DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II
ALLA CURIA ROMANA PER GLI AUGURI DI NATALE
Venerdì, 22 dicembre 1989
“Si compirono per Maria i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché non c’era posto per loro nell’albergo” (Lc 2, 6-7).
Il Natale ci fa pensare a tutti i senzatetto del mondo
1. Signori Cardinali, venerati fratelli nell’Episcopato e nel sacerdozio, religiose e laici! Rivolgo a tutti il mio saluto cordiale e ringrazio, in particolare, il Cardinale decano per il nobile indirizzo augurale, con cui ha interpretato i sentimenti di ciascuno, in questa attesa del santo Natale.
“. . . Lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché non c’era posto per loro nell’albergo”. Le parole dell’Evangelista sottolineano la difficile situazione in cui versava, nell’immediata vigilia del Natale, la Santa Famiglia. Non c’era per loro una casa. A questa famiglia mancava proprio ciò che, in ogni famiglia, è indispensabile, tanto più all’approssimarsi di una nascita.
Perciò il Natale, ormai alle porte, ci fa pensare a tutti i senzatetto del mondo: a quanti non hanno un’abitazione nella quale riparare se stessi e i propri familiari.
Il dato, sobriamente annotato dall’Evangelista, mette in evidenza il significato della “casa”, la quale, oltre che abitazione, è pure ambiente, comunità. Se è vero che la casa è fatta per l’uomo, è vero anche che essa è fatta dall’uomo, dagli uomini. Sono le persone a formare la casa; dipende infatti da loro se lo spazio che occupano, il tetto sotto cui trovano rifugio, si riempie di contenuto umano ed è percorso da una corrente di autentico calore.
Nella “comune casa europea” un’appropriata abitazione per ciascuna nazione
2. Può nella casa dell’uomo abitare Dio? La domanda, in se stessa ardita, trova una risposta affermativa nella vicenda della Santa Famiglia: essa ci dice che, sì, Dio può entrare nelle case umane ed abitarvi. Lo può, se gli vien fatto spazio: se “per Lui c’è posto in quell’albergo” in cui la famiglia si raccoglie. Non è senza significato che la liturgia abbia collocato nel periodo natalizio la festa della Famiglia di Nazaret. Questo pensiero ci invita a rivolgere un particolare augurio alle famiglie di ogni parte del mondo: sappiano esse aprire la porta della loro casa a Dio che viene in carne umana; sappiano fargli posto nel cuore, così che, accanto ad ogni focolare, possa essere vissuta la autentica gioia del Natale.
Il concetto di casa ha anche applicazioni analogiche più ampie. Diverse sono le dimensioni in cui abita l’uomo. Oggi, ad esempio, si sente parlare di una “comune casa europea”.
L’espressione ha una sua verità, ricca di spunti suggestivi. Come la “casa” è composta di molte “abitazioni”, così molte sono le dimensioni dell’abitazione storica degli uomini in ogni continente: molte sono le nazioni. L’uomo, infatti, abita in quelle comunità che, mediante l’unità di cultura, lingua, storia, giungono a formare una nazione.
Occorre quindi augurare a tutte le nazioni, che abitano nella “casa europea”, di poter avere, ciascuna, un’appropriata “abitazione”, in armonia con le “abitazioni” occupate dalle altre nazioni.
La vocazione dei popoli dell’Europa
3. I popoli d’Europa, come del resto molti altri nel mondo, si sentono chiamati ad unirsi, per vivere meglio insieme. Questo nostro “vecchio continente”, che tanto ha dato agli altri, sta riscoprendo la propria vocazione: a mettere insieme tradizioni culturali diverse, per dar vita ad un umanesimo, in cui il rispetto dei diritti, la solidarietà, la creatività permettano ad ogni uomo di realizzare le sue più nobili aspirazioni. Non dobbiamo dimenticare che questa grande impresa, che gli Europei si sono impegnati a portare a compimento, ha ricevuto ispirazione dal Vangelo del Verbo incarnato, di cui tra pochi giorni celebreremo il Natale. Come dicevo in occasione della mia prima visita a Santiago de Compostela; “La storia della formazione delle nazioni europee va di pari passo con quella della loro evangelizzazione, a tal punto che le frontiere dell’Europa coincidono con quelle della penetrazione del Vangelo” (Insegnamenti di Giovanni Paolo II, V, 3 [1982] 1258).
