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DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II
AI PRESULI DELLE REGIONI OVEST 1 E 2
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE DEL BRASILE
IN VISITA «AD LIMINA APOSTOLORUM»

Sabato, 24 giugno 1995

 

Venerati Fratelli nell’Episcopato,

1. Sono lieto di accogliervi in occasione della vostra visita quinquennale sulle tombe dei Santi Pietro e Paolo. Come successori degli Apostoli, la cui testimonianza del Signore risorto è il fondamento sicuro della proclamazione del Vangelo da parte della Chiesa, in tutti i tempi e in tutti i luoghi, siete venuti a Roma per riconfermare la vostra comunione, nella fede e nella carità, con il Successore di Pietro. Vi saluto, Vescovi delle regioni Ovest 1 e 2, e abbraccio di cuore tutti i sacerdoti, i religiosi e i fedeli laici delle Diocesi delle Province ecclesiastiche del Mato Grosso e del Mato Grosso del Sud. Ringrazio l’Arcivescovo di Cuiabá, don Bonifácio Piccinini, per le cordiali parole di saluto. Insieme a San Paolo “ringrazio continuamente il mio Dio per voi a motivo della grazia di Dio che vi è stata data in Cristo Gesù... Egli vi confermerà sino alla fine” (1 Cor 1, 4. 8).

Nel regno della fede, il vostro pellegrinaggio a questa Santa Sede rappresenta un incontro con le origini stesse della Chiesa: la missione degli Apostoli e la loro confessione di Gesù Cristo come Figlio di Dio e Salvatore del mondo.

Secondo il disegno del Padre, fu a Roma che Pietro e Paolo suggellarono la propria predicazione con la più eloquente delle testimonianze, a imitazione della libera abnegazione di Cristo: Pietro, qui sul colle vaticano, e Paolo fuori dalle mura della città, lungo la via per Ostia. Noi, che siamo i successori degli Apostoli, ascoltiamo Cristo che ci affida lo stesso mandato che diede loro: “Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni” (Mt 28, 19). Prego Dio affinché questa visita “ad Limina” vi incoraggi nella vostra confessione del Signore e nell’impegno al Suo servizio.

2. “Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5, 48).

Cogliendo l’occasione di questo incontro, vorrei riflettere insieme a voi, cari Fratelli nell’Episcopato, sul mandato in cui Cristo non manifesta solo un desiderio, una formula o un consiglio; al contrario utilizza la forma verbale “sede” che indica un mandato imperativo, senza limiti, diretto a tutti: quando pronunciò queste parole in mezzo alla campagna probabilmente lo stavano ascoltando agricoltori e casalinghe, artigiani, mendicanti, piccoli commercianti, dottori della legge, bambini, malati... Dietro di essi il Signore avrà visto gli uomini di tutte le epoche, nazionalità e professioni. Ci avrà visto!

Il mondo nel quale viviamo sta attraversando una fase di grande mutamento storico. Si stanno trasformando i volti dei Paesi, il progresso tecnologico sta facendo passi giganteschi nella diffusione del benessere e nell’avvicinamento fra i popoli, le società si stanno adattando alle nuove esigenze conformi ai diritti inalienabili di ogni essere umano, ma non muta né diventa obsoleto quel mandato imperativo di Cristo: “Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste”. Oggi la Chiesa si sente esortata dalla forza dello Spirito Consolatore a diffondere con maggiore vigore questo messaggio del Redentore degli uomini.

Nonostante le voci dei profeti del pessimismo, vorrei ricordare ancora una volta ciò che il Concilio Vaticano II ha solennemente dichiarato: “tutti i fedeli di qualsiasi stato o grado sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità: da questa santità è promosso, anche nella società terrena, un tenore di vita più umano” (Lumen Gentium, 40). La santità, già presente e operante nella fase terrena del cammino ecclesiale, non è un privilegio di pochi o di una determinata parte della Chiesa, ma un appello rivolto a tutti i membri del Popolo di Dio, senza eccezioni: Vescovi, sacerdoti, diaconi, religiosi e laici.

3. Ogni visita “ad Limina” è sempre un momento speciale per riflettere sui principali temi che ho ritenuto opportuno affrontare e molto spesso per riconsiderare altri messaggi rivolti a ogni Chiesa particolare nella sua specificità, poiché “l’amore di Cristo ci spinge” (2 Cor 5, 14). Per questo, fu con grande speranza che conclusi la mia omelia a Florianópolis in occasione della beatificazione di Madre Paulina: “il Brasile ha bisogno di santi, di molti santi! La santità è la prova più chiara e più convincente della vitalità della Chiesa in tutti i tempi e in tutti i luoghi” (Insegnamenti di Giovanni Paolo II, XIV/2 [1991] 919).

