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«MISSA IN COENA DOMINI» NELL’ARCIBASILICA LATERANENSE

OMELIA DI PAOLO VI

Giovedì Santo, 11 aprile 1968

 

Venerati Fratelli e Figli carissimi!

Tale è l'ampiezza, tale la ricchezza, tale la profondità dei fatti, dei misteri, dei riti, che il Giovedì Santo offre alla nostra considerazione, che faremo Noi pure ancora una volta una rinuncia a tutto comprendere, a tutto dire; e una scelta faremo d’uno degli aspetti di questa dolorosa e beata rievocazione della «Cena del Signore», sul quale concentriamo, per un breve istante, la nostra riflessione, come fosse il punto facile, che ci lascia intravedere nella sua prospettiva i significati molteplici dell’avvenimento celebrato.

LA PIÙ VERA AUTENTICA E DEGNA FORMA DELL'AMORE

Sembra chiaro a Noi che questo punto focale è l’amore.

E non pronunciamo con facilità questa troppo facile parola, dai molti, ambigui significati, nei quali le più varie e contraddittorie espressioni del sentimento e del volere sono stranamente accomunate, dalle più basse e depravate della passione e del vizio alle più alte e sublimi dell’eroismo e della carità, a quelle trascendenti perfino dell’infinita bontà effusiva di Dio con l’identico nome di amore. Ma questo incontro della parola, anzi della realtà dell’amore in questa celebrazione del Giovedì Santo è per noi una fortuna, una scuola; quella di saper distinguere fra le tante equivoche o imperfette forme dell’amore quella più vera, più autentica, più degna di tanto nome.

L'IMMENSO SIGNIFICATO DEL RACCONTO DELL'EVANGELISTA GIOVANNI

Ascoltiamo l’Evangelista Giovanni, colui che in quella sera benedetta, valendosi dell’atmosfera spirituale e mistica che s’era prodotta durante quella cena desideratissima (cfr. Luc. 22, 15), dal Maestro, ancor più che della posizione conviviale a lui toccata, meritò di posare la testa sul petto di Gesù. Egli apre il suo racconto con parole studiate: «Prima della festa di Pasqua, Gesù, sapendo giunta l’ora di passare da questo mondo al Padre, poiché egli aveva amato i suoi ch’erano nel mondo, li amò fino alla fine» (Io. 13, 1). Fino alla fine, che cosa significa? Fino alla fine della vita temporale? Ciò indica che siamo in una veglia cosciente, precedente la tragedia della Passione, cioè in quell’ora testamentaria, in cui tutto si conclude con accenti e con gesti di suprema sincerità, e il cuore rivela le sue più profonde riserve nella semplice solennità delle estreme confidenze? Ovvero significa: fino alla fine d’ogni concepibile misura, fino all’eccesso, fino all’inverosimile limite, a cui solo il Cuore di Cristo poteva arrivare? Fino a dare se stesso con la totalità che il vero amore esige, e con l’effusione che solo un amore divino può concepire e può attuare? Qualunque sia l’interpretazione che daremo a quella superlativa espressione, ricorderemo ch’essa pone in chiave dell’ultima veglia di Cristo l’amore, che nelle stesse parole di Lui sale alla vetta della sua misura: «Nessuno ha un amore più grande di questo, di uno che dia la vita per i suoi amici» (Io. 15, 13). Amare vuol dire dare; dare significa amare. Dare tutto, dare la vita. Ecco la linea vera dell’amore, ecco il suo termine.

IL DONO DEH SACRIFICIO RIPETUTO E MOLTIPLICATO DALLA EUCARISTIA

Pensiamo allora al misterioso avvenimento che concluse quella cena pasquale. Scrive San Paolo, il primo a sigillarlo nella storia biblica: «Il Signore Gesù, nella notte in cui fu tradito, prese il pane, e rese le grazie, lo spezzò e disse: prendete e mangiate, questo è il mio Corpo, che sarà dato per voi; questo fate in memoria di me. E similmente il calice... dicendo: Questo calice è il nuovo testamento nel mio sangue. Questo fate, ogni volta che ne berrete, in memoria di me» (1 Cor. 11, 23-25). Il dono cruento che-Cristo stava per offrire all’umanità nel suo imminente sacrificio della croce è riprodotto, è moltiplicato, è perpetuato nel dono, identico ma incruento, del Sacrificio eucaristico. Impossibile capire se non si pensa all’amore, che in quella sera inventò questa straordinaria maniera di comunicarsi. È per noi impossibile accogliere come si conviene questa immolata presenza reale di Cristo nell’Eucaristia, che stiamo per celebrare, se non entriamo in quella proiezione d’amore, che Egli a noi rivolge; ancora San Paolo, che esclama: «Egli mi amò, e diede se stesso per me» (Gal. 2, 20).

