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DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II
ALLA COMUNITÀ CEKA RESIDENTE A ROMA
AL
PONTIFICIO COLLEGIO NEPOMUCENO

Cappella del Pontificio Collegio Nepomuceno - Domenica, 30 settembre 1984

 

1. Mi avete invitato alla celebrazione del centenario del Collegio boemo a Roma dal quale è derivato l’attuale Pontificio collegio Nepomuceno. Ho accolto il vostro invito con gioia, perché il giubileo ricorda i vincoli che legano la nazione ceca con la Cattedra di san Pietro. Questo legame esiste ormai dai tempi dei santi Cirillo e Metodio le cui statue si ergono nell’atrio di questo edificio. Essi condussero a Roma i loro primi discepoli per farli ordinare in questa città diaconi e sacerdoti. Quanti pellegrini passarono dopo quei giorni sulle strade che uniscono la Boemia e la Moravia con la Città eterna, quanti fedeli devoti vennero, specie durante gli Anni Santi, per implorare presso le tombe degli apostoli il perdono dei loro peccati e la forza e la perseveranza nel bene.

Ma a Roma venivano anche i vostri vescovi per cercare presso il successore di Pietro appoggio e aiuto, quando i loro sforzi di mantenere pura la fede e genuino l’ideale cristiano non erano compresi dai loro contemporanei. Il primo fra loro fu sant’Adalberto il quale, sulla via del ritorno, condusse con sé a Praga i primi Benedettini. Seguendo le sue orme arrivarono, poi, pellegrini a Roma, il vescovo Andrea di Praga e l’arcivescovo Giovanni di Jenstejn, i quali vi morirono. Così anche il recente successore di sant’Adalberto, il cardinale Giuseppe Beran, il quale rese la sua anima a Dio proprio in questa casa quindici anni fa.

2. I boemi non furono mai stranieri in questa città. Non c’è pertanto da meravigliarsi che il mio predecessore Leone XIII, durante la solenne udienza per gli slavi venuti a ringraziarlo per l’enciclica Grande munus sui santi Cirillo e Metodio, abbia espresso, il 5 luglio 1881, il desiderio che fosse fondato a Roma un collegio per i figli della provincia ecclesiastica boema.

Quest’intenzione, realizzata da quel grande Pontefice cent’anni fa, si dimostrò presto davvero provvidenziale per la vostra nazione. Nell’epoca in cui nei vostri seminari veniva insegnata la teologia nello spirito dell’illuminismo e in cui il nascente nazionalismo ceco prendeva sfumature sempre più antiecclesiali e antipapali, uscirono dal Collegio boemo sacerdoti ben formati culturalmente e spiritualmente, devoti alla Santa Sede, i quali avevano il senso profondo dell’universalità della Chiesa come l’avevano conosciuta a Roma durante i propri studi. Tra di loro era poi possibile scegliere anche i pastori per le diocesi boeme, pastori i quali - a differenza dei loro predecessori i quali spesso non parlavano la lingua ceca - avevano la mentalità del popolo e capivano i suoi bisogni. Basta nominare il vescovo di Ceské Budejovice, Simon Barta, di Litomerice, Anton Alois Weber, e di Hradec, Kralové Moric Picha, basta ricordare gli arcivescovi di Praga cardinal Karel Kaspar e il già menzionato cardinale Josef Beran, il quale, insieme a tutta una serie di suoi compagni di studi al Collegio boemo, ha dimostrato la sua fedeltà alla propria nazione con la sofferenza nelle prigioni e nei campi di concentramento. Si possono pertanto definire veramente profetiche le parole dette da Leone XIII ai primi alunni del Collegio boemo: “L’apertura del Collegio boemo è un grande beneficio elargito da Dio a ognuno di voi, cari alunni, primizie di questo istituto novello, ma anche un beneficio con cui Iddio benedice la Boemia chiamandola e legandola nuovamente alla Sede romana” (Casopis Katolickèho duchovenstva, XXXI, Praha, 1890, 205-206).

3. Oggi stanno di fronte a me gli alunni non più del Collegio boemo, bensì del Pontificio collegio Nepomuceno, fondato nel 1929 in questa nuova sede per i candidati al sacerdozio di tutte le diocesi della Cecoslovacchia, di Boemia, Moravia, Slesia e Slovacchia. Credo tuttavia che anche a voi posso ripetere le parole dette cento anni fa dal mio predecessore Leone XIII ai primi alunni di quel collegio appena fondato: “Ora è vostro compito, cari giovani, di accumulare qui, nella città dei martiri e presso la cattedrale della verità, presso la Sede di Pietro, quanto più possibile santità e scienza per poter poi essere utili alla vostra patria. Siete pochi, ma spesso da un solo sacerdote dipende la salvezza di molti, anzi di un’intera diocesi” (Ivi, 206).

