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CONSACRAZIONE DI CINQUE NUOVI VESCOVI

OMELIA DI PAOLO VI

Domenica, 28 giugno 1964

 

Signori Cardinali!
Venerati Confratelli! e diletti figli!

Sostiamo un momento. Come il viandante, arrivato con fatica sopra un’altura, si ferma, respira e contempla. Qui potremmo rimanere a lungo; e tale è l’ampiezza e la ricchezza di ciò che si offre al nostro sguardo, che potremmo far nostre le aspirazioni degli Apostoli sul Tabor: «Bonum est nos hic esse» (Matth. 17, 4); potremmo rimanere nella riflessione dell’avvenimento testé compiuto, senza provare sazietà e stanchezza, ma piuttosto gaudio e quasi ansia di più comprendere e di più godere.

Basti a noi ora un momento, per tradurre in pensiero l’esperienza spirituale unica e sublime di questo rito, per onorare con un atto di piena coscienza il Signore di cui abbiamo così intimamente celebrato i misteri, per scegliere fra tanta ricchezza di atti e di testi un dono di grazia e di verità, che ci sia di ricordo speciale, con tanti altri non meno preziosi, nei giorni venturi, per rendere sempre perseverante e attuale il beneficio di quest’ora benedetta.

Quale scegliamo? L’Episcopato, di cui ora questi Nostri Fratelli sono stati rivestiti, presenta alcuni aspetti di chiara evidenza, nei quali possiamo riassumere l’immensa dottrina che lo riguarda. Scegliamo il primo: la dignità del Vescovo. Sappiamo che di solito la considerazione circa l’Episcopato, specialmente oggi, e specialmente nella circostanza che ora Ci riguarda, quella del commento sul rito compiuto, preferisce rivolgersi ad altri aspetti dell’Episcopato: alla potestà, ad esempio, che è conferita con la consacrazione; alla inserzione del consacrato nel corpo episcopale; al ministero e al servizio, a cui il Vescovo è deputato, di Sacerdote, di maestro, di pastore; alla santità, di cui egli deve fare professione e dare esempio

Noi fermiamo un istante il pensiero sul primo aspetto che dicevamo essere quello della dignità episcopale. Ne possiamo avere qualche nozione cercando di rispondere ad una domanda molto ovvia: che cosa sono diventati questi nuovi eletti, questi nuovi consacrati? La domanda può essere formulata anche in modo più semplice: chi è un Vescovo? Chi è, innanzi tutto, di fronte a Dio, chi è in se stesso, prima ancora che noi pensiamo alla sua funzione in seno alla Chiesa, funzione che certamente ha ragione di fine nella consacrazione d’un Vescovo: l’Episcopato non è un onore che sta a sé; è il carattere d’un particolare ministero, cioè è una dignità che accompagna e sostiene un servizio a vantaggio altrui; sappiamo bene che non è una elevazione fine a se stessa, ma per il bene della Chiesa; l’Episcopato, dirà S. Agostino «nomen est operis, non honoris»; e Vescovo non è chi «praeesse dilexerit, sed prodesse», cioè non lo è chi ama l’onore più dell’onere, chi desidera precedere più ,che giovare (De civ. Dei, 19, 19; P.L. 41, 647); e S. Gregorio Magno, con S. Benedetto (Reg. 64, 8), ripeterà: «Oportet magis prodesse, quam praeesse» (Reg. Past. 11, 6).