Siamo inseguiti da questo ineffabile, irrefrenabile amore. Siamo così conosciuti, ricordati, assediati da questo potente e silenzioso amore, che non ci dà tregua, che vuole a noi comunicarsi, che vuole da noi essere compreso, ricevuto, ricambiato. Tutto il cristianesimo è qui. Il cristianesimo è comunione della vita divina, in Cristo, con la nostra. Il cristianesimo è appropriazione di Dio; e Dio è carità, è amore.

La rivelazione, sebbene sempre velata da un sistema di parole e di segni, il sistema sacramentale, per lasciare, anche in questa pienezza d’incontro intatta la nostra libertà, diventa folgorante. Se crediamo in questo «mysterium fidei», se entriamo nel cono di luce e di amore ch’essa lancia su di noi, come rimanere impassibili, come inerti, come distratti, come indifferenti? L’amore vuole amore: «amor ch’a nullo amato amar perdona»... (Dante, 1, 5, 103). È fuoco: come non sentirne il calore? come non cercare, in qualche modo, di corrispondervi ?

«IO VI DO IL COMANDAMENTO NUOVO»

Anche a questo ha provveduto il Signore da quella sera benedetta. Per capire ciò che Egli ha detto a questo proposito, dopo la sconcertante lezione d’amore e d’umiltà data ai suoi con la lavanda dei loro piedi, dobbiamo figurarci di avere Lui, Gesù Cristo, qui fra noi, in questa sua Chiesa romana, che ne custodisce le parole, i poteri, gli esempi, la perenne promessa; e dobbiamo chiedere a noi stessi: che cosa Egli ci direbbe? quale raccomandazione ci farebbe? quale lezione collegherebbe al suo mistero pasquale, che stiamo celebrando? Tacciano un istante, interiormente, i nostri animi, ed ascoltiamo: «Io vi do il comandamento nuovo: amatevi gli uni gli altri, come Io ho amato voi . . .» (Io. 13, 34). Ancora si parla di amore. Ma questa volta l’amore deve partire da noi. All’amore ricevuto da Cristo deve seguire il nostro per i nostri simili, per la comunità che ci trova uniti d’intorno a Lui, la presenza fisica, occasionale, esteriore, deve farsi unione spirituale, perpetua, interiore; così si forma la Chiesa, così si compagina il suo Corpo mistico. Una nuova circolazione di carità ci deve rendere da nemici amici, da estranei fratelli. Con questo paradossale impegno: dobbiamo amare come Lui ci ha amati.

L'INSUPERABILE POTENZA DELLA CARITÀ

Quel come dà le vertigini. Ci avverte che non avremo mai amato abbastanza. Ci avverte che la nostra professione di amore cristiano è ancora al principio. Ci avverte che il precetto della carità contiene in sé sviluppi potenziali, che nessuna filantropia, che nessuna sociologia potrà mai eguagliare. La carità è ancora contratta e racchiusa entro confini di costumi, d’interessi, di egoismi, che dovranno, Noi crediamo, essere dilatati. Dilatentur spatia caritatis, esclama Sant’Agostino (Sermo 10 de verbis D.ni). E a nostro stimolo, e forse a nostro rimprovero, dalle labbra soavi e tremende di Cristo piovono quest’altre indimenticabili parole, sempre sull’amore: «Da questo tutti conosceranno che siete miei discepoli, se vi amerete scambievolmente» (Io. 13, 35). L’amore dunque è il distintivo dell’autenticità cristiana.

Oh! quale lezione! quale programma! quale rinnovamento, quale «aggiornamento» è sempre proposto alla nostra. fedeltà a Cristo Signore! Piaccia a noi che tali divine parole, degne del Giovedì Santo, risuonino in quest’aula, in questa assemblea, in questa Chiesa romana, per trovarvi il loro umile, felice e volonteroso compimento; e piaccia al nostro Maestro e Salvatore Gesù concedere a noi questa grazia pasquale di saperle ricordare, vivere e rivivere sempre.

                            



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