4. Ciò vale anche per voi, cari sacerdoti boemi presenti qui con il vescovo monsignor Jaroslav Skarvada, per prendere parte alla gioia di questi alunni. Molti di voi hanno compiuto gli studi in questo istituto, altri ricordano con nostalgia il seminario in patria, il più delle volte abolito, che fu la culla del loro sacerdozio. So che il vostro lavoro non è facile. Vivete lontani dalla vostra terra, dispersi in diversi Paesi e continenti, e servite, nella maggioranza dei casi, i vostri connazionali sradicati dal loro ambiente. Ciò richiede da voi una grande pazienza, spirito di sacrificio, perseveranza. In questa situazione avete un particolare bisogno di coltivare una profonda vita spirituale per giungere ad una “umile prontezza ad accettare i doni dello Spirito Santo per elargire agli altri i frutti dell’amore e della pace e donare loro quella certezza della fede dalla quale derivano la profonda comprensione del senso dell’esistenza umana e la capacità di introdurre nella vita l’ordine morale” (cf. Ioannis Pauli PP. II, Epistula ad universos Eclesiae Sacerdotes adveniente Feria V in Cena Domini anno MCMLXXIX, 4, die 8 apr. 1979: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, II [1979] 845ss.).

Ci sono cose che si possono dire soltanto con la lingua materna, soltanto parole apprese da bambini riescono in certi casi a far vibrare il cuore dell’uomo. Non a caso gli evangelisti, i quali scrivono i loro libri in greco, presentano la morte di Gesù sulla croce citando la sua ultima preghiera nella lingua che egli aveva appreso da sua Madre, la Vergine Maria: “Eli, Eli, lemà sabactàni!” (Mt 27, 46). Voi avete il compito di introdurre in una comunità ecclesiale straniera i vostri connazionali, i quali forse facendo fatica ad assuefarsi ad uno stile diverso di vita religiosa, senza il vostro aiuto troverebbero difficoltà ad inserirsi nel nuovo ambiente ecclesiale. Il vostro apostolato è perciò importante e spesso insostituibile. Il fatto stesso che ho nominato un vescovo per assistere l’emigrazione ceca dimostra chiaramente come apprezzo e incoraggio il vostro lavoro.

5. Avete voluto unire la celebrazione del vostro giubileo con la festa di san Venceslao, vostro patrono principale e - come lo chiamate - erede della terra boema. I vostri antenati ricorrevano a lui durante un intero millennio con la preghiera di non lasciare perire né loro né i loro posteri. San Venceslao ha esaudito queste preghiere. Quante tempeste si sono scatenate durante il corso della storia sulla vostra patria. Quante volte fu minacciata la stessa esistenza della vostra nazione. Ma essa vive ancora e mantiene viva anche la fede cristiana la quale anzi, a causa delle difficoltà, risorge con maggiore vigore. È senza dubbio triste che la maggioranza delle diocesi nella vostra patria sia priva di pastore.

È triste che non vi siano più monasteri e che il numero dei candidati al sacerdozio sia artatamente limitato. È triste che proprio la Moravia, terra in cui si trova la tomba di san Metodio, abbia perduto i suoi seminari di Olomouc e di Brno dai quali uscivano tanti sacerdoti zelanti. Anche questo collegio non ha avuto e non ha un’esistenza facile; l’isolamento dalla patria non gli giova. Ma con l’aiuto di Dio esso continua ad esistere come un simbolo, come erede dell’antico Collegio boemo e della tradizione formatasi durante gli undici lustri dell’esistenza del Pontificio collegio nepomuceno.

6. Dalla tradizione cirillo-metodiana di cui vivete, fa parte anche un’ardente devozione a Maria. Quanti santuari mariani ornano la vostra patria, quante folle di pellegrini li visitano ogni anno. “Maria era cara ai boemi, i boemi erano cari a Maria”. Possano queste parole, risuonate nella storia, mantenere sempre la loro vitalità. Possa lei, Madre della Chiesa, essere Madre di ognuno di voi. Possa aiutarvi a conservare l’eredità dei vostri padri, la vostra identità culturale, per essere sempre la nazione di san Venceslao e santa Ludmilla, la nazione dei santi Cirillo e Metodio, che ha alle radici della sua cultura il Vangelo da essi tradotto.

Questo è il compito per il quale, cari alunni, vi preparate. Compito per cui vale la pena di vivere e di sacrificarsi. Compito che non dovete mai tradire. “Vi ho costituiti” - ha detto Gesù - “perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga” (Gv 15, 16). Possa questo frutto della verità e dell’amore cristiano essere mantenuto e tramandato da voi alle generazioni future. Alle generazioni di cui siete responsabili. Che san Venceslao non lasci perire né voi né i posteri.

Con la mia benedizione apostolica.

 

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