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DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II
AI VESCOVI DELLA CONFERENZA EPISCOPALE DELL
ABRUZZO
E DEL MOLISE IN VISITA «AD LIMINA APOSTOLORUM»

Giovedì, 24 aprile 1986

 

Amatissimi fratelli nell’episcopato.

1. Trascorsi cinque anni dalla precedente visita “ad limina Apostolorum”, con rinnovata gioia vi accolgo oggi in forma comunitaria, dopo aver avuto con voi l’incontro personale. Porgo a ognuno di voi il mio cordiale saluto e con vivo affetto lo estendo ai sacerdoti, ai religiosi e ai fedeli affidati al vostro ministero episcopale.

La Provvidenza ha voluto darmi la possibilità di visitare già alcune volte le vostre terre e penso con sentita partecipazione ai bisogni e alle esigenze delle vostre diocesi, che insieme abbiamo potuto esaminare e approfondire. Desidero innanzitutto esprimervi il mio sincero compiacimento per quanto avete compiuto nelle vostre comunità per il bene delle anime, per la salvaguardia della fede e della morale cristiana, per l’incremento del Vangelo in ogni categoria di persone, e anche per la soluzione dei problemi sociali della regione.

Siamo tutti convinti che, in questo periodo della vita della Chiesa, è necessario in modo speciale aver fiducia, e non scoraggiarsi di fronte alle molteplici difficoltà, in situazioni che suscitano talvolta perplessità e procurano amarezza. Il Signore guida la sua Chiesa, anche se, per la legge fondamentale del rispetto della libertà dell’uomo, da lui voluta, non la esime da contrasti, avversità, preoccupazioni. L’incontrarsi, discutere, programmare insieme, scambiarsi le esperienze ed esporre i propri metodi, mira a rendere più incisiva ed efficace l’attività pastorale nell’opera della santificazione delle anime e della continua evangelizzazione, sicuri che il significato dell’umana esistenza sta nel messaggio di Cristo e che tutto possiamo in Colui che ci dà la forza (cf. Fil 4, 13). Alla folla che chiedeva a Gesù: “Che cosa dobbiamo fare per compiere le opere di Dio?”, Gesù rispondeva: “Questa è l’opera di Dio: credere in Colui che egli ha mandato” (Gv 6, 28-29). È la direttiva fondamentale che vale per sempre, per tutti i popoli e per tutte le epoche. E valgono anche per noi le ben note parole che san Paolo scriveva al discepolo Timoteo: “Annunzia la parola, insisti in ogni occasione opportuna e non opportuna, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e dottrina” (2 Tm 4, 2).

2. In questi quarant’anni dopo la seconda guerra mondiale, la regione Abruzzo e Molise ha subìto una profonda trasformazione socio-economica e culturale, tanto da essere definita “Il Nord del Sud”.

Il passaggio da una cultura contadina a una cultura industriale che caratterizza la vostra Regione è da attribuirsi alla capacità della gente, all’impegno dei responsabili della vita civile e politica, alle condizioni territoriali tra il Tirreno e l’Adriatico. Indubbiamente il tenore di vita si è elevato, anche a motivo dell’aumentato livello culturale, trovandosi in Abruzzo due università in quattro sedi: L’Aquila, Chieti, Pescara, Teramo e numerosissime scuole medie superiori con nuovi corsi anche di sperimentazione.

La trasformazione socio-economica ha inciso pure sul costume delle genti di Abruzzo e Molise, che hanno cambiato in parte la mentalità tradizionale e molte abitudini anche religiose, conservando però quelle che hanno radici profonde.

È consolante che il Concilio Vaticano II sia stato accolto con entusiasmo e che si cerchi gradualmente ma intensamente di viverlo e applicarlo nel senso esatto, innestando, per così dire, un nuovo modo di “essere-Chiesa”, nel quale vengono privilegiati la liturgia, l’istruzione religiosa, l’impegno sociale e caritativo e si formano i laici alla responsabilità ecclesiale, alla collaborazione cosciente e attiva, alla testimonianza amorevole e coraggiosa.

Nonostante limiti e carenze, un notevole sforzo di adeguamento alle nuove realtà è stato compiuto in questi anni: i sacerdoti sono sempre più consapevoli della loro missione di evangelizzazione e di formazione di autentiche comunità di credenti e i laici sono animati da un desiderio di coerenza cristiana.

