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DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II
PER LA PRESENTAZIONE UFFICIALE
DEL NUOVO CODICE DI DIRITTO CANONICO

Giovedì, 3 febbraio 1983

Venerati fratelli Cardinali e Vescovi,
Eccellentissimi membri del Corpo Diplomatico presso la Santa Sede,
Illustri Professori ed Alunni delle Università Pontificie e Facoltà Ecclesiastiche,
Carissimi figli e figlie!

1. Ho desiderato grandemente l’incontro di oggi per favorire la solenne presentazione del nuovo Codice di diritto canonico e dar così ufficialmente inizio al cammino, non certo breve, ma - come tutti ci auguriamo - ordinato e spedito, che esso dovrà compiere nella Chiesa, a servizio della Chiesa.

Questa è, dunque, una circostanza importante, perché si pone in linea di corrispondenza, cioè in relazione diretta con l’importanza stessa del Corpus, riveduto ed aggiornato, contenente le norme della legislazione generale canonica. E vorrei anche aggiungere che tanto più significativa è la circostanza, perché, seguendo al rito religioso di ieri, durante il quale è stato opportunamente integrato il Sacro Collegio dei Cardinali con l’inserimento in esso di diciotto nuovi Porporati, vede qui presenti, felicemente riuniti, numerosi nostri fratelli e insigni Pastori.

A tutti voi, che siete qui convenuti, e con la vostra stessa partecipazione conferite all’odierna assemblea un qualificato valore di rilevanza e di rappresentatività, io desidero esprimere un grazie cordiale che vuol essere, ed è, segno di stima, di considerazione, di comunione, di reciproco conforto nei rispettivi impegni culturali, ecclesiali e sociali. Sia che il vostro lavoro si svolga qui a Roma, presso la Sede di Pietro, sia che esso abbia luogo in regioni vicine o remote, a tutti e a ciascuno di voi mi è caro rivolgere ora un reverente, affettuoso saluto, nella consapevolezza che a Roma, non solo come madre del diritto, ma anche e soprattutto come centro della Chiesa, edificata su Pietro (cf. Mt 16, 18), nessuno è mai estraneo e lontano, ma tutti - dico tutti - sono come “a casa loro”, quasi all’interno di un amato focolare spirituale. “Roma patria communis”!

2. Il diritto nella Chiesa: già sottoscrivendo il 25 gennaio scorso la costituzione apostolica “Sacrae disciplinae leges”, ho avuto modo di riprendere e di approfondire una riflessione a me consueta intorno a un’espressione, semplice solo in apparenza, nella quale è riassunta la funzione che la legge, in quanto tale, anche nella sua esterna formulazione, ha nella vita della “societas sui generis”, fondata da Cristo Signore per continuare nel mondo intero, lungo il corso dei secoli, la sua opera salvifica: “Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole . . . insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato” (Mt 28, 19-20).

Che cos’è - ci si chiede - il diritto nella Chiesa? Risponde esso alla perenne e universale missione, che queste parole supreme del Vangelo assegnano, nella persona degli Apostoli, proprio alla Chiesa? Si adegua esso alla sua natura genuina di Popolo di Dio in cammino? E perché il diritto nella Chiesa? A che serve?

3. Una prima risposta, al riguardo, può venire dalla considerazione della storia. Ciò dicendo, non mi riferisco soltanto alla storia ormai bimillenaria della Chiesa, durante la quale, in tanti secoli di indefesso lavoro e di ribadita fedeltà a Cristo, si scopre in essa, tra altri elementi di spicco, l’esistenza di un’ininterrotta tradizione canonica di prestigioso valore dottrinale e culturale, la quale va dalle prime origini dell’era cristiana fino ai nostri giorni, a cui il Codice, testé promulgato, costituisce un nuovo, importante e sapiente capitolo. No: non solo a questo io guardo; ma, risalendo indietro nel tempo, mi riferisco alla storia dei Popolo di Dio nell’Antico Testamento, allorché il patto d’alleanza del Dio d’Israele si configurò in precise disposizioni culturali e legislative, e l’uomo cui fu affidato il ruolo di mediatore e profeta tra Dio e il suo popolo, cioè Mosè, ne divenne simultaneamente il legislatore. È proprio da allora, cioè dall’alleanza del Sinai, che appare, per assumere via via progrediente rilievo, il nesso tra “foedus” e “lex”.