Questa identità europea, dalle radici cristiane, è una realtà che oggi ancora deve sostenere i benemeriti sforzi di tutti coloro che operano per il superamento delle divisioni e per la sparizione dei “muri”, che gli uomini hanno così spesso artificiosamente creato.
Non c’è sistema ideologico, né progetto politico, né programma economico, né inquadramento militare che possono cancellare le aspirazioni di milioni di donne e di uomini, i quali “dall’Atlantico agli Urali” (Insegnamenti di Giovanni Paolo II, X, 2 [1987] 1599) e dalla Scandinavia al Mediterraneo sanno bene come la loro storia si sia sviluppata sotto il segno “della Croce, del libro e dell’aratro” (Insegnamenti di Giovanni Paolo II, III, 2 [1980] 743 [15]).
Di fronte a questa realtà europea, appare con evidenza quanto i “blocchi” siano artificiosi ed innaturali. Io stesso ho spesso parlato dei “due polmoni” - l’Oriente e l’Occidente - senza i quali l’Europa non potrebbe respirare. Ed anche in futuro, non ci sarà una Europa pacifica ed irradiatrice di civiltà senza questa osmosi e questa partecipazione di valori, differenti eppure complementari.
In Europa, ogni popolo si vede riconosciuto nella fisionomia che gli è propria
4. In questo “humus” gli Europei sono chiamati a costruire la loro casa comune. E come il focolare domestico è il luogo in cui ciascuno si sente “a casa”, accolto, rispettato ed aiutato per quello che egli è, così l’Europa deve diventare una “casa” in cui ogni popolo si veda riconosciuto nella fisionomia che gli è propria, sostenuto - ove occorra - nel suo sviluppo e soprattutto rispettato nelle sue aspirazioni. Come non c’è motivo di paura nella dimora familiare, così non dovrebbe esserci in Europa alcuna sorta di minaccia, che possa portare l’uno a temere dell’altro; anzi, dovrebbe esserci la gioia di vivere insieme, per spartire le comuni ricchezze materiali, culturali e spirituali.
Cinquant’anni fa, terribili sconvolgimenti mettevano in pericolo l’esistenza stessa dell’Europa: la seconda guerra mondiale era scoppiata da alcuni mesi. Sfigurata, profanata e divisa, l’Europa ha dovuto compiere uno sforzo immane per superare tali tragiche prove, che ancor oggi ne segnano la fisionomia. Fortunatamente, sembra ora spuntare una nuova era: un processo di democratizzazione nelle sue regioni centrali ed orientali, forme di dialogo e di concertazione a livello continentale ed una nuova coscienza delle radici spirituali fanno germinare, come sembra, l’idea di un comune destino.
In particolare, esprimo la mia gioia per il positivo evolvere della situazione in Cecoslovacchia, ove il riconoscimento della libertà religiosa ha permesso, tra l’altro, la provvista di un buon numero di sedi vescovili: a quelle operate lo scorso anno se ne sono aggiunte altre, ivi comprese quelle annunziate ieri. Il mio augurio è che si prosegua nel cammino intrapreso, giungendo al completamento delle nomine vescovili, alla ripresa della vita consacrata, alla riapertura dei seminari e alla possibilità per i fedeli di partecipare attivamente alla vita della Chiesa.
Purtroppo, in questo panorama consolante preoccupa la grave tensione fra popolo e potere in Romania. E di questi giorni l’orrore per la violenza usata ad inermi cittadini, per la perdita di tante vite umane, per il misconoscimento dei diritti umani. Ho elevato la mia voce nella recente udienza di mercoledì, unita all’appello per la pacificazione generale. Rinnovo, con la riprovazione per la violenza, l’esortazione al perdono ed a radicali mutamenti ispirati al rispetto per l’uomo.