Incoraggio le iniziative per approfondire sempre più il valore, l’importanza e le intrinseche esigenze dei sacramenti del Battesimo, della Cresima e del Matrimonio. Anche i sacramenti della Penitenza e dell’Eucaristia rimangono profondamente inseriti nel tessuto della comunità cristiana, che gusta quanto la Chiesa ha offerto come sussidio in questi ultimi tempi con i vari libri liturgici e i vari documenti, così ricchi di contenuto biblico, teologico, pastorale. I giovani poi, in questa nuova situazione, sentono più urgente il bisogno di impegno e di coerenza.

Ringraziamo insieme il Signore per quanto è stato realizzato e per le prospettive che si aprono. Continuate a seminare con abbondanza il buon seme della “parola di Dio” e dell’esempio, sicuri che a suo tempo si raccoglieranno i frutti della grazia. Desidero pure esprimere il mio apprezzamento nei riguardi dei sacerdoti, vostri collaboratori, specialmente verso coloro che svolgono il ministero in luoghi disagiati e difficili. Li assicuro del mio ricordo e del mio affetto.

3. Su di un punto in particolare vorrei attirare la vostra attenzione di Pastori: quello della pietà popolare e del suo rapporto con la vita liturgica.

La costituzione sulla Sacra Liturgia del Concilio Vaticano II ha un esplicito accenno al problema, quando al n. 13 parla dei pii esercizi del popolo cristiano, elogiandoli e raccomandandoli, purché “conformi alle leggi e alle norme della Chiesa”. Consegue da ciò che non si possono ignorare, né trattare con indifferenza o disprezzo quelle manifestazioni di pietà e di devozione che sono ancora vive in mezzo al popolo cristiano, ad esempio le feste patronali, i pellegrinaggi a santuari, le varie forme con cui si manifesta la devozione ai santi.

La pietà popolare o religiosità popolare, infatti, come già accennava Paolo VI nell’esortazione apostolica Evangelii Nuntiandi (Pauli VI Evangelii Nuntiandi, 48), è ricca di valori: “Essa manifesta una sete di Dio che solo i semplici e i poveri possono conoscere; rende capaci di generosità e di sacrificio fino all’eroismo, quando si tratta di manifestare la fede; comporta un senso acuto degli attributi profondi di Dio; la paternità, la provvidenza, la presenza amorosa e costante; genera atteggiamenti interiori raramente osservati altrove al medesimo grado: pazienza, senso della croce nella vita quotidiana, distacco, apertura agli altri, devozione”.

Non tutto certamente è della medesima elevata qualità in queste manifestazioni religiose. Poiché sono umane, le loro motivazioni possono essere mescolate a sentimenti di impotenza davanti agli avvenimenti della vita, a un semplice desiderio di sicurezza più che a uno slancio di confidenza nella Provvidenza o di gratitudine e di adorazione. Esse inoltre si esprimono in segni, gesti e formule, che talvolta prendono un’importanza eccessiva, fino alla ricerca dello spettacolare. Tuttavia nella loro sostanza sono manifestazioni che esprimono il fondo dell’uomo, e il riconoscimento di una dipendenza fondamentale dello stesso uomo come creatura nei riguardi del suo Creatore.

4. Il fatto che la religiosità popolare sia nello stesso tempo una ricchezza e un rischio, deve stimolare la vigilanza dei Pastori della Chiesa, i quali dovranno tuttavia svolgere la loro azione di orientamento con una grande misura di pazienza, perché, come già sant’Agostino avvertiva al suo tempo dinanzi ad alcune forme nel culto dei santi, “Altro è quello che noi insegniamo, altro quello che noi siamo costretti a tollerare” (Contra Faustum, 20, 21: CSEL 25, 263). Ciò che conta, venerati fratelli, è prendere coscienza della permanenza del bisogno religioso nell’uomo, attraverso la diversità delle sue espressioni, per sforzarsi continuamente di purificarlo e di elevarlo nella evangelizzazione.