Notate: già secondo l’antico Israele (e questo varrà ancor più per san Paolo) la grazia di Dio precede la legge e sussiste anche senza di essa (cf. Es 20, 2; Dt 7, 7-9; Gal 3, 15-29; Rm 3, 28-4, 22), tanto da manifestarsi continuamente come perdono delle trasgressioni (cf. Dt 4, 31; Is 1, 18; 54, 8). In ogni caso, però, permane tra il Signore e Israele il vincolo d’amore, sanzionato dal reciproco impegno di Dio che promette, e del popolo che s’impegna alla fedeltà. Si tratta di un vincolo, che deve trovare espressione nella testimonianza della vita quotidiana, mediante l’osservanza dei comandamenti (cf. Es 24, 3), da Dio stesso affidati a Mosè perché li trasmettesse al popolo. Da tutto ciò scaturì un tipico modo di vita giuridicamente e liturgicamente ordinata, che diede unità e coesione a quel popolo nella sua comunione con Dio.

Leggi e comandamenti erano considerati munifico dono di Dio, e la loro osservanza vera sapienza (cf. Sir 24); e pur se a tale elevata impostazione corrispose - com’è noto - una serie di infedeltà e tradimenti, non per questo il Signore venne mai meno al suo patto d’amore e per mezzo dei profeti non mancò di richiamare il suo popolo al rispetto del medesimo patto e all’osservanza delle leggi (cf. Os 4, 1-6; Ger 2). Ma c’è di più: egli fece anche intravedere la possibilità, anzi l’opportunità e l’urgenza di un’osservanza interiorizzata, annunciando di iscrivere la sua legge nel cuore (cf. Ger 31, 31-34; Ez 36, 26-27).

In questo rapporto tra “foedus” e “lex” e, segnatamente, nell’accennata accentuazione della “religione del cuore” era già un’anticipazione dei tempi nuovi, anche questi preannunciati ed ormai maturi secondo il disegno divino.

4. Viene Gesù, il novello Mosè, il mediatore e legislatore supremo (cf. 1 Tm 2, 5), ed ecco che l’atmosfera d’improvviso si innalza e purifica. E se proclama nel discorso programmatico della Montagna di “non esser venuto per abolire, ma per dare compimento” all’antica Legge (Mt 5, 17), egli, però, dà subito un’impostazione nuova, o, meglio, infonde uno spirito nuovo ai precetti di essa: “È stato detto agli antichi . . ., ma io vi dico” (cf. Mt 5, 21-48). Rivendicando per sé una pienezza di potestà, valida in cielo e in terra (cf. Mt 28, 18), egli la trasmette ai suoi Apostoli. Potestà - si badi - universale e reale, che è in funzione di una legislazione che, come comandamento generale, ha l’amore (cf. Gv 13, 34), del quale egli stesso offre per primo l’esempio nella massima sua dimensione del dare la vita per i fratelli (cf. Gv 15, 13). Ai suoi Apostoli e discepoli chiede l’amore, anzi la permanenza nell’amore, dicendo loro che una tale “permanenza” è condizionata all’osservanza dei suoi precetti (cf. Gv 15, 10). Dopo la sua Ascensione, egli invia loro lo Spirito Santo, e per questo dono la legge - proprio come aveva predetto l’antico profeta (cf. Gl 3, 1-5) - trova il suo sigillo e vigore nel cuore dell’uomo.

Una tale prospettiva vale tuttora per tutti i credenti: mossi dallo Spirito, essi sono in grado di instaurare in se stessi questo nuovo ordine, che Paolo chiama la legge di Cristo (cf. Gal 6, 2): Cristo, cioè, vive nel cuore dei fedeli in una comunione, per la quale ciascuno instaura in se stesso il mistero della carità e dell’obbedienza del Figlio. Riappare così il nesso tra “foedus” e “lex”, e i fedeli, congiunti a Cristo nello Spirito, hanno non solo la forza, ma anche la facilità e la gioia di ubbidire ai precetti.

Di tutto ciò troviamo conferma nelle prime Comunità cristiane, costituite in Oriente e in Occidente dagli Apostoli e dai loro immediati discepoli. Ecco, ad esempio, san Paolo che, con l’autorità ricevuta dal Signore, imparte ordini e disposizioni, perché nelle singole Chiese locali tutto avvenga con la necessaria disciplina (cf. 1 Cor 11, 2; 14, 40; Col 2, 5).