A questa nobile impresa, la Chiesa - come in passato - intende dare il suo specifico contributo, nella profonda consapevolezza del dovere, che le incombe, di aiutare la ricostruzione di “un’Europa senza frontiere, che non rinneghi le radici cristiane che l’hanno originata”. Tale era l’auspicio, che formulavo nella preghiera alla Vergine di Covadonga, nel pellegrinaggio dell’agosto scorso a quel celebre santuario delle Asturie (Oratio ad Sanctuarium Marianum v. d. “Covadonga”: vide supra, p. 188).
Questo auspicio rinnovo oggi, affidandolo al Re dei secoli, affinché egli rafforzi le volontà e conforti il cammino dei popoli europei sulle nuove, impegnative strade.
Le Chiese del vecchio continente avvertono con chiarezza crescente l’urgenza di una nuova evangelizzazione
5. Il pensiero si volge ora in particolare, alle Chiese che nel “vecchio continente” da secoli professano la loro fede nel Verbo incarnato e che avvertono con chiarezza crescente l’urgenza di una nuova evangelizzazione nei confronti dei rispettivi popoli, insidiati dai fenomeni della scristianizzazione e dell’ateismo. Ho condiviso questi problemi con i presuli del consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa in occasione del loro settimo simposio, svoltosi a Roma alla metà di ottobre, e vi sono tornato successivamente con l’Episcopato della Repubblica Federale di Germania, raccoltosi in Vaticano nei giorni 13 e 14 novembre per riflettere, in spirito di reciproca fiducia e di fraterna collaborazione, su “La trasmissione della fede nella nuova generazione”. Quelle esperienze di condivisione ci hanno convinto una volta di più che le difficoltà non devono portarci al pessimismo, ma indurci piuttosto ad avvicinarci ulteriormente fra noi nel Signore, per sostenerci e rafforzarci reciprocamente nell’adempimento della missione che ci è stata affidata. Con questa consapevolezza invio a tutte le Chiese che sono in comunione con la Sede di Pietro un augurio di gioia e di pace nella luce che promana dalla culla di Betlemme. La speranza del loro futuro è fondata sulla gioventù: questa anche saluto con particolare affetto, nel ricordo sempre vivo della vibrante esperienza di Santiago di Compostela, lo scorso agosto.
Un tale augurio estendo anche alle altre Chiese e confessioni, che non vivono ancora la piena comunione con noi. Durante quest’anno ho avuto la gioia di dare il benvenuto al mio fratello in Cristo, il dottor Robert Runcie, Arcivescovo di Canterbury. La sua visita è stata un’occasione per esercitare la responsabilità ecumenica del Vescovo di Roma. Nella dichiarazione comune, che abbiamo firmato a conclusione della visita, abbiamo affermato che il compito di operare per il ristabilimento dell’unità visibile e della piena comunione deriva dall’obbedienza alla volontà di nostro Signore: “Che tutti siano una cosa sola” (Gv 17, 21). Non abbiamo minimizzato i problemi che ci angustiano nella realizzazione di tale compito, abbiamo invece voluto sottolineare la gravità. Occorre, infatti, essere animati da una genuina speranza e, al tempo stesso, da un sobrio realismo. La tensione fra questi due elementi dev’essere presente nei nostri cuori, quando preghiamo e operiamo per l’unità dei cristiani.
In questo spirito rivolgo il mio augurio a tutti i fratelli cristiani, con i quali non abbiamo ancora raggiunto la piena comunione di fede. Dio fortifica il nostro amore e ci incoraggia a proseguire sulle strade dell’unità. Il raduno ecumenico europeo, tenuto a Basilea dal 15 al 21 maggio di questo anno, è stato anch’esso un segno di speranza. Per la prima volta, dopo l’epoca delle separazioni, tutte le Chiese e comunità ecclesiali di Europa hanno manifestato insieme la loro volontà di servire la pace e la giustizia sul fondamento del Vangelo.
