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STAZIONE QUARESIMALE A SANTA SABINA

OMELIA DI PAOLO VI

Mercoledì delle Ceneri, 16 febbraio 1972

 

Nel pomeriggio del 16 febbraio, mercoledì delle Ceneri, alle ore 17 Paolo VI presiede, come è ormai consuetudine, la prima stazione quaresimale sull’Aventino.
Il Papa, durante la Santa Messa celebrata nella basilica dì Santa Sabina, raggiunta processionalmente dalla chiesa abbaziale di S. Anselmo, pronuncia un’Omelia richiamando l’attenzione dei presenti sul significato della penitenza.

Paolo VI manifesta, innanzitutto, il suo compiacimento nel ritrovarsi ancora una volta insieme con la devota assemblea all’inizio del periodo quaresimale, consacrato in modo particolare alla preghiera, alla riflessione, alla penitenza e, in tempi passati più che oggi, anche al digiuno. La partecipazione del Papa al rito indica l’importanza che egli intende attribuire sia ad esso, sia a quelli che lo seguiranno fino alla Pasqua. Non si tratta di ripetere gesti, cerimonie, preghiere incomprensibili per i nostri tempi. Non sono atti anacronistici. Il Papa riafferma chiaramente l’attualità della Quaresima, di questo tempo di spiritualità orante e penitente che la Chiesa propone ai fedeli affinché si preparino alla degna celebrazione e al degno frutto del Mistero Pasquale. Non è vano, non è superfluo, per arrivare al Cristo risorto, anteporre questo periodo in cui ciascuno, secondo le sue possibilità e nei modi indicati dalla Chiesa, si propone di disporsi alla Pasqua.

In realtà, il nostro tempo dimostra una scarsa consonanza, per non dire una certa sordità, a questo invito. Ma il nostro tempo è anche il tempo delle grandi imprese e ci insegna, più che mai, la necessità della preparazione delle opere. Non si arriva a determinati risultati senza il tirocinio, la predisposizione, il preciso disegno, senza premettere il pensiero alle realizzazioni. La «psicologia della preparazione» è tipica del nostro tempo, ce la propongono i figli di questo secolo. Tuttavia si fa avanti un’obiezione di fondo radicale incalzante: non si vedono più i motivi di una preparazione come questa. La penitenza, come il Papa ha avuto modo di sottolineare al mattino, durante il rito dell’imposizione delle Ceneri, presuppone il peccato, mentre il nostro tempo ha perduto la coscienza del peccato. Se ancora ne resta qualche segno, lo soffoca. L’uomo di oggi non vuole sentirsi peccatore, vuole piuttosto coonestare ogni azione con la tolleranza, con la licenza. La chiamano «morale permissiva» e tende a liberare l’uomo da tutti i vincoli che i moralisti, i canonisti e gli asceti hanno imposto alla sua coscienza. Quando si arriva all’incontro fra la mentalità corrente e la mentalità che si rifà alla realtà del peccato, in gran parte misteriosa ma d’altra parte vivissima nel nostro spirito, sembra di trovarsi come fuori fase. Ma le ragioni di questa disciplina sono ancora attuali, perché le nostre azioni hanno una relazione diretta con Dio. Quando non sono sulla linea che Dio ha tracciato, allora la deviazione rompe la nostra comunicazione con il Signore. Questa rottura è per noi una grande disgrazia, può essere fatale; il peccato può essere mortale, può compromettere cioè il nostro destino eterno. Se siamo coscienti di questa realtà, allora diventa logico e desiderabile essere chiamati all’espiazione, allo sforzo verso il ricongiungimento del «filo spezzato» che ci rimette in comunicazione con la sorgente della vita, cioè con Dio.

Il Santo Padre si rivolge, a questo punto, in modo particolare ai religiosi e alle religiose presenti, a quanti cioè si trovano sul cammino erto e rettilineo della perfezione. Essi ben sanno quale impegno sia necessario per mantenere, per svolgere e per approfondire la perfezione cercata e voluta. Lo vediamo documentato nella vita dei Santi. Quanto più un’anima è vicina alla perfezione, tanto più ha il senso, quasi abissale, della sua imperfezione, dei suoi peccati. Non è fantasia, non è immaginazione. È la percezione della realtà del mondo spirituale, che ci mostra come la sproporzione fra quello che siamo e quello che dovremmo essere, fra quello che siamo e quello che è quel Dio che andiamo cercando e che vogliamo conquistare, esiga da noi una tensione, uno sforzo, un sacrificio. Se vogliamo veramente imitare Cristo, dobbiamo accettare le sue parole non come un invito retorico, ma come un programma vincolante che impone tanta riflessione: «Chi mi ama mi segua; ciascuno prenda la sua Croce e la porti».

Nasce da qui una domanda sostanziale: vogliamo un cristianesimo facile o vogliamo un cristianesimo forte? La tentazione del cristianesimo facile penetra oggi ovunque. Arriva anche ai religiosi e alle religiose - osserva il Papa - che dedicano la loro vita all’austerità e alla severità. Quella tentazione comincia a intaccare non solo la disciplina esteriore, come l’abito, l’orario, e così via, ma anche le radici del cristianesimo; arriva alla fede. Molto spesso ci troviamo di fronte, in libri o trattati, forme di presentazione del cristianesimo che hanno il tacito o palese proposito di renderlo accettabile, di renderlo, come si dice, «credibile». Questi maestri, che sono discepoli del secolo più che del Vangelo, non osano forse intaccare le verità basilari, che invece restano superiori ad ogni nostra intelligenza? Sta il fatto che nella scuola, nella pedagogia moderna è diffuso il tentativo di rendere facile il cristianesimo, di sfrondarlo di tutto ciò che disturba, sia in campo dottrinale, sia nel campo pratico, quello cioè dei comandamenti. Si tende a eliminare ogni inciampo, per lasciare che l’uomo viva di spontaneità, in pienezza di vita, in modo autonomo. Commettendo un grande errore psicologico, si pensa di presentare ai giovani un cristianesimo facile, senza tante regole, senza tanti pesi e tanti scrupoli, un cristianesimo comodo. Si cerca cioè di rendere facile quello che ancora soprattutto preme, cioè la professione cristiana.