5. Costruita sul fondamento degli Apostoli e dei Profeti (cf. Ef 2, 20), la Chiesa di Cristo - la Chiesa della Pasqua e della Pentecoste - iniziò presto il suo pellegrinaggio nel mondo; ed è ben naturale che, nel corso dei secoli, esigenze emergenti, necessità pratiche ed esperienze via via maturate nell’esercizio congiunto dell’autorità e dell’obbedienza, in un variare assai differenziato di circostanze, venissero a creare in seno ad essa, come realtà storica e vivente, un complesso di leggi e di norme, che già nel primo Medioevo divenne ampia ed articolata legislazione canonica. A questo riguardo mi sia consentito, fra le tante figure di canonisti e giuristi, meritatamente famosi, nominare almeno il monaco Graziano, l’autore del “Decretum” (“Concordia discordantium canonum”), che Dante colloca nel quarto suo cielo, tra gli spiriti sapienti, in compagnia di sant’Alberto Magno, di san Tommaso d’Aquino e di Pietro Lombardo, esaltandolo perché “l’uno e l’altro foro / aiutò sì che piace in paradiso” (Dante Alighieri, La Divina Commedia, “Paradiso” X, 104-105).

6. Ma, omettendo le posteriori vicende fino alla codificazione del 1917, converrà ora passare dalla prospettiva storica a quella propriamente teologica ed ecclesiologica, per ritrovare - sulla scorta di quel che ci ha insegnato il Concilio Vaticano II - le motivazioni più profonde e più vere della legislazione ecclesiastica: al variare delle disposizioni particolari, infatti, fa riscontro l’esigenza, alla Chiesa connaturale, di avere le sue leggi. Ieri come oggi. Perché? Nella Chiesa di Cristo - ci ha ripetuto il recente Concilio - accanto all’aspetto spirituale e interno c’è quello visibile ed esterno; in essa c’è unità, se è vero com’è vero che è questa una delle fondamentali sue note, ma tale unità lungi dall’escludere si compone e si intreccia con la “diversità delle membra e degli uffici” (cf. Lumen Gentium, 7-8).

In effetti, essa, Popolo di Dio e Corpo di Cristo, non è stata indistintamente fondata soltanto come comunità messianica ed escatologica “soggetta al suo Capo” (Ivi, 7), ma “come compagine visibile” e “costituita e organizzata quale società” (Ivi, 8), è stata edificata sopra la pietra (cf. Mt 16, 18), e dal Signore stesso è stata divinamente arricchita di “doni gerarchici” (cf. Lumen Gentium, 4) e di vari istituti, che sono da considerare effettivamente suoi elementi costitutivi. La Chiesa, insomma, nella sua viva unità è anche struttura visibile con precise funzioni e poteri (“sacra potestas”).

Pertanto, benché tutti i fedeli vivano in modo che “comune è la dignità delle membra per la loro rigenerazione in Cristo, comune la grazia dei figli, comune la chiamata alla perfezione, una la salvezza, una la speranza e indivisa la carità” (Lumen Gentium, 32), tuttavia questa generale e mistica “eguaglianza” (Ivi) implica la già menzionata “diversità delle membra e degli uffici”, sicché “grazie ai mezzi appropriati di unione visibile e sociale” (Ivi, 8) vengono a manifestarsi la divina costituzione e l’organica “diseguaglianza” della Chiesa. Bisogna dire, dunque, che “il Popolo di Dio non soltanto si raccoglie da popoli diversi, ma che al suo interno, altresì, si compone di vari ordini. Difatti, tra le sue membra esiste una diversità a seconda sia degli uffici . . . sia della condizione e della forma di vita” (Ivi, 13).

7. È senz’altro di diritto divino questa “diversità delle membra”, e “in effetti la distinzione che il Signore ha posto tra i sacri ministri e il resto del Popolo di Dio” (Ivi, 32), comporta nella Chiesa un duplice e pubblico modo di vivere.

Di qui consegue anche l’altra “diversità”: quella “degli uffici” o funzioni sociali, perché “tutto il corpo riceve sostentamento e coesione per mezzo di giunture e legami, realizzando così la crescita secondo il volere di Dio” (Col 2, 19): “ché le membra non svolgono tutte la medesima funzione” (Rm 12, 4).

Benché, dunque, tutti i fedeli cristiani partecipino dell’ufficio regale, profetico e sacerdotale del Capo, tuttavia i chierici e i laici ricevono distinte funzioni in ordine alla loro sociale attività, funzioni regolate e tutelate per volontà di Cristo dal “sacro diritto” (“ius sacrum”), in modo che si provveda al bene comune di tutta quanta la Chiesa.

