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SANTA MESSA PER I LAUREATI CATTOLICI D'ITALIA

OMELIA DEL SANTO PADRE PAOLO VI

Domenica, 3 gennaio 1965

        

Cari Figli e cari Amici!

Noi godiamo di questo incontro; e siamo grati a voi che Ce lo procurate, portandovi ricordi, sentimenti, idee e propositi, che lo rendono a Noi prezioso, e Ce lo fanno godere nel modo migliore, quello della comunione degli animi, nell’amicizia, nella preghiera, nella speranza. Ringraziamo il Signore, che ci concede un’ora felice; e vediamo di profittarne a comune conforto.

L’aspetto migliore del nostro presente momento è quello della facilità della conversazione, come avviene appunto fra persone che si conoscono, che si capiscono, che si vogliono bene. Le parole possono essere poche e semplici; ma ciò che conta è la comprensione. A Noi sembra facile comprendere voi e accogliere la voce della vostra presenza. È una voce composita, ma è già un piacere gustarne l’unisono; composita, diciamo, dalla testimonianza degli anziani, che con commovente fedeltà, rinunciando al riposo e allo svago di questi giorni festivi, sono venuti all’annuale convegno, come ad un appuntamento d’onore, come ad un richiamo cordiale, per dire a sé, per dire agli amici: siamo qui; non possiamo dimenticare, non vogliamo mancare. Quale valore affettivo, quale) vigore morale, quale vittoria ideale in cotesto silenzioso, ma eloquente attestato di costante adesione a quei vincoli associativi ed a quei principi spirituali, che hanno costituito la bellezza e il vigore dei lontani anni decisivi e che hanno resistito all’usura della vita pratica, formando allora, in seguito e adesso l’impegno qualificante della vostra esistenza, l’impegno cattolico! È magnifica codesta lineare continuità, codesta interiore unità, codesta persistente giovinezza d’anima! E come bene la nota grave, ma sempre squillante, dei veterani si fonde con quella dei più giovani e dei nuovi amici, che sono entrati, senza esitazione propria e senza ostacoli altrui, nella fila gloriosa, subito facendone proprio lo stile, ma subito imprimendovi il proprio, com’è bisogno e dovere per ogni successiva generazione! Salutiamo anche questi rappresentanti dei tempi nuovi, e diciamo subito a loro di mettersi in movimento; purché la linea dei loro passi sia diritta, cioè avverta l’obbligo e la spinta della continuità coerente e fedele di una tradizione, non formale, ma sostanziale di principi morali e cristiani, nessuno, Noi pensiamo, contesterà loro il posto di avanguardia.

Inoltre, sembra a Noi di comprendervi in tanti vostri problemi, e specialmente nello stato d’animo che caratterizza il nostro tempo, e che porta un segno di sofferenza e di attesa in coloro i quali hanno la fortuna di possedere un patrimonio di verità, un castello di idee solide e sacre; vogliamo dire lo stato d’animo della problematicità: tutto oggi è diventato problema; e non già per una virtuosa esercitazione scolastica; ma per un cambiamento reale di dati obbiettivi; tutto dev’essere ripensato, analizzato, quasi disintegrato nei suoi elementi essenziali e accidentali, per essere ricomposto trascurando questi ultimi, gli accidentali, per impiegare i primi, quelli essenziali, in costruzioni nuove atte ad assorbire l’apporto delle nuove esperienze.

