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VISITA PASTORALE IN LOMBARDIA

DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II
AGLI IMPRENDITORI E AGLI OPERATORI ECONOMICI
PRESSO LA FIERA CAMPIONARIA DI MILANO

Domenica, 22 maggio 1983

 

Signore e Signori illustrissimi! Cari fratelli e sorelle!

1. Sono lieto di trovarmi in mezzo a voi, rappresentanti qualificati del mondo imprenditoriale milanese e lombardo, per non dire italiano, sia dell’industria privata e pubblica che del commercio e dell’artigianato. Ringrazio di cuore il signor Ministro dell’industria, onorevole Attilio Pandolfi, il Presidente dell’Iri dottor Romano Prodi e il Presidente della Confindustria dottor Vittorio Merloni per le loro parole di benvenuto. A tutti rivolgo il mio saluto, che non è soltanto di circostanza, ma proviene da sinceri sentimenti di alta considerazione, poiché so bene di quanta parte della vita economica e sociale della diletta Italia voi siete promotori e responsabili. Il grado di benessere di cui gode oggi la società sarebbe impensabile senza la figura dinamica dell’imprenditore, la cui funzione consiste nell’organizzare il lavoro umano e i mezzi di produzione in modo da dare origine ai beni e ai servizi necessari alla prosperità e al progresso della comunità.

Il mio pensiero affettuoso intende abbracciare anche i commercianti e gli artigiani, la cui professione è portatrice di valori umani genuini, e che so qui rappresentati.

Nelle mie visite in Italia ho incontrato sovente i lavoratori, ma è la prima volta che ho l’occasione di rivolgere la mia parola agli operatori economici. E non è a caso che il nostro incontro avviene qui, negli ambienti di questa gloriosa Fiera di Milano, che da molti anni ormai è centro di confluenza, di esposizione e di espansione quanto mai importante dell’imprenditoria non solo italiana, ma anche internazionale. Come ebbe ad esprimersi il mio venerato predecessore Paolo VI in occasione della cinquantesima edizione di questa Fiera, qui ci si trova di fronte a un “monumentale edificio della terrena operosità” e a “una manifestazione altamente significativa d’uno degli aspetti più notevoli e più interessanti della concezione che l’uomo moderno si fa dei valori, per cui la vita dev’essere spesa” (Insegnamenti di Paolo VI, X [1972] 349-350). Il mio saluto, pertanto, va anche a tutti coloro che operano, ad ogni livello, per il successo delle iniziative di questa provvida istituzione.

La circostanza mi invita ad esporvi alcune considerazioni sulla specifica attività che vi impegna nei diversi settori della vita economica e sui valori etici connessi con l’impresa.

2. Lo spunto mi è offerto da un testo del Concilio Vaticano II particolarmente denso. È tratto dalla costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo: “Nelle imprese economiche si uniscono delle persone, cioè uomini liberi ed autonomi, creati ad immagine di Dio. Perciò, avuto riguardo ai compiti di ciascuno - sia proprietari, sia imprenditori, sia dirigenti, sia lavoratori - e salva la necessaria unità di direzione dell’impresa, va promossa, in forme da determinarsi in modo adeguato, l’attiva partecipazione di tutti alla vita dell’impresa” (Gaudium et Spes, 6b). Riflettendo su questo testo conciliare, appare con immediata evidenza che due sono i principi etici fondamentali nei quali si compendia il pensiero sociale della Chiesa a proposito dell’impresa e della sua vita interna: l’impresa riunisce e associa persone umane, che vanno trattate come tali; il lavoro della persona richiede la sua iniziativa e responsabilità nella vita dell’impresa medesima.

Il mio predecessore di venerata memoria Giovanni XXIII, nell’enciclica Mater et Magistra, diede espressione a questo profondo ideale sociale e umano dell’impresa: “Si deve tendere - egli scriveva - a che l’impresa divenga una comunità di persone nelle relazioni, nelle funzioni e nella posizione di tutti i suoi soggetti” (Giovanni XXIII, Mater et Magistra, 78).

Questo concetto dell’impresa come comunità di persone costituisce la fonte delle impegnative esigenze etiche di tutti coloro che, direttamente o indirettamente, hanno a che fare con la vita economica e sociale della medesima. Come ben sapete, in una economia veramente umana l’impresa non può identificarsi solo con i detentori del capitale, poiché essa è fondamentalmente una comunità di persone caratterizzata dall’unità di lavoro, nella quale prestazioni personali e capitale servono per la produzione dei beni.