Dal pellegrinaggio di fede nei paesi nordici al moltiplicarsi dei contatti con il patriarcato di Mosca
6. Sempre nel contesto ecumenico, ho compiuto nello scorso giugno un pellegrinaggio di fede presso i cristiani dei paesi nordici. Ho reso omaggio all’eredità cristiana di quei popoli. Assieme ai miei fratelli cattolici e luterani ho potuto vivere momenti intensi e significativi di ecumenismo spirituale nella preghiera e di riflessione sulla comune missione dei cristiani in Europa e nel mondo. Questo mio viaggio pastorale, che fino a poco tempo fa sarebbe stato impossibile immaginare, ha indubbiamente costituito, sul piano locale e a più lungo termine, una tappa importante del cammino ecumenico. Come Vescovo di Roma, al quale è affidato in modo del tutto speciale il ministero dell’unità, ho potuto così dare uno specifico contributo all’ecumenismo che, nei paesi nordici e in ogni parte del mondo, va affermandosi non come frutto dei nostri soli sforzi umani, ma come dono della grazia divina.
A loro volta, gli eventi e i cambiamenti registrati in Unione Sovietica hanno favorito il moltiplicarsi dei contatti con il patriarcato di Mosca. Essi permettono di prevedere in un prossimo futuro quanto ho sempre sperato e incessantemente chiesto: che la Chiesa greco-cattolica d’Ucraina possa ritrovare in quel paese la piena libertà di professare la fede cattolica e di darne testimonianza. Confido che le relazioni tra la Chiesa cattolica e il patriarcato di Mosca, che si sono andate sviluppando dal Concilio Vaticano II, consentano di risolvere insieme tale questione e di pervenire al riconoscimento e al fraterno rispetto reciproco delle due Chiese sorelle in Ucraina, la Chiesa greco-cattolica e quella ortodossa, in uno spirito di riconciliazione e di fiducia reciproca.
In quanto cittadini, i fedeli della Chiesa greco-cattolica in Ucraina hanno ben ragione di far valere il loro diritto civico alla libertà religiosa.
Dopo un lungo periodo di clandestinità, la fede cattolica dei cristiani e dei loro sacerdoti si manifesta con nuovo fervore, nella ferma speranza di poter vivere la propria adesione al Vangelo in piena unione con tutta la Chiesa cattolica del mondo e in modo speciale con la Chiesa di Roma. Nel rivolgere a quella amata porzione del gregge di Cristo l’augurio di buon Natale, invito tutti alla riconciliazione e alla pace, sull’esempio del Verbo incarnato che “si è fatto povero per noi, perché noi diventassimo ricchi” (cf. 2 Cor 8, 9).
A Seoul ho affidato a “Cristo nostra pace” le preoccupazioni e le speranze della Chiesa e dell’umanità
7. “Tutti i confini della terra hanno veduto la salvezza del nostro Dio” (Sal 98, 3). Dalla mangiatoia di Betlemme i nostri affettuosi pensieri e caldi auguri vanno a tutti i paesi e continenti del globo terrestre.
All’Asia e all’Estremo Oriente, innanzitutto, come anche all’Australia e all’Oceania. Ho sempre vive nel cuore le impressioni riportate durante il Congresso Eucaristico Internazionale di Seoul, quando, con folle di fedeli della Corea e di ogni parte del mondo, mi sono prostrato davanti all’Ostia consacrata per affidare a “Cristo, nostra pace” le preoccupazioni e le speranze della Chiesa e dell’umanità. Ricordo pure con commozione l’incontro con le comunità cristiane dell’Indonesia, il grande arcipelago, la cui popolazione ha saputo creare, sulla base del sistema filosofico del “Pancasila”, un modello di convivenza rispettoso del pluralismo etnico, culturale e religioso. Significative sono state pure, durante quel viaggio, le visite alla diocesi di Dili, nell’isola di Timor, duramente provata negli ultimi anni, e alle Chiese delle isole Mauritius, dove è tuttora viva l’eredità spirituale del beato Jacques-Dèsirè Laval.