Come non ricordare qui la figura dell’“Apostolo del Brasile”, il beato José de Anchieta, che ho avuto la lieta opportunità di beatificare in occasione del mio primo viaggio nella vostra terra? A cosa è servita la sua instancabile attività apostolica? “C’era una visione e uno spirito: la visione integrale dell’uomo riscattato dal sangue di Cristo; lo spirito del missionario che tutto fa perché gli esseri umani... raggiungano la pienezza della vita cristiana” (Insegnamenti di Giovanni Paolo II, III/2 [1980] 68).

Cosa voleva Gesù da Pietro quando lo chiamò ad essere il Principe degli Apostoli?

“Gesù, fissando lo sguardo su di lui, disse: «Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; ti chiamerai Cefa (che vuol dire Pietro)»” (Gv 1, 42). Il Vangelo non ci rivela i pensieri intimi del futuro apostolo che d’altro canto sarebbero molto meno utili delle parole di Cristo. Un’anima si presenta di fronte a Gesù e questi l’attraversa da un lato all’altro, la comprende, le dà un nome, la consacra e, in un certo modo, prende possesso di essa. In maniera analoga, Dio ha il proprio disegno per ognuno di noi poiché tutti noi siamo per Lui oggetto di una vocazione speciale. Chiamandoci a una missione, Dio non sopprime la nostra attività; al contrario la incoraggia. Ci chiama, senza dubbio, ma noi dobbiamo rispondere. Mediante il battesimo tutti noi siamo “chiamati” santi, come san Paolo chiamava i suoi fratelli. Non “fatti” santi in quell’istante, ma chiamati alla santità e resi capaci di raggiungerla. Il Signore chiede ad ognuno di noi: “Vuoi entrare nella vita”, vuoi partecipare al disegno concepito dall’autore della vita? Vuoi svolgere il tuo compito nell’opera divina della vita? Vuoi comprendere e orientare la tua vita, portarla alla pienezza e ricevere in cambio la pienezza della vita?

Carissimi Fratelli nell’Episcopato, che altro obiettivo può volere il cristiano quando è completamente posseduto dallo spirito di Cristo?

4. È evidente che i religiosi e le religiose sono chiamati alla santità in un modo urgente. La via dei consigli evangelici, di fatto, è spesso chiamata “via di perfezione” e lo stato di vita consacrata “stato di perfezione”. La vocazione religiosa è il grande problema della Chiesa del nostro tempo. Proprio per questo è necessario riaffermare con forza che essa appartiene a quella pienezza spirituale che lo stesso Spirito – lo spirito di Cristo – suscita e plasma nel Popolo di Dio. Senza gli ordini religiosi, senza la vita “consacrata”, mediante i voti di castità, di povertà e di obbedienza, la Chiesa non sarebbe pienamente se stessa. I religiosi, in effetti, diceva Papa Paolo VI “con la stessa intima natura del loro essere si collocano nel dinamismo della Chiesa, assetata dell’Assoluto, che è Dio, chiamata alla santità” (Evangelii Nuntiandi, 69). Del resto, in diversi modi, il recente “Sinodo sulla Vita Consacrata” ha voluto riaffermare che la vita consacrata è la testimonianza pubblica della vocazione alla santità, vivendo nella Chiesa la Comunione per la Missione, attraverso l’annuncio costante e gioioso delle verità del Regno rivelate da Gesù.

È necessario pertanto che voi rivolgiate la vostra attenzione alla santificazione delle persone comuni che costituiscono il Popolo di Dio. L’antichissima tradizione ecclesiale – con profonde radici evangeliche – che considera la santità come un diritto e un dovere di tutti i fedeli, è stata approfondita nella prima metà di questo secolo e ripresa, significativamente, dal Concilio Vaticano II a tal punto da poter affermare che la chiamata universale alla santità costituisce l’asse centrale di tutti i suoi insegnamenti. “Tutti nella Chiesa, sia che appartengano alla gerarchia sia che essa siano diretti, sono chiamati alla santità, secondo il detto dell’apostolo: «La volontà di Dio è questa, che vi santifichiate»” (1 Ts 4, 3) (Lumen Gentium, 39).

Voi, in quanto Pastori, dovete infondere questa verità in tutti i vostri fedeli: nella Chiesa vi è un ordine gerarchico e diverse condizioni, ma vi è anche una unità radicale: il diritto e il dovere di cercare di essere santi, di amare Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze, poiché a tutti noi – sacerdoti, religiosi e laici – fu detto “siate santi come il vostro Padre celeste”.