Nella mia enciclica Laborem Exercens ho parlato del conflitto tra il capitale e il lavoro, quale è vissuto nei Paesi industrializzati, già entrati nella fase della società post-industriale per lo sviluppo di alte tecnologie. Queste, in alcuni settori, riducono l’esigenza di manodopera, accentuando, insieme con altri fattori, il grave fenomeno della disoccupazione, col pericolo di sottrarre all’impresa quella profonda componente etica e sociale di comunità di persone, che dovrebbe esserle propria.

In questo incontro con voi, imprenditori di vari settori dell’economia e della produzione di un Paese industrializzato come l’Italia, incontro che avviene in un momento difficile per l’economia, voglio riferirmi ad alcuni fenomeni e problemi che particolarmente incidono sul consolidamento o sulla perdita del vero significato etico dell’impresa.

3. Nel contesto della produzione e della sua organizzazione si incontrano, da una parte, gli imprenditori o datori di lavoro sia diretti che indiretti, e, dall’altra, i lavoratori con le loro doti, le capacità di realizzarle nell’impegno delle loro prestazioni e con i loro diritti.

La Chiesa affronta il conflitto tra il capitale e il lavoro cercando di difendere l’uomo nei suoi diritti, di denunciare le ingiustizie e di contribuire positivamente alla soluzione dei problemi (cf. Giovanni Paolo II, Laborem Exercens, 1). La dottrina sociale, che essa propone, si orienta sempre più verso un ordinamento del lavoro e del processo di produzione industriale, che risponda pienamente alla vera dignità della persona umana, principio e valore etico insostituibile nell’attività economica, poiché l’economia e la produzione sono per il bene dell’uomo e non l’uomo per l’accumulazione del capitale. Un’economia orientata soltanto al profitto non creerebbe comunità di persone, né genererebbe una vera cultura sociale di partecipazione responsabile di tutti i soggetti dell’impresa.

Nell’enciclica Laborem Exercens ho presentato una via di soluzione a questo rischio, la quale si ispira al valore etico dell’impresa come comunità di persone: “Associare, per quanto è possibile, il lavoro alla proprietà del capitale e dar vita a una ricca gamma di corpi intermedi con finalità economiche, sociali, culturali” (Ivi, 14). Questa risposta etica al conflitto non permette quell’assoluta autonomia e indipendenza del capitale, da cui appunto deriva l’alienazione e la violazione della dignità della persona umana nell’impresa.

4. Per poter guardare con fiducia al futuro del mondo del lavoro, occorre che il centro di riferimento dell’operare economico sia sempre l’interesse per ogni essere umano: l’uomo e i suoi valori devono sempre essere il principio e il fine dell’economia.

Anche nei momenti di maggiore crisi il criterio che governa le scelte imprenditoriali non può mai essere la sopravvalutazione del profitto. Se si vuole realizzare realmente una comunità di persone al lavoro, occorre tenere conto dell’uomo concreto e dei drammi non solo individuali, ma anche familiari, a cui il ricorso al licenziamento inesorabilmente porterebbe. Certamente questa prassi, per quanto possa essere suggerita dalle circostanze, non favorisce la dignità delle persone e della comunità di lavoro nel suo insieme.

A voi, illustri rappresentanti dell’industria privata e pubblica, dell’agricoltura, del commercio, dei servizi, delle attività artigianali rivolgo il mio accorato appello perché si uniscano e si moltiplichino gli sforzi nell’impegno diretto a creare nuovi posti di lavoro. Questi permetteranno ai giovani di trovare un impiego e a tutti di contare su di una fonte sicura di sostentamento per sé e per i propri cari. La generale congiuntura di inflazione e di recessione economica non dovrà mai impedire che si cerchi con tutte le forze e con tenace costanza come ovviare sia alle cause che la provocano, sia alle penose situazioni umane, che ne derivano.

5. Quali sono le vie che la Chiesa propone perché siano create delle imprese che siano vere comunità di lavoro, per unire il lavoro al capitale? Nella citata enciclica ho scritto che “i mezzi di produzione non possono essere posseduti contro il lavoro, non possono neppure essere posseduti per possedere, perché l’unico titolo legittimo al loro possesso - e ciò sia nella forma della proprietà privata sia in quella della proprietà pubblica o collettiva - è che essi servano al lavoro (Giovanni Paolo II, Laborem Exercens, 14).

Le proposte dell’insegnamento sociale della Chiesa si riferiscono alla comproprietà dei mezzi di lavoro, alla partecipazione dei lavoratori nella gestione e nei profitti dell’impresa, al cosiddetto “azionariato” del lavoro e altre simili formule di partecipazione. Tutti i soggetti dell’impresa, così come tutte le forze vive della società, devono cercare insieme le forme e le strutture concrete per realizzare tale obiettivo primordiale della collaborazione tra capitale e lavoro nella giusta gerarchia dei valori. La Chiesa non propone a tale scopo soluzioni tecniche uniformi, ma incoraggia la ricerca di soluzioni basate sulla dignità e sulla capacità dei lavoratori e insieme rispettose della funzione economica e sociale dell’impresa.

