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VISITA PASTORALE IN LOMBARDIA

INCONTRO DI GIOVANNI PAOLO II
CON I LAVORATORI A SESTO SAN GIOVANNI

Sabato, 21 maggio 1983

 

1. L’incontro con voi, carissimi uomini e donne del mondo del lavoro, mi è particolarmente caro perché il vostro è un mondo che sento tanto vicino anche per la diretta esperienza che a suo tempo ne ho fatto: anch’io ho vissuto la vita che voi state vivendo, la sua fatica, i suoi disagi, come anche le sue gioie e le sue speranze. Io so che cosa vuol dire entrare in una fabbrica e starvi tutte le ore utili della giornata, tutti i giorni della settimana, tutte le settimane dell’anno: l’ho appreso nella mia carne; non l’ho imparato dai libri.

Ed è lezione che non ho dimenticato, anche se la Provvidenza mi ha successivamente chiamato a compiti diversi. È per questo che non lascio cadere occasione per incontrarmi con i lavoratori; con voi, carissimi fratelli e sorelle che siete i protagonisti di quel fondamentale settore del vivere sociale che si qualifica col nome di “mondo del lavoro”. Mi spingono verso di voi l’antica comunanza di esperienze e insieme l’attuale responsabilità di successore di Pietro. Anche voi infatti siete parte di quel gregge, che in nome di Cristo io devo guidare, sulle orme di lui, verso la vita vera.

Per tutte queste ragioni io sento di poter parlare a voi al tempo stesso come fratello e come Papa.

2. Vi saluto tutti cordialmente; e ringrazio di cuore il Sindaco di Sesto San Giovanni e i lavoratori che si sono fatti interpreti dei comuni sentimenti. Vorrei che ciascuno di voi comprendesse l’affetto con cui gli sono vicino, condividendo le sue ansie e i suoi problemi, le sue aspirazioni e le sue preoccupazioni.

All’inizio di questo momento di solidarietà con voi, in questa città che occupa un posto centrale nel mondo del lavoro, vorrei pregarvi di consentirmi di rendere omaggio, innanzitutto, a Cristo Signore, che, venendo sulla terra quale nostro fratello, volle fare l’esperienza del lavoro manuale. Cristo è vivo e presente anche oggi fra noi nel sacramento dell’Eucaristia. Come sapete, tutta la Chiesa italiana guarda in questi giorni alla vostra Milano, ove si celebra il Congresso Eucaristico Nazionale. Innumerevoli cuori di uomini e di donne si volgono con fede rinnovata verso la candida Ostia dell’altare, riconoscendo in essa la presenza del Creatore dell’universo e del Signore della storia.

Quale stupendo mistero! Per arrivare a Cristo non dobbiamo risalire nel tempo fino a raggiungere i giorni della sua vita terrena, non dobbiamo spostarci nello spazio fino a varcare i confini della Palestina. Basta che entriamo in una chiesa, che ci avviciniamo ad un tabernacolo: lo troviamo lì; possiamo parlargli; possiamo ascoltare le sue ispirazioni; possiamo adorarlo. Le prime mie parole, in questo nostro incontro, vogliono essere invito a unirci a tutti gli altri fedeli che si inginocchiano davanti all’Eucaristia e l’adorano.

Parlando dell’Eucaristia, in questo momento e in questo ambiente, come non sottolineare un aspetto che lega in particolare voi, lavoratori e lavoratrici, con tale Sacramento? Siete voi, infatti, che apprestate per così dire, la materia dell’Eucaristia. Non sono forse i lavoratori dei campi che hanno coltivato la vite e il frumento? Non sono i lavoratori dell’industria che hanno apprestato i vari strumenti di cui l’uomo si serve per trasformare i grappoli in vino e le spighe in pane? La liturgia della Chiesa lo riconosce chiaramente quando, all’offerta del pane e del vino nella Messa, ripete due volte, “frutto della terra e del lavoro dell’uomo”. I lavoratori possono dire con giusto orgoglio che l’ostia e il vino consacrato sono, per una parte, anche opera loro.