Questa metodologia è sempre stata seguita dalla Chiesa in tutti i secoli, sia per i problemi della inculturazione, che per i problemi della religiosità popolare e delle devozioni popolari. Così ha fatto la Chiesa quando dovette accogliere una folla di nuovi convertiti dopo l’editto costantiniano; così avvenne nel caso dei popoli barbari dell’Europa; così avvenne ancora con i popoli del nuovo mondo a cui occorreva annunziare l’Evangelo; così avviene anche oggi, nel necessario adattamento all’indole e alle tradizioni dei vari popoli (cf. Sacrosanctum Concilium, 37-40). Non bisogna mai dimenticare la consegna che papa Gregorio Magno dava all’apostolo dell’Inghilterra, sant’Agostino di Canterbury: non si dovevano distruggere, ma si dovevano purificare e consacrare a Dio i templi pagani, come anche i costumi religiosi con cui i popoli erano abituati a festeggiare le ricorrenze religiose della vita. (Jaffè, Regesta Pontificum, n. 1848, epist. diei 10 iul. 601)

5. In un paese di antiche tradizioni cristiane come l’Italia, le manifestazioni religiose popolari hanno un carattere cristiano che non si può negare. Molti costumi di questo Paese sono nati dalle feste della Chiesa e sono ancora legati ad esse. Bisogna avvertire le origini, e nel caso che essi tendessero ad allontanarsene, bisogna impegnarsi nello sforzo di riportarli alle loro origini antiche.

È nostro compito di pastori vegliare perché questi atti di devozione siano rettificati nel caso in cui fosse necessario e perché, comunque, non abbiano a degenerare in una pietà falsa, in superstizione o in pratica magica. Così la devozione ai santi - che si esprime nelle feste patronali, nei pellegrinaggi, nelle processioni e in tante altre forme di pietà - non deve ridursi alla sola ricerca di una protezione per i beni materiali o per la salute corporale, ma i santi devono essere presentati anzitutto ai fedeli come modelli di vita e di imitazione del Cristo, come via sicura per arrivare a lui.

6. Il rimedio migliore contro deviazioni sempre possibili è di permeare queste manifestazioni di pietà popolare con la parola del Vangelo, portando coloro che vivono di queste forme di religiosità popolare da un movimento di fede iniziale e qualche volta balbettante ad un atto di fede cristiana autentica.

L’evangelizzazione della pietà popolare la libererà progressivamente dai suoi difetti; purificandola, la consoliderà, facendo sì che ciò che è ambiguo acquisti una fisionomia più chiara nei contenuti di fede, speranza e carità. Non bisognerà in nessuna maniera sottovalutare il valore di questa parola di catechesi. Il popolo generalmente è denutrito per ciò che riguarda la dottrina cristiana: bisognerà dargli la parola specialmente in queste occasioni, nelle quali sono presenti anche quelli che abitualmente non partecipano mai o quasi mai alla vita della Chiesa.

Concludendo, si può affermare che nella vita dei fedeli e delle comunità cristiane c’è e ci deve essere un posto per forme di pietà che non si riducano alle sole celebrazioni liturgiche. Ciò implica una esigenza: queste forme di pietà non debbono sovrapporsi ai tempi liturgici, non debbono mettersi in concorrenza con le solennità più significative dell’anno liturgico. Se c’è una devozione che ha un valore superiore a tutte le altre è la devozione della Chiesa, cioè il culto che essa rende a Dio, la sua vita liturgica, nei misteri e nei tempi che si succedono nel corso dell’anno del Signore. Ultima conseguenza di carattere pratico è quella a cui già nel 1958 il Papa Pio XII si riferiva: celebrazioni liturgiche e pii esercizi non debbono mai essere mescolati. (cf. Sacrae Rituum Congr. Instrucio de Musica et sacra Liturgia, 3 sept. 1958, n. 12)

Come si vede, un’autentica pastorale liturgica non potrà mai trascurare le ricchezze della pietà popolare, i valori propri della cultura di un popolo in modo che tali ricchezze siano illuminate, purificate e introdotte nella liturgia come offerta dei popoli.

7. Nell’incoraggiarvi in questo sforzo per far sì che la pietà popolare divenga una sorta di pedagogia grazie alla quale il popolo cristiano possa accedere a una partecipazione sempre più cosciente, attiva e fruttuosa alla liturgia della Chiesa, vi confermo il mio affetto più cordiale e vi imparto la mia benedizione, con la quale intendo abbracciare anche i fedeli affidati alle vostre cure pastorali.

 

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