Recentemente ho avuto occasione di riaffermare che noi sacerdoti abbiamo “il dovere di tendere alla santità per essere “ministri di santità” verso gli uomini e le donne affidati al nostro servizio pastorale” (Lettera ai sacerdoti, Insegnamenti di Giovanni Paolo II, XVIII/1 [1995] 597). Allo stesso modo ho manifestato il desiderio che tutti gli anni, se possibile, nella solennità del Sacro Cuore di Gesù, si mediti su questo commovente appello che Gesù fa alla massima santità in una “Giornata per la Santificazione dei Sacerdoti” (Lettera ai sacerdoti, Insegnamenti di Giovanni Paolo II, XVIII/1 [1995] 597). Per quel che riguarda la vita religiosa, vista la sua importanza, desidero riservarle uno spazio maggiore in occasione della visita “ad Limina” del prossimo gruppo di Vescovi. Ora rivolgiamo ai laici una giusta attenzione, tenendo presente che costituiscono la maggior parte del Popolo di Dio.

5. I laici si santificano nel mondo.

È ciò che afferma il Concilio Vaticano II “il carattere secolare è proprio e particolare ai laici... Per loro vocazione è proprio dei laici cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio. Essi vivono nel secolo, cioè implicati in tutti e singoli gli impieghi e gli affari del mondo e nelle ordinarie condizioni della vita familiare e sociale, di cui la loro esistenza è come intessuta” (Lumen Gentium, 31).

Vorrei richiamare la vostra attenzione su un fatto estremamente significativo menzionato poco dopo: “tutti i fedeli quindi nella loro condizione di vita, nei loro lavori o circostanze e per mezzo di tutte queste cose, saranno ogni giorno più santificati” (Lumen Gentium, 41). I religiosi che vivono nel mondo, ma con una particolare consacrazione a Dio, non potranno più pensare che i laici possano aspirare alla santità nonostante le difficili condizioni in cui vivono nel mondo, ma, al contrario, dovranno considerare che proprio grazie a queste difficoltà essi si santificheranno.

Poiché ogni realtà terrena è assunta in Cristo all’interno dell’economia della salvezza, il lavoro, in modo particolare, è una forma molto importante di partecipazione alla croce redentrice di Cristo. “Ogni lavoro – sia esso manuale o intellettuale – va congiunto inevitabilmente con la fatica” (Laborem Exercens, 27). È per me un’immensa gioia ricordare con frequenza tutti gli uomini, le donne, gli anziani e i giovani sparsi in tutto il Brasile, che svolgono le più diverse attività, santificandosi nei lavori più vari: le casalinghe che si dedicano con amore ai compiti estenuanti e apparentemente monotoni del focolare, così poco apprezzati al giorno d’oggi, gli studenti che gioiosamente s’istruiscono nelle diuturne attività scolastiche, a volte tanto sprovviste di stimoli, i minatori che respirano l’aria inquinata nei tunnel o all’aperto, portando con dignità la propria croce quotidiana, i pescatori che, speranzosi, affrontano i pericoli del mare, gli agricoltori, i piccoli contadini, gli allevatori, e, ad esempio, i braccianti delle vostre immense distese dell’Altipiano Centrale e della Pianura del Pantano, gli operai delle fabbriche, gli uomini che svolgono un lavoro manuale nell’ambito delle riparazioni, a volte in condizioni estremamente difficili, infine coloro che si dedicano a fondo all’attività intellettuale, intenti a porre Cristo in cima al sapere umano, i malati che lottano contro il dolore – anche questo è un lavoro – in ospedali a volte tanto carenti di calore umano, offrendo la loro sofferenza alla Chiesa. Desidero ricordare a tutti che il lavoro umano che contiene “una parte della croce di Cristo”, se svolto con amore, possiede “un barlume di vita nuova, del nuovo bene, quasi come un annuncio dei “nuovi cieli e di una terra nuova” i quali proprio mediante la fatica del lavoro vengono partecipati dall’uomo e dal mondo” (Laborem Exercens, 27).

Non posso non ricordare qui che il valore intrinseco del lavoro umano deve essere riconosciuto dalla società e dagli Stati, che si sforzeranno di tradurre in leggi giuste la centralità dell’uomo in rapporto al capitale e al lucro garantendo così una giusta remunerazione, che assicuri la stabilità della famiglia costituita, l’accesso della prole all’istruzione, il beneficio del legittimo tempo libero. Proprio perché nobilita l’uomo, il lavoro non può essere considerato un mero strumento di produzione, riducendo il lavoratore alla condizione di semplice mano d’opera. Anche qui è indispensabile riprendere, nell’ambito dell’evangelizzazione e della testimonianza della Chiesa, i preziosi insegnamenti della Dottrina Sociale della Chiesa, già ripetutamente enunciati dai miei Predecessori e da me sviluppati in alcune delle mie Encicliche.

6. Appare qui, in una luce chiara e in una prospettiva molto ampia, il compito del Vescovo come padre spirituale del Popolo di Dio. Il Concilio Vaticano II ha parlato dell’aiuto che la Chiesa si sforza di prestare all’attività umana attraverso i cristiani: se la Chiesa in tutti i suoi membri è autentica, allora “già con la sola sua presenza, con tutti i doni che contiene, è sorgente inesausta di quelle forze di cui ha assoluto bisogno il mondo moderno” (Gaudium et Spes, 43).