Di qui - dico della realtà intima della Chiesa -, secondo quella diversità delle membra e degli uffici, scaturiscono i diritti e i doveri, corrispondenti alle singole persone o agli stessi gruppi, che la Chiesa, peraltro, salvo il diritto divino e nativo, ha avuto cura di regolare emanando leggi e precetti a seconda delle circostanze, cioè secondo la necessità o esigenze dei tempi e del luoghi.

Sappiamo, appunto, che il corpo visibile della Chiesa, soggetto a Cristo suo capo, nel corso dei secoli si è sviluppato dilatandosi in visibili parti integranti, cioè - secondo il linguaggio conciliare - in “più raggruppamenti organicamente collegati, che, senza pregiudizio dell’unica fede e dell’unica divina costituzione della Chiesa” (Lumen Gentium, 23), sono a buon diritto chiamati “Chiese particolari”, in ciascuna delle quali “realmente è presente e opera l’una, santa, cattolica e apostolica Chiesa di Cristo” (Christus Dominus, 11).

8. Ecco, fratelli carissimi, è da questa mirabile realtà ecclesiale, invisibile e visibile, una e insieme molteplice, che dobbiamo riguardare il “ius sacrum”, che vige e opera all’interno della Chiesa: è prospettiva che, evidentemente, trascende quella meramente storico-umana, anche se la conferma e avvalora.

Se la Chiesa-Corpo di Cristo è compagine organizzata, se comprende in sé detta diversità di membra e di funzioni, se “si riproduce” nella molteplicità delle Chiese particolari, allora tanto fitta è in essa la trama delle relazioni che il diritto c’è già, non può non esserci. Parlo del diritto inteso nella sua globalità ed essenzialità, prima ancora delle specificazioni, derivazioni o applicazioni di ordine propriamente canonico. Il diritto, pertanto, non va concepito come un corpo estraneo, né come una superstruttura ormai inutile, né come un residuo di presunte pretese temporalistiche. Connaturale è il diritto alla vita della Chiesa, cui anche di fatto è assai utile: esso è un mezzo, è un ausilio, è anche - in delicate questioni di giustizia - un presidio.

A spiegare il nuovo Libro, che oggi viene presentato, non c’è, dunque, la semplice e, in definitiva, contingente considerazione che son passati ormai tanti anni dal lontano 1917, quando il mio predecessore Benedetto XV di venerabile memoria promulgò il Codice Canonico, rimasto in vigore fino ai nostri giorni. C’è piuttosto e preliminarmente, la ragione che il diritto ha un suo posto nella Chiesa, ha in essa diritto di cittadinanza.

Naturalmente - come negarlo? - resta valida anche l’accennata ragione che da quell’anno tutto un mondo, sia per l’apporto conciliare, sia per il progresso degli studi e anche psicologicamente, è cambiato tanto all’interno quanto al di fuori della Chiesa. C’è stato - giova rilevare - soprattutto il Concilio Vaticano II, che ha introdotto accentuazioni e impostazioni, talora nuove ed innovatrici, in non pochi settori: né solo - come ho detto finora - in quello dell’ecclesiologia, ma anche nel campo della pastorale, nell’ecumenismo e nel ribadito impegno missionario. Chi non sa, ad esempio, che l’attività pastorale viene oggi giustamente concepita secondo una più vasta e incisiva visione che, come è aperta al contributo dei laici, vivamente sollecitato con rigorose motivazioni teologiche, così si avvale di specifici strumenti, quali la psicologia e la sociologia, ed è più saldamente collegata alla liturgia e alla catechesi? E in riferimento all’attività delle Missioni Cattoliche non si è avvertita, forse, quasi un’impressione di felice riscoperta, quando il Concilio ha perentoriamente stabilito: “La Chiesa è per sua natura missionaria” (Ad Gentes, 2)?

Per mancanza di tempo, debbo purtroppo limitarmi a fare solo degli accenni; ma certo è che i postulati conciliari, come le direttive pratiche tracciate al ministero della Chiesa, trovano nel nuovo Codice esatti e puntuali riscontri, a volte perfino verbali. Vorrei solo invitarvi, a titolo di saggio, a mettere in parallelo il capitolo II della Lumen Gentium e il libro II del Codex: comune ad entrambi, anzi identico ne è il titolo: “De Populo Dei”. Sarà - credetemi - un confronto assai utile, e illuminante risulterà, a chi voglia fare un esame più accurato, la collazione esegetica e critica dei rispettivi paragrafi e canoni.