Vi comprendiamo, carissimi; e comprendiamo anche come i grandi avvenimenti rinnovatori che stanno maturando nel campo stesso della vita cattolica possano aver accresciuto questa incertezza pratica di pensiero e questa fatica di ricuperare formule mentali sicure e indiscutibili. Vi comprendiamo, e vi esortiamo a non temere, a non abbandonarvi allo scetticismo pratico, che può insinuarsi anche negli animi dei fedeli e che lascia sospettare che oramai una idea vale l’altra, che non porta la spesa di battersi per alcuna affermazione ideale, che bisogna prendere le cose come sono e come vengono maturando, quasi per fatale determinismo, per necessità, a cui si dà il titolo solenne di storica, per non avere rimorso d’aver rinunciato a contenerla, a modificarla, e per aver cercato d’inserirsi meno male nel gioco delle circostanze con qualche profitto e con qualche onore. Vorremmo confortarvi; vorremmo incoraggiarvi a ben vivere il momento di crisi, cioè di passaggio, in cui versa il nostro tempo, con la fiducia di chi sa di possedere verità vitali, le quali non muoiono, le quali anzi? nel cimento delle nuove esperienze, possono dar prova della loro magnifica intangibilità e della loro inesauribile e provvidenziale fecondità; e insieme con l’umiltà, vogliamo dire, l’attenzione, la premura, l’abilità di scoprire e di accogliere quei nuovi valori, di pensiero e di azione, che il mondo moderno mette in evidenza e in efficienza.

E qui siamo Noi che speriamo d’essere compresi da voi. Quale desiderio, quale speranza Ci leggete nel cuore a vostro riguardo? Che cosa pensate che Noi possiamo attenderCi da voi? La risposta è facile; e voi celebrate appunto cotesto convegno per darle da pari vostri, stupendamente, una delle sue principali formulazioni. Noi desideriamo, Noi speriamo, Noi preghiamo che voi sappiate portare nella vostra vita personale, familiare, professionale, sociale, degnamente il nome cattolico, il nome cristiano (si equivalgono, nella presente considerazione, i due termini cattolico e cristiano).

Questo richiamo al nome che ci definisce porta il nostro pensiero al rito religioso, che stiamo celebrando in onore del nome di Gesù Cristo, il quale nome benedetto diede a noi la fortuna d’individuare, di chiamare, di esprimere Colui ch’è il nostro Salvatore e il nostro Maestro; non solo, ma diede altresì a noi la fortuna e la responsabilità d’individuare, di chiamare, di esprimere noi stessi; di qualificarci cioè quelli che siamo: cristiani.

Il pensiero risale allora a quella prima volta, quando questo appellativo fu dato, forse in senso dispregiativo, agli adepti della nuova fede nel Messia, nel Signore Gesù: fu ad Antiochia, alla prima e grande predicazione di Barnaba e di Paolo (Act. 11, 26); e il pensiero percorre poi l’itinerario tragico che subito questo titolo dovette subire nei primi tempi: «Non è lecito essere cristiani!» (cfr. Tertullian., Apol. 3); si arresta il pensiero un attimo per chiedere che cosa finalmente comporti un titolo simile. Che cosa vuol dire essere cristiani? Lo domanderemo al piccolo catechismo, da cui sapremo che un tale titolo non è un’etichetta esteriore, puramente anagrafica, ma dice assai di più, penetra nell’intimo del nostro essere di credenti e di battezzati per scoprire una nuova vita soprannaturale, che s’inserisce su quella umana, naturale, per fare di noi dei figli di Dio, dei fratelli di Cristo, dei membri anzi del suo corpo mistico, la Chiesa, e che ci apre la via a un destino superiore ed eterno; non ci rende estranei alla vita temporale, ma ci obbliga e insieme ci abilita ad un’arte superiore di vivere (cfr. Ep. ad Diognetum, V).