3. A questo motivo di fierezza di ordine specificamente cristiano, altri se ne aggiungono che si situano sul piano più immediatamente umano. Sono i motivi derivanti dalla consapevolezza del ruolo insostituibile che il lavoro ha tanto nella maturazione della persona quanto nella edificazione della società. Come, infatti, la Nazione trae il proprio benessere dall’attività dei cittadini, così i singoli lavoratori trovano nella quotidiana dedizione ai loro compiti una efficace scuola di serietà professionale, di personale responsabilità, di coraggioso attaccamento ai valori fondamentali della convivenza civile.

Come non ricordare, a questo proposito, l’alta testimonianza di civica coscienza, offerta quarant’anni or sono dai lavoratori di questa città, nel dicembre del 1943, che vide gli operai di tutti gli stabilimenti incrociare le braccia, quale testimonianza di protesta contro le prevaricazioni della dittatura?

Il lavoro è scuola di umanità e, l’uomo, quando impara ad essere se stesso, impara anche a difendere i valori in cui crede.

4. Questa constatazione, che l’esperienza di quanto accade in tante parti del mondo conferma, non esaurisce ogni aspetto di quel complesso fenomeno che è il lavoro umano. Accanto ai valori positivi, non mancano in esso elementi, anche rilevanti, che sembrano smentire l’ottimistica valutazione or ora proposta.

Il lavoro è monotono e faticoso. Non solo: esso sembra comportare una mortificazione delle esigenze connesse con la spiritualità dell’uomo. Il lavoro, specie quello operaio, sembra richiedere una soggezione dell’essere umano alla sua opera: la macchina e la sempre più sofisticata organizzazione tecnica della produzione impongono leggi obiettive alle prestazioni dei singoli, che spesso ostacolano l’attuazione della loro personale capacità inventiva ed espressiva.

Non qualitativamente diverso dal lavoro dell’operaio è, del resto, il lavoro dell’impiegato e dell’addetto a compiti amministrativi od organizzativi: l’innovazione tecnologica, e oggi in particolare quella cibernetica, producono spesso l’azzeramento di capacità professionali precedentemente acquisite e la necessità di riprendere da capo la propria qualificazione professionale in obbedienza alle mutate caratteristiche dell’organizzazione del lavoro.

Rimane inoltre la legge generale della separazione del lavoratore dalla propria opera: l’uomo che lavora non si dedica immediatamente a un’attività indirizzata alla propria edificazione morale e spirituale, ma presta un servizio volto al bene comune: un servizio il cui effettivo vantaggio per il bene comune è tuttavia condizionato, e insieme minacciato, dalla rete complessa di tutti i rapporti economici. Anche questa circostanza concorre ad alimentare un’impressione di estraneità del lavoratore rispetto alla propria opera.

Non deve, infine, essere dimenticato il fatto che i rapporti economici sono mediati dal denaro: il riconoscimento obiettivo del concorso di ciascuno al bene comune si concreta in un potere d’acquisto. I rapporti economici diventano, sotto questo profilo, anche rapporti di potere, e quindi potenzialmente conflittuali, nei quali le singole categorie inclinano facilmente a scorgere e a rivendicare unicamente i propri diritti o, più semplicemente, i propri interessi.

5. Per tutti questi motivi il lavoro appare una realtà assai meno positiva e libera di quanto una sua considerazione superficiale potrebbe lasciar supporre. C’è inoltre da considerare un altro aspetto complessivo del lavoro, anch’esso vero e indubitabile, e tuttavia troppo spesso taciuto. Il lavoro è anche il documento della finitezza umana. Finitezza dell’individuo, che abbisogna del concorso di tutti gli altri per realizzare le esigenze fondamentali della propria vita. Ma anche finitezza dell’impresa collettiva degli uomini, che non può mai realizzare l’obiettivo di creare tutto ciò che è indispensabile alla vita di ciascuno. L’uomo infatti non vive soltanto di ciò che le sue mani possono produrre. Egli porta in sé attese e speranze, che nessuna realtà terrena potrà mai compiutamente soddisfare. Questa è infatti la verità: il senso pieno della vita l’uomo lo trova soltanto al di là e al di sopra della vita stessa. Lo trova in Dio che, in Cristo, gli si è fatto incontro per salvarlo.