Il Sinodo africano si riveli come evento determinante per lo sviluppo dell’opera di evangelizzazione
8. Il mio augurio natalizio va, poi, ai paesi dell’Africa e alle giovani Chiese, che l’azione dello Spirito vi ha suscitato, aprendo promettenti prospettive alla diffusione del Vangelo.
Ho avuto la gioia di visitare, al termine del periodo pasquale, il Madagascar, la Réunion, lo Zambia e il Malawi, portando ai fedeli di quelle terre la testimonianza della mia sollecitudine per i loro problemi e le loro iniziative. Al tempo stesso, ho potuto rallegrarmi per i grandi progressi fatti verso la indigenizzazione di quelle Chiese, nelle quali Vescovi, clero, religiosi e religiose sono ormai in buona parte autoctoni. Un segno particolarmente indicativo della maturità raggiunta è stata la beatificazione di Victoire Rasoamanarivo, una laica la cui testimonianza di fede tra il popolo malgascio è all’origine di una splendida fioritura di bene.
Tutto lascia sperare che il Sinodo africano, per la cui preparazione s’è radunata nei giorni scorsi la speciale commissione, si riveli come un evento determinante per lo sviluppo dell’opera di evangelizzazione in quel continente, alle soglie del nuovo millennio.
L’accorata preghiera al Re della pace per le tristi vicende di violenza e sangue in alcuni paesi delle Americhe
9. Auguri, infine, alle Americhe: la meridionale, la centrale, la settentrionale. Mi è caro, qui, ricordare l’incontro cordialissimo e costruttivo con i rappresentanti dell’Episcopato degli Stati Uniti d’America, ciò che mi ha permesso ancora una volta di sperimentare direttamente la vitalità, la generosità, la ricchezza spirituale di quelle Chiese. E con pari affetto vado col pensiero agli incontri con altri numerosi Episcopati delle tre Americhe, venuti in questi mesi per le visite “ad limina”, nelle quali abbiamo condiviso speranze e preoccupazioni.
Purtroppo, infatti, alcuni paesi del continente hanno vissuto recentemente tristi vicende di violenza e sangue. Tutti hanno presente, in particolare, l’orrendo crimine avvenuto in El Salvador con l’uccisione di sei religiosi della Compagnia di Gesù e, prima ancora, il barbaro assassinio del Vescovo di Arauca, in Colombia. In vari paesi vi è ancora l’illusione del ricorso alla forza come mezzo per risolvere i problemi. Profonda amarezza e viva esecrazione suscitano anche nel nostro animo i terribili atti di terrorismo verificatisi in varie parti, e non meno intensa trepidazione i crimini che la prepotenza di persone e di gruppi minaccia ancora di compiere alla scopo di conservare illegittime fonti di guadagno con il commercio della droga. A tali preoccupazioni si sono poi aggiunte quelle ora provenienti dal Panama, ove vi sono stati scontri con vittime innocenti e gravi disagi alle popolazioni. Ho ben presenti i vari appelli lanciati da quell’Episcopato per la pacificazione e l’ordinato svolgimento della vita di quella amata Nazione. Una preghiera accorata elevo al Re della pace, perché converta gli animi di tutti a pensieri di saggezza, così che il progresso di quei popoli sia assicurato nella giustizia e nella solidarietà. Confido che l’azione concorde di tutti i responsabili della vita pubblica possa sortire effetti benefici a vantaggio di tutte quelle popolazioni.
L’approssimarsi del cinquecentesimo anniversario del primo annuncio evangelico nel “Nuovo Mondo” deve costituire per tutti un forte incitamento a ricuperare nella sua genuinità il fermento liberatore del cristianesimo, da cui in questi cinque secoli sono scaturiti frutti meravigliosi di civiltà e di progresso. L’auspicio che sale dal cuore è che questa immediata vigilia veda le Chiese dell’intero continente impegnate a ripercorrere le tappe della loro storia, per trarne opportune lezioni in vista di uno slancio rinnovato nel servizio al Vangelo.