In questo contesto anche il sindacato entra come fattore dinamico dell’organizzazione sociale. In una società industriale come quella italiana, per non dire di una città così vivace e pulsante di attività come Milano, tali organizzazioni sono elementi indispensabili e insostituibili della vita sociale e dell’impresa-comunità, nonostante le influenze che cercano di snaturare il loro vero valore etico nella promozione della giustizia sociale o di ostacolare le relazioni, all’interno dell’impresa, più conformi al principio della priorità della persona sul capitale.

6. Tra le opposte filosofie - quella della sola competizione economica e quella della partecipazione - l’impresa “comunitaria, esige che nel processo della produzione e delle relazioni sociali interne, si opti per l’applicazione della seconda, la partecipazione, creando tra tutti i componenti dell’impresa una vera ed efficace interdipendenza. Una tale correlazione personale tra i responsabili diretti e indiretti dell’impresa e il “lavoro”, sostenuta dalla politica sociale dello Stato, è condizione necessaria per accordare tra loro tutte le componenti del mondo del lavoro nell’impresa, per promuovere il dinamismo personale e comunitario della vita della medesima e per superare i conflitti.

Nel dire questo il mio pensiero si allarga anche al campo dei rapporti internazionali, ove pure è necessario impegnarsi perché si affermi la giustizia sociale. Parlando lo scorso anno alla Sessione inaugurale del Simposio internazionale sulla Laborem Exercens, osservavo: “Nuove possibilità si intravedono all’orizzonte, che ormai non possono più concepirsi in termini ristretti, unicamente nazionali. Se i problemi, con cui l’uomo moderno deve confrontarsi, non possono essere compresi che tenendo conto della loro dimensione mondiale, sarà pure su scala internazionale che, in molti casi, dovranno essere cercate le soluzioni. Giustamente, pertanto, oggi sempre più frequentemente si auspica un nuovo ordine economico internazionale, che, superando i modelli insufficienti e inadeguati del passato, assicuri all’umanità una giusta partecipazione ai beni della creazione, con particolare sensibilità per i popoli in via di sviluppo” (Insegnamenti di Giovanni Paolo II, V/1 [1982] 1096).

L’attuazione di questo sforzo gigantesco, così come è proposto dall’insegnamento sociale della Chiesa, richiede un’alta dose di disponibilità al dialogo sincero e di generosità nell’affrontare il sacrificio, in ogni settore, in modo che il risultato non sia tanto la tutela di interessi dell’una o dell’altra parte, quanto piuttosto una situazione nella quale il lavoratore sia sempre più “uomo” nel suo lavoro, e l’impresa sia espressione dinamica della partecipazione di tutti.

7. Il dialogo della Chiesa col mondo contemporaneo circa i valori etico-comunitari è un suo modo di essere presente, sotto l’azione dello Spirito Santo, nelle realtà temporali. La Chiesa conosce lo sviluppo di questi valori nella coscienza individuale e nelle relazioni interpersonali dell’uomo d’oggi. Ovunque vi sia dipendenza da fattori economici complessi e dallo sviluppo tecnologico, il vero progresso consiste nella comunità “interpersonale”.

L’azione dello Spirito Santo e la forza dell’Eucaristia, queste Realtà divine a cui ci riportano l’odierna Solennità di Pentecoste e la conclusione del Congresso Eucaristico Nazionale, ci sospingono verso il superamento di ogni etica individualistica; verso il ritorno costante al valore primario della persona umana, ampliando gli orizzonti dell’amore; verso il conseguimento della giustizia sociale nel rispetto dell’uguaglianza di tutti gli uomini; verso lo sviluppo del senso di responsabilità, dell’impegno comune e della partecipazione (cf. Gaudium et Spes, 25-29).

Signore e Signori! fratelli e sorelle! Accogliete queste considerazioni come segno della mia profonda stima per voi e per la vostra importante opera. Il Signore, al quale vi ricordo insieme ai vostri cari, illumini le vostre menti e irrobustisca le vostre volontà nella costruzione di un avvenire per l’umanità, al quale si possa guardare con minore ansietà e con più fiducia, sorretti da una forza che trascende l’uomo. Invoco su di voi l’abbondanza del favori celesti, mentre di cuore vi benedico.

© Copyright 1983 - Libreria Editrice Vaticana

 


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