 Ma sta il fatto che il .Vescovo, ancor prima d’essere ministro del culto, pastore dei fedeli, maestro della comunità, è un uomo chiamato e assunto fra gli altri uomini (cfr. Hebr. 5, 1), un eletto, un preferito. La grande maggioranza dei teologi moderni ci assicura, e forse tra poco la voce del Concilio ecumenico lo confermerà, che, secondo la più ampia e antica tradizione, l’ordinazione episcopale ha valore di sacramento; è perciò una fonte di grazia, è un dono divino, è una ricchezza spirituale, è una santificazione superiore. Il rito ora compiuto non è, per quanto solennemente celebrato, una semplice trasmissione di poteri liturgici, didattici e giuridici; è una perfezione conferita all’anima d’ogni consacrato; il quale, prima d’essere un santificatore degli altri, è lui stesso un santificato. Anzi l’opera dello Spirito Santo, noi sappiamo, nel sacramento dell’ordine non consiste solamente nel conferimento della grazia a colui che lo riceve, ma nell’impressione altresì d’un carattere, che assimila l’anima del consacrato al sacerdozio di Cristo, in grado sommo, in vera pienezza per chi dell’Ordine sacro è assunto al grado episcopale. E se, per disavventura dell’umana fragilità, si può dare il caso che quella grazia si spenga, non si cancella invece il sigillo sacramentale, non viene meno la attitudine a fungere da strumento di Cristo, così che la validità del ministero sarà indipendente dalla santità del ministro, perché ormai Cristo ha così associato a sé il ministro stesso da sostituire in lui ogni effettiva causalità. Ricordiamo ancora S. Agostino: «Pietro battezza, ma è Cristo che battezza; Paolo battezza, ma è Cristo che battezza; Giuda battezza, ma è Cristo che battezza» (cfr. in Io. tract. 6, 1 - P.L. 35, 1428). Ma anche questa assoluta prevalenza dell’azione di Cristo nel ministro, che ha ricevuto il carattere sacramentale dell’Ordine sacro, non è senza splendore di dignità, di potenza, di mistero; nell’uomo consacrato si sovrappone una veste rappresentativa che non indarno lo tende alter Christus; egli agisce, come insegna S. Tommaso; «in persona Christi, cuius vicem . . . gerit per ordinis potestatem» (III, 82, 7, ad 3), egli opera cioè in persona di Cristo, di cui fa le veci mediante la potestà dell’Ordine.

Queste stesse verità annunciava, in questa medesima Basilica Vaticana, il Nostro venerato Predecessore di felice memoria, Giovanni XXIII, quando, nel maggio 1960, dopo aver consacrato quattordici nuovi Vescovi, diceva: «L’umile successore di Pietro, circondato dai seniori della Chiesa, ripete, sia pur con diversa formula, l’invocazione primitiva, ripete il gesto della trasmissione del carattere episcopale e della grazia» (A.A.S. 1960, 466).

Non dobbiamo noi fermare lo sguardo su questa trasfigurazione dell’uomo, e ammirare nell’uomo trasfigurato l’opera di Dio? Se il Sacerdozio cattolico non sostituisce Cristo, ma lo personifica; se non introduce una nuova mediazione fra Dio e l’umanità, ma mette in esercizio l’unica mediazione di Cristo; se non solo trasmette ad altri la santificazione, ma ne rende partecipe il veicolo che la distribuisce, non dobbiamo noi meditare e celebrare la dignità, l’eccellenza, la sublimità dell’uomo così invaso dallo Spirito Santo?, non chiedevamo Noi a Dio, un momento fa, all’atto preciso della consacrazione, di santificare questi eletti, forniti degli ornamenti di ogni glorificazione? (Pont. Rom.). Non si compiono forse davanti a noi, in questi nuovi Vescovi, le parole di S. Paolo, riferite appunto ai ministri del Vangelo: «Noi tutti... riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, ci trasformiamo nella stessa immagine, di gloria in gloria, come per opera dello Spirito del Signore»? (2 Cor. 3, 18).

Ecco una parola che pronunciamo con fatica, noi moderni, la parola «gloria» riferita ad esseri umani. Ne abbiamo timore come d’un termine orgoglioso e vanitoso, attribuito a qualche eroe, a qualche sapiente, a qualche campione per stimolare e saziare il nostro inestinguibile bisogno di riferirci al concetto dell’uomo perfetto, al tipo reale dell’uomo ideale; perché subito dopo d’aver esaltato a gloria l’uomo eccezionale ne avvertiamo la misura limitata, la miseria, il vuoto, la maschera; non crediamo più all’uomo grande, all’uomo glorioso; perfino il santo noi abbassiamo spesso al livello della nostra mediocrità.

Ed è invece la parola «gloria» un termine che la Sacra Scrittura ci fa continuamente pronunciare, e non solo riferita a Dio, ma all’uomo altresì. Ma non all’uomo per se stesso, sì bene all’uomo su cui splende la luce di Dio: «Signaturn est super nos lumen vultus tui, Domine; dedisti laetitiam in corde meo»; si è dispiegata su di noi la luce della tua faccia, o Signore!, hai riempito di gaudio il mio cuore» (Ps. 4, 7), diremo col Salmista.