Formidabile cosa, figli carissimi, che mette, sì, tutto in questione, e con instancabile urgenza: essere cristiani è ineffabile fortuna, mistero a noi stessi, dignità incomparabile, esigenza implacabile, conforto inestinguibile, stile inconfondibile, nobiltà pericolosa, umanità originale, umanità, sì, autentica, semplicissima, felicissima; vita vera, personale e sociale. Dare a questo titolo di «cristiani» il suo. vero significato, accettare l’esaltazione spirituale ch’esso comporta: «Agnosce, o christiane, dignitatem tuam»: riconosci, o cristiano, la tua dignità, esclama San Leone Magno (serm. I de Nativ.); ricercarne. l’interiore potenzialità e tradurla in coscienza, la coscienza cristiana; affrontare il rischio, la scelta, che ne deriva; comporre intorno ad essa il proprio equilibrio spirituale, la propria personalità; professare esteriormente la coerenza, la testimonianza ch’essa reclama; ecco il comune dovere dei fedeli, sempre, ma specialmente nell’ora presente, e tanto più da parte dei cattolici che vogliono vivere in sincerità e in semplicità la loro fede. Questo per un duplice essenziale motivo: per dare alla propria persona il profilo e la statura, a cui un essenziale diritto-dovere la chiama, la perfezione cioè, vittoriosa dei facili infingimenti e delle comuni viltà, la santità, potremmo dire, nel senso a tutti accessibile di questo termine così esigente: e, secondo, per dare alla comunità circostante il contributo di servizio e di amore, a cui la legge del nome cristiano tutti ci invita e ci astringe: «In questo conosceranno tutti che siete miei discepoli - disse Gesù nella notte estrema del suo testamento - (cioè che siete cristiani), se vi amerete scambievolmente» (Io. 13, 35).

Vi ripetiamo cose notissime; ma di queste cose principalmente si alimenta la fedeltà a quel nome cristiano, a cui oggi dedichiamo la Nostra riflessione. E a volerla proseguire nelle sue più semplici conclusioni ricorderemo che la professione del nome cristiano non ci esonera dalla professione di quelle virtù elementari e naturali, che sembrano prescindere dalla religione, ma che definiscono l’uomo nelle sue linee fondamentali, propriamente umane, le virtù morali, primissima l’onestà del pensiero e della parola, la veracità, la lealtà, l’est-est, non-non caratteristico di chi attribuisce alla verità e alla giustizia il loro carattere assoluto; e poi quindi la purità della vita, il disinteresse e la rettitudine nell’esercizio dei pubblici uffici, lo spirito di dedizione, di civismo, di concordia, e così via. Non ci esonera: «Se la vostra giustizia - dice il Signore - non sarà superiore a quella dei formalisti, degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli» (cfr. Matth. 5, 20); non ci permette di accontentarci della moralità corrente, ambientale, così detta «della situazione», anche se suffragata da autorevoli consensi e da forme abituali; ci obbliga a dire: non basta, e a dirlo a noi stessi, facendo sorgere un inquieto e continuo proposito interiore di miglioramento, di indipendenza, di coraggio, caratteristico in chi segue il Vangelo. Non ci esonera, ripetiamo; ché anzi doppiamente ci obbliga, e come uomini e come cristiani; a tal punto che potremmo dire essere il contributo di questi basilari valori morali l’apporto più caratteristico del cristiano alla vita sociale, l’apporto più atteso dal pubblico, che da tale apporto spontaneo, generoso, perseverante, giudica se la nostra religiosità sia sincera, o ipocrita, e se il titolo di cristiano sia per noi titolo d’onore, o di condanna.

ComprendeteCi, dicevamo, o amici: una cosa Ci preme e attendiamo da voi, che diate pieno significato al nome cristiano, e che ne sappiate documentare la misteriosa bontà con l’irradiazione di virile e gentile senso morale, e con l’esercizio di quelle primissime virtù umane, su cui si fonda l’ordine della vita presente, e che perciò cardinali si chiamano, e di cui il cristiano dev’essere alunno e modello, se vuole meritare d’essere assunto alla sfera delle virtù superiori, quelle teologali, che a Dio lo uniscono.

E una cosa vi auguriamo: che dando al nome cristiano questa sua morale pienezza siate voi stessi i primi a sperimentare e a godere ciò che è detto oggi del nome di Cristo: non est in alio aliquo salus; non vi è salvezza che in questo nome (Act. 4, 12 ). Era così che affermava San Pietro agli inizi dell’evangelizzazione dell’umanità: è così che vi ripete l’ultimo umile suo successore e vostro amico: non v’è altro nome che quello di Cristo, che ci possa salvare.

         



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