Affinché ciò avvenga vi sono due condizioni: la testimonianza, soprattutto dei Pastori, e il loro insegnamento chiaro ed esplicito. “Inoltre ricordino i Pastori tutti che essi con la loro quotidiana condotta e sollecitudine mostrano al mondo la faccia della Chiesa, in base alla quale gli uomini si fanno un giudizio sulla efficacia e sulla verità del messaggio cristiano” (Gaudium et Spes, 43).

Tutto ciò dipende però da una dottrina senza mezze verità. I Vescovi ai quali è stata affidata la missione di guidare la Chiesa di Dio “devono insieme con i loro presbiteri predicare il messaggio di Cristo in modo tale che tutte le attività terrene dei fedeli siano pervase dalla luce del Vangelo” (Gaudium et Spes, 43).

È evidente qui, come certamente comprenderete, l’importante ruolo che in tal modo il compito evangelizzatore assumerà. Vale la pena sottolineare il fatto che senza santità di vita le doti e le qualità dedicate ad annunciare il Regno di Dio daranno scarsi risultati (cf. Insegnamenti di Giovanni Paolo II, XVI/2 [1993] 1169). Tuttavia quando la fede, la speranza e l’amore sono ben radicati nel cuore umano, quando diventano un’esperienza coerente, si trasmettono facilmente, con la stessa naturalità ed efficacia con cui la linfa scaturisce dalla fibra legnosa.

Inculturare significa anche parlare con la massima sincerità, dal fondo dell’anima alla base culturale che gli uomini hanno iscritta nell’intimo del loro essere. La comunicazione della verità – lo si costata tutti i giorni – è il migliore metodo di inculturazione poiché la verità si radica nella parte più profonda di ogni essere umano, indipendentemente dalla razza, dalla lingua e dalla nazionalità. Per questa ragione “sarà la sintesi vitale che i fedeli laici sapranno operare fra il Vangelo e i doveri quotidiani della vita la più splendida e convincente testimonianza” (Christifideles Laici, 34) e l’apostolato individuale più prezioso ed efficace.

Il mio pensiero si rivolge alla famiglia cristiana brasiliana, che nonostante i nostri sforzi attraverso la Pastorale della Famiglia, è soggetta a ogni tipo di pressione laicista volta solo a disgregare questa cellula fondamentale della società. Non posso pertanto non menzionare qui il ruolo svolto dalle università in Brasile, in particolare dalle università cattoliche nella promozione del dialogo fra il Vangelo e la società di oggi. Per questo ribadisco ora l’importante missione che, soprattutto le università cattoliche, svolgono nella diffusione del valore della cultura moderna nella misura in cui promuovono, con studi appropriati, il rispetto della famiglia, cellula fondamentale di qualsiasi cultura umana (cf. Costituzione Apostolica sulle Università cattoliche, Ex corde Ecclesiae, 45, 15.VIII.1990, Insegnamenti di Giovanni Paolo II, XIII/2 [1991] 963). Riconosco, come del resto ho già avuto occasione di dichiarare a Salvador de Bahia (cf. Discorso, Insegnamenti di Giovanni Paolo II, XIV/2 [1991] 963), lo sforzo dell’Episcopato brasiliano nella promozione di una pastorale universitaria seria e di un valido dialogo fra fede e cultura. Tuttavia, di fronte all’inquietante fenomeno degli attentati contro l’unità familiare, e in particolare contro la vita, diventa urgente un’attenta evangelizzazione che faccia fiorire e sviluppare “una convinta e responsabile partecipazione e “appartenenza” alla Chiesa quale «comunità di fede»” (Veritatis Splendor, 109).

7. Cari fratelli Vescovi, prima di concludere desidero ringraziarvi calorosamente per la vostra fedeltà a nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo e per il vostro profondo senso di comunione con la Chiesa universale. Sono trascorsi quasi quattro anni dalla mia seconda visita al vostro Paese. Il ricordo di quel viaggio è ancora vivo nella mia mente. Continuo a ricevere lettere dal Brasile che ricordano quei giorni di incontri di preghiera. Consentitemi oggi di ricordare nuovamente l’affetto con il quale i vostri Vescovi mi espressero – a nome di tutto l’Episcopato brasiliano – il vivo desiderio di comunione con il Successore di Pietro. Vi ringrazio per questa manifestazione di fede e di adesione alla sede di Pietro e chiedo a Dio che la faccia fiorire sempre più in realtà feconde. Che lo Spirito vi confermi in questo edificante pensiero!

Con la mia benedizione Apostolica.

 

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