Per tutte queste ragioni si comprende agevolmente come l’espressione-quesito, da me posto all’inizio, possa ricevere risposta e risposta ampiamente positiva. Il legittimo posto, spettando al diritto nella Chiesa, si conferma e giustifica nella misura in cui esso si adegua e rispecchia la nuova temperie spirituale e pastorale: nel servire la causa della giustizia, il diritto dovrà sempre più e sempre meglio ispirarsi alla legge-comandamento della carità, in esso vivificandosi e vitalizzandosi. Animato dalla carità e ordinato alla giustizia, il diritto vive!

9. Questo è il senso vero della riforma canonica, fratelli, e così va giudicato il nuovo testo, che l’ha attuata. Si è concluso in questi giorni un iter letteralmente generazionale; essendo trascorsi ventiquattro anni esatti dal primo annuncio che l’indimenticabile Papa Giovanni diede della riforma del Codice, unitamente a quello dell’indizione del Concilio.

Quanti ringraziamenti dovrei ora rivolgere? L’ho già fatto nel menzionato Documento di promulgazione; ma mi piace rinnovare pubblicamente questo sentimento, elevando innanzitutto un memore pensiero ai venerati Cardinali Pietro Ciriaci, che iniziò l’opera, e Pericle Felici, che ne curò lo svolgimento fino all’anno scorso. Ricordo, poi, i Segretari della Pontificia Commissione, Monsignor Giacomo Violardo, poi Cardinale, e il Padre Raimondo Bigador, della Compagnia di Gesù; ricordo ancora e ringrazio il Pro-Presidente della Commissione, Monsignor Rosalio Castillo Lara e Monsignor Willy Onclin insieme con tutti gli altri componenti della Commissione stessa, Cardinali, Vescovi, officiali, nonché i consultori e gli esperti, che tutti in varia misura, con esemplare “spirito collegiale”, hanno tra loro cooperato nel non facile lavoro redazionale fino alla stesura definitiva.

Oggi questo Libro contenente il nuovo Codice, frutto di approfonditi studi, arricchito da tanta vastità di consultazioni e di collaborazioni, io lo presento a voi e, nella vostra persona, lo consegno ufficialmente a tutta quanta la Chiesa, ripetendo a ciascuno l’agostiniano “Tolle, Lege” (S. Agostino, Confessiones, VIII, 12, 29; PL 32, 762). Questo nuovo Codice io consegno ai Pastori e ai Fedeli, ai Giudici e agli Officiali dei Tribunali Ecclesiastici, ai Religiosi e alle Religiose, ai Missionari e alle Missionarie, come anche agli studiosi e ai cultori di diritto canonico. Io l’offro con fiducia e speranza alla Chiesa, che si avvia ormai al suo terzo millennio: accanto al Libro contenente gli Atti del Concilio c’è ora il nuovo Codice Canonico, e questo mi sembra un abbinamento ben valido e significativo. Ma sopra, ma prima di questi due Libri è da porre, quale vertice di trascendente eminenza, il Libro eterno della Parola di Dio, di cui centro e cuore è il Vangelo.

Concludendo, vorrei disegnare dinanzi a voi, a indicazione e ricordo, come un ideale triangolo: in alto, c’è la Sacra Scrittura; da un lato, gli Atti del Vaticano II e, dall’altro, il nuovo Codice Canonico. E per risalire ordinatamente, coerentemente da questi due Libri, elaborati dalla Chiesa del secolo XX, fino a quel supremo e indeclinabile vertice, bisognerà passare lungo i lati di un tale triangolo, senza negligenze ed omissioni, rispettando i necessari raccordi: tutto il Magistero - intendo dire - del precedenti Concili Ecumenici e anche (omesse, naturalmente, le norme caduche ed abrogate) quel patrimonio di sapienza giuridica, che alla Chiesa appartiene.

Possa così il Popolo di Dio, aiutato da questi essenziali parametri, procedere sicuro nel suo cammino, testimoniando con la fiducia animosa dei primi Apostoli (cf. At 2, 29; 28, 31; 2 Cor 3, 12) Gesù Cristo il Signore e l’eterno messaggio del suo Regno “di giustizia, di amore e di pace” (Praefatio in sollemnitate D. N. I. C. Universorum Regis).

A tutti la mia benedizione.

 

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