In pellegrinaggio spirituale tra gli abitanti di Betlemme, di Cisgiordania, di Gaza di Israele e del Libano
10. “Venne fra la sua gente, ma i suoi non l’hanno ascoltato” (Gv 1, 11). Le parole dell’evangelista Giovanni fanno eco a quelle di Luca: “. . . non c’era posto per loro nell’albergo” (Lc 2, 7). E tuttavia, proprio colui che “non è stato accolto dai suoi”, col mistero dell’Incarnazione ha istituito la dimora che tutti accoglie. Lui, il Verbo incarnato, è diventato per noi la casa del Padre, il tempio della salvezza.
Mi reco spiritualmente in pellegrinaggio alla grotta di Betlemme per prostrarmi davanti alla mangiatoia in adorazione implorante a favore di tutti i paesi e continenti del mondo e, in particolare, a favore dei popoli di quella regione così prossima alla grotta e tanto profondamente tormentata.
Penso agli abitanti stessi della Betlemme di oggi e ai loro fratelli di Cisgiordania e di Gaza. Ad essi non è ancora stato permesso di avere una “casa” propria, una patria in cui sentirsi cittadini a pieno diritto. Per essi prego che il Signore della pace, nato a Betlemme, conceda di vedere presto riconosciuti i loro diritti e realizzate le loro legittime aspirazioni. Soprattutto chiedo che il Signore allontani dal loro cuore la tentazione della violenza cieca, che porta solo distruzione e morte.
Penso, allo stesso tempo, agli abitanti dello Stato di Israele, drammaticamente combattuti tra la preoccupazione della propria sicurezza e il dovere di rispettare la giustizia e di aprirsi al dialogo. Auspico che sappiano collaborare fra di loro e con la comunità internazionale, seguendo coraggiosamente il cammino dell’equità.
Ricordo il Libano tanto provato nel corso di questi ultimi anni, e la cui popolazione è continuamente nel pericolo di dover subire ulteriori violenze. Per i Libanesi imploro che sappiano accettarsi reciprocamente, che trovino un cammino di intesa fra di loro, per il bene delle generazioni a venire. Auguro che il Libano possa presto tornare ad essere un paese libero, concorde e sovrano, ove ogni cittadino contribuisca attivamente alla ricostruzione della Patria.
Per gli altri popoli della regione, anch’essi coinvolti in questi e in altri conflitti, spesso spinti da timori e da interessi a volte esasperati, chiedo che s’impegnino ad essere costruttori di pace, fiduciosi nel dialogo ed attivamente solidali con i propri vicini.
Ciascuno si senta personalmente raggiunto dalla mia gratitudine
11. Signori Cardinali, venerati fratelli nell’Episcopato e nel sacerdozio, religiose e laici della Curia romana, a tutti vanno i miei voti augurali!
Con essi esprimo anche la stima e la riconoscenza vivissime che nutro per ciascuno di voi: per i membri del sacro Collegio, innanzitutto, dalla cui preziosa collaborazione traggo inestimabile sostegno nella quotidiana sollecitudine del ministero petrino; per i rappresentanti pontifici e i loro collaboratori, che, in circostanze anche difficili e sempre impegnative, sono gli inviati del Papa presso le Chiese locali e i governi delle singole nazioni ove lavorano; per gli officiali della Curia romana, poi, la cui attività assidua e saggia mi consente di far fronte agli onerosi compiti connessi col governo della Chiesa universale; e per il personale, che coopera al buon funzionamento dei dicasteri e degli altri organismi curiali. Estendo il mio grato apprezzamento, insieme con gli auguri, anche a quanti sono al servizio del governatorato dello Stato della Città del Vaticano, nonché a coloro che lavorano per il bene dell’amata Chiesa di Roma nelle strutture del vicariato, specie in preparazione del Sinodo diocesano.
Vorrei che ciascuno si sentisse personalmente raggiunto, particolarmente in questa circostanza, dalla mia gratitudine, dal mio affetto e dalla mia preghiera.
Il mistero del Natale, che ha una tale profondità e, nello stesso tempo, una così vasta “estensione” sia per ciascuno il luogo dell’incontro e del più profondo contatto con l’Emmanuele.
Buon Natale a tutti, con la mia benedizione!
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