Non si vuole dire con questo che non debba essere promossa con ogni mezzo ragionevole una sempre più piena liberazione dell’uomo dai condizionamenti che ancor oggi in varia forma lo opprimono. Quel che si afferma è la fatale “incompletezza” di ogni simile sforzo, se non si apre contemporaneamente alla dimensione trascendente della fede.

La libertà e la speranza dell’uomo, nella sua partecipazione quale lavoratore all’opera collettiva, sono garantite soltanto a condizione che egli trovi riposo nella considerazione credente dell’opera di Dio. Non sta qui forse la profonda ragione del precetto biblico che impone all’uomo di sospendere settimanalmente la propria opera, per entrare nel riposo di Dio e offrire a lui, con la partecipazione all’Eucaristia, “i frutti della terra e del proprio lavoro”? Mediante tale sosta l’uomo potrà più facilmente sintonizzarsi col disegno del Signore e trovare nella riflessione sulla sua opera creatrice, che sola è opera compiuta, il fondamento di una “speranza che non delude” (cf. Rm 5, 5). C’è infatti un’esplicita promessa di Dio a tale riguardo: “Beato è l’uomo che teme il Signore, che cammina nelle sue vie”: egli solo potrà “vivere del lavoro delle sue mani”, perché quel lavoro sarà accompagnato e reso fecondo dalla benedizione di Dio (cf. Sal 128; Gen 1, 28).

6. Quale bisogno delle benedizioni di Dio, vi è nel mondo di oggi, sul quale pesano tante e così gravi minacce! Tra i molti malesseri che travagliano l’umanità odierna voglio qui ricordarne uno soltanto, al quale voi siete particolarmente esposti: la disoccupazione. So bene quanto questo problema angusti il mondo del lavoro, stretto in questi anni tra le spire di una crisi economica che minaccia ogni tentativo di ripresa.

Una delle ragioni dell’odierna visita è proprio questa: testimoniare la mia partecipazione alle sofferenze di chi ha perso il posto di lavoro e alle ansie di chi ne vede insidiata la sicurezza. Quello dell’occupazione è “problema fondamentale”, come ho scritto nell’enciclica Laborem Exercens (n. 18), specialmente se lo si considera in rapporto ai giovani “i quali, dopo essersi preparati mediante un’appropriata formazione culturale, tecnica e professionale, non riescono a trovare un posto di lavoro e vedono penosamente frustrate la loro sincera volontà di lavorare e la loro disponibilità ad assumersi la propria responsabilità per lo sviluppo economico e sociale della comunità (Giovanni Paolo II, Laborem Exercens, 18).

Si tratta, certo, di problema complesso, sul quale incidono molteplici fattori connessi con i nuovi sviluppi nelle condizioni tecnologiche, economiche e politiche, come riconoscevo all’inizio del menzionato Documento (cf. Giovanni Paolo II, Laborem Exercens, 1). Tra le sue cause, tuttavia, non mancano lentezze colpevoli, carenze di solidarietà, biasimevoli egoismi. Per parte sua la Chiesa non si stanca di richiamare “la dignità e i diritti degli uomini del lavoro e di stigmatizzare le situazioni, in cui essi vengono violati” (Ivi).

Colgo pertanto anche questa circostanza per rinnovare un appello accorato a tutte le persone che hanno potere di iniziativa economica o politica, perché uniscano i loro sforzi in un’azione coordinata e responsabile che, nel quadro di sacrifici equamente distribuiti fra i cittadini, apra nuove prospettive in questo fondamentale settore del vivere sociale. Dal concorde impegno di tutti potrà, infatti, scaturire quel progresso nella giustizia e nel benessere che costituisce la comune aspirazione delle varie componenti della compagine sociale.

Con l’augurio che queste aspettative possano essere finalmente soddisfatte, elevo la mia preghiera al Padre di tutti gli uomini e di tutti i popoli perché illumini ogni persona di buona volontà e ne orienti l’impegno verso la meta di un sempre più maturo rispetto della dignità della persona, soggetto e fine di ogni attività lavorativa, per l’edificazione di una società giusta, libera e in pace.

Il Santo Padre ha infine aggiunto: “Voglio ringraziarvi ancora una volta per i vostri doni. Voglio ringraziarvi per i gesti e le parole di simpatia per la mia Patria, specialmente per la solidarietà con il mondo del lavoro della mia Patria. Grazie!”

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