Redemptor Hominis, 3).

Fu volontà determinata e tenacissima di Paolo VI, raccolta dall’immediato successore pur nel suo brevissimo governo, quella di manifestare l’autentico volto della Chiesa sia “al di fuori”, “ad extra”, con la rimarchevole conseguenza che “gran parte della famiglia umana, nei diversi ambiti della sua molteplice esistenza, è diventata . . . più cosciente di come sia ad essa veramente necessaria la Chiesa di Cristo, la sua missione e il suo servizio”; sia “dal di dentro”, “ab intra”, talora non senza dolorose tensioni ed atteggiamenti critici (cf. Redemptor Hominis, 4).

Un’altra componente di quella eredità, ricevuta dai due pontificati, è stata poi la maggiore unità “nella comunione di servizio e nella coscienza dell’apostolato”, che si esprime nel principio di collegialità, voluto da Cristo e vigorosamente propugnato dal Vaticano II. Il Concilio, infatti, “non ha soltanto ricordato questo principio di collegialità dei Vescovi, ma lo ha immensamente vivificato, tra l’altro auspicando la istituzione di un organo permanente” (Redemptor Hominis, 5) che fu il Sinodo dei Vescovi. Ma la coscienza della forza che tale principio ha per tutta la Chiesa si è manifestata non soltanto nella comune posizione ed azione dei Vescovi, ma anche nell’accrescersi e diffondersi dello “spirito di collaborazione e di corresponsabilità” sia nel clero che nel laicato (cf. Redemptor Hominis, 5).

Devono poi essere ricordati gli sviluppi del nuovo orientamento ecumenico, impostato “con evangelica chiarezza” da Giovanni XXIII, programmato dal Concilio, proseguito con Paolo VI e Giovanni Paolo I. Su questa strada, delicata e difficile, si è camminato insieme ai rappresentanti di altre Chiese e comunità cristiane, e si sono fatti “dei vari ed importanti progressi” (Redemptor Hominis, 6). E altrettanto si è proceduto, seppure “in altro modo e con le dovute differenze”, nell’attività che “tende all’avvicinamento con i rappresentanti delle religioni non cristiane, e che si esprime mediante il dialogo, i contatti, la preghiera comunitaria, la ricerca dei tesori della spiritualità umana” (Redemptor Hominis, 6).

6. Questa eredità si delinea oggi ancor più chiaramente, ed in questi dieci anni ha preso forma sempre più nitida e concreta. Abbiamo da continuare nel solco tracciatoci dai due compianti Pontefici. La vita della Chiesa “dal di dentro” esige da noi tutti la continua consapevolezza che la volontà salvifica del Padre, realizzata sulla croce da Cristo Signore con la cooperazione dello Spirito Santo, è affidata alla Chiesa, la quale deve proseguire nel mondo la stessa missione del Figlio di Dio fatto uomo per elevare l’uomo.

Questa responsabilità, che oltrepassa ogni forza e capacità umane, si è radicata sempre più profondamente, di anno in anno, con l’esercizio dell’accennato principio di collegialità, nella collaborazione generosa di tutte le forze della Chiesa, le quali hanno trovato nuovo impulso nei grandi temi trattati in questi anni dalle varie assemblee del Sinodo dei Vescovi.

Infine, la sua destinazione ed apertura al mondo - “Ecclesia in statu missionis” - chiama la Chiesa a percorrere le vie dell’evangelizzazione, della catechesi, del dialogo, “opportune, importune” (2 Tm 4, 2), per corrispondere al desiderio del Cristo alla vigilia e nell’ora della passione: “Ut omnes unum sint!”; “Sitio!” (Gv 17, 21; 19, 28).

7. Paolo VI e Giovanni Paolo I hanno camminato instancabili sulla via della fede e dell’amore, in mezzo alla generazione di coloro che cercano il volto di Dio (cf. Sal 24 [23], 6). Hanno guidato gli altri come pastori. Sono stati l’immagine viva del Buon Pastore tra gli uomini di questo scorcio di secolo, drammatico ed esaltante.

Preghiamo che si realizzi su di loro la promessa data da Dio a coloro che cercano mediante la fede. Essi sono stati in mezzo a noi come “i due testimoni . . ., i due olivi e le due lampade che stanno davanti al Signore della terra” (cf. Ap 11, 3. 4).

Nella luce dell’amore e della fede i due Pontefici ci parlano, con le parole stesse dell’apostolo Paolo, che abbiamo udito nella seconda lettura di questa Eucaristia: “Nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore; se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo del Signore” (Rm 14, 4-8).

Sì. Paolo VI e Giovanni Paolo I rimangono in benedizione perché ci hanno lasciato questo magistero, che va fino in fondo alle nostre anime: ciò che conta, è vivere per il Signore, appartenere a lui, lavorare, pregare e anche soffrire affinché gli uomini imparino questa, che è l’unica vera sapienza: l’amore. L’amore che è Dio (cf. Gv 4, 8). L’amore che ha creato il mondo, e che la Chiesa proclama a tutti gli uomini. L’amore che è la vita della Chiesa e dell’umanità.

In questo decimo anniversario raccogliamo ancora una volta questa testimonianza.

Vogliamo vivere di essa. Vogliamo tramandarla. Che essi intercedano per noi, che desideriamo restare fedeli alla loro eredità.

Così Dio ci aiuti! Amen.

 

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