Lo diremo per godere di questo avvenimento come d’uno dei più belli, dei più grandi, dei più benefici della nostra umana vicenda: avvenimento di grazia e di letizia è questo; benediciamo il Signore! «Haec est dies quam fecit Dominus!», questo è un giorno proprio fatto dal Signore!

Lo diremo per ravvivare in noi tutti il concetto del Sacerdozio di Cristo, concetto che non può non essere espresso che in termini di sublimità, di dignità e di letizia. Lo diremo infine per riferire a Cristo ogni senso del rito compiuto, ogni riflesso, che ne viene a chi nella Chiesa assume titolo e funzione episcopale, ogni speranza che alla Chiesa è concessa nella celebrazione vivente della successione apostolica; memori ancora una volta della sublime e sintetica parola di S. Paolo: Sono apostoli delle Chiese, sono gloria di Cristo!, «Apostoli ecclesiarum, gloria Christi!» (2 Cor. 8, 23).

E questa acclamazione Noi rivolgiamo ora ai cinque nuovi Vescovi che abbiamo testè consacrati e che siamo lieti ed onorati di presentare alla comunità dei fedeli e di salutare Fratelli, nell’ordine episcopale. 

Possano i nuovi Vescovi, che raccolgono con la successione apostolica la grande missione di essere i testimoni qualificati della fede, i maestri, i santificatori e i pastori del popolo di Dio, gli edificatori della santa Chiesa, possano essere la gloria di Cristo! È il Nostro incoraggiamento per voi, Fratelli nell’Episcopato, ad assumere con umiltà, con coraggio, con fiducia il peso formidabile della responsabilità episcopale: siete, Fratelli, nelle vostre persone consacrate, la gloria di Cristo; siate, Fratelli, anche nella missione che vi at-tende, la gloria di Cristo!: è il Nostro gaudio, è il Nostro voto, è la Nostra speranza; è il gaudio, è il voto, è la speranza delle persone venerate e care che fanno corona ai nuovi Consacrati; è il gaudio, è il voto, è la speranza della Chiesa di Dio: siate la gloria di Cristo!

Noi proferiamo questo grido di lode e d’augurio per te, diletto Fratello Nostro Angelo Palmas, destinato a rappresentare questa Sede Apostolica nell’estremo Oriente, nella remota Indocina, quale Nostro Delegato Apostolico: possa la tua missione recare pace, prosperità a quelle terre stupende e tribolate, lontane nello spazio, ma a Noi vicine nello spirito, e con tanta fecondità e tante promesse aperte alla gloria di Cristo!

Per te ripetiamo la biblica acclamazione, caro e venerato Fratello Ernesto Camagni, Cancelliere dei Brevi Apostolici, per lunghi anni Nostro fedele collaboratore, affinché il tuo servizio alla Sezione della Nostra Segreteria di Stato e le cure del tuo apostolato possano rendersi fruttuose, a gloria di Cristo, anche nel settore delle pie Confraternite romane.

Lo rivolgeremo a te, Giovanni Fallani, che, presiedendo agli organi tutori e promotori dell’arte sacra in Italia, nuova gloria a Cristo potrai procurare, a Lui dirigendo opere ed animi, che nel decoro della bellezza e delle virtù artistiche possono celebrarla.

Poi lo rivolgeremo a te, Giovanni Willebrands, caro Fratello in cerca di fratelli cristiani ancora da Noi separati, ma a Noi già uniti nella speranza, affinché sia gloria a Cristo e gioia per tutta la Chiesa, il tuo ministero, intento ad appianare le vie per l’auspicata riconciliazione.

E finalmente al venerato ed illustre Abate Pietro Salmon esprimeremo l’augurio Nostro che la dignità vescovile, a lui conferita; rifulga a gloria di Cristo nel cenacolo della sua comunità, nel laboratorio della revisione della Volgata, a cui da tanti anni ha dedicato assidue e sapienti fatiche, e nel più vasto cerchio di tutta la piissima famiglia monastica benedettina.

E con questi nuovi Fratelli nella dignità e nell’ufficio episcopale, con voi, Figli e Fedeli, che con loro e con Noi condividete il gaudio di quest’ora felice, ripeteremo con l’Apostolo: «A Dio, unico e sapiente, per mezzo di Gesù Cristo, sia la gloria per i secoli dei secoli!». Così sia!

  



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