Ci si appella, nota Paolo VI, anche ai testi evangelici. Si dice che il Signore è buono, che ci ha liberati nella verità, e che si deve quindi consentire a chi vuol essere cristiano di seguire una linea di spontaneità e di libertà. Si propone un cristianesimo facile, privo del grande segno pregnante della Croce. La Croce viene considerata come un segno ornamentale e simbolico. Ancora, fortunatamente, non è scomparsa dagli uffici pubblici, dalle scuole, e tanto meno dalle chiese. Resta lì. Ma riflette ancora sulle anime lo stampo del suo esempio e l’eloquenza della sua filosofia, della sua teologia, della sua pedagogia? Sulle pagine del Vangelo troviamo che il Signore, quando ci ha presentato il cristianesimo, non ha esitato a sfidare la popolarità della sua predicazione, manifestando le esigenze severe del cristianesimo stesso. Ha detto che la via per il Regno dei Cieli è stretta e faticosa, e che quanti preferiscono la strada larga si perdono. Lo stesso discorso della montagna, che sembra un inno di gioia, segna le pretese nuove del cristianesimo vero, quel cristianesimo che non si formalizzerà per delle manifestazioni esteriori, esigendo invece dei sentimenti interiori. La severità delle parole di Cristo ci fa tremare, ci avverte che siamo infedeli, manchevoli, poveri seguaci del Signore. Tutta la vita cristiana è caratterizzata da una grande severità. Lo stesso Apostolo che è considerato il grande liberatore, dice: «Io castigo il mio corpo, e lo riduco in schiavitù, affinché, dopo aver predicato agli altri, non diventi reprobo io stesso». San Paolo è severo, austero: «Sono inchiodato, con Cristo, sulla Croce».

Anche San Benedetto, come del resto tutta la progenie, la tradizione del cristianesimo, raccoglierà senza attenuarla questa grande lezione e farà dei veri seguaci di Cristo. La formula che dobbiamo far rivivere nella nostra generazione è quella di un cristianesimo forte, che abbia padronanza di sé, che sia capace di portare quella Croce la quale è necessaria per ricomporre l’armonia del nostro essere. L’uomo - ricorda Sua Santità - è un essere scomposto, è una macchina dislocata. In noi c’è qualcosa di non ordinato: sono le conseguenze del peccato originale. Per ricreare l’armonia, la capacità di colloquio con Dio, di amore per il prossimo, di azioni oneste occorre un grande sforzo. Non viene da sé. Bisogna che ci concentriamo sopra noi stessi, per imporci una legge di mortificazione, di penitenza, di sacrificio. Dobbiamo segnare noi stessi del segno della Croce. Ed è allora che ci sentiamo di essere più autentici, cioè più fedeli, più seguaci, più vicini agli esempi e ai precetti del Signore, e sentiamo che in noi si risveglia un’energia particolare.

Se avvertite il naturale senso di pena - precisa l’augusto Celebrante - quando vi imponete qualche sacrificio per amore del Signore, per l’osservanza della sua legge, per riflettere nelle vostre vite la sua sollecitudine, sentite anche la gioia di essere veramente fedeli, la forza di fare ciò che vi sembrava prima tanto difficile.

L’esortazione del Santo Padre non si riferisce alle severità fisiche, come per esempio a grandi digiuni oggi incompatibili con le esigenze della vita moderna, così permeata di impegni, così attiva che non consente di castigare la propria povera esistenza con artificiali mortificazioni. Gli antichi maestri ci parlano di una penitenza interiore, quella che i greci chiamavano «pneumatica», cioè dello spirito. Anche il Signore ce ne parla. E questa è possibile a tutti. Avvertiamo che la nostra cella interiore è invasa attualmente da tante immagini, suoni, voci, da tanta profanità che provengono dal mondo moderno. La Quaresima ci invita a imporci qualche silenzio, qualche riguardo, a metterci a colloquio con noi stessi. Il Papa ricorda, in proposito, quanto fu scritto di San Benedetto: Secum vivebat.

Per realizzare il colloquio interiore con noi stessi dobbiamo imporci un po’ di raccoglimento, di silenzio, di distacco dall’ambiente che ci distrae. È questo la penitenza, il recupero delle nostre energie e del nostro essere. Questo è diventare veramente cristiani. Paolo VI invita i presenti ad ascoltare più attentamente, nel periodo che prepara alla Pasqua, la parola del Signore, a cercare di essere veramente i correttori di se stessi, ma anche a cercare di fare il bene degli altri. Richiamando le letture della Messa, il Papa sottolinea che la penitenza non è una chiusura dell’anima; è piuttosto uno sforzo perché essa si apra al bene, all’effusione di sé per il conforto e per l’elevazione altrui. «La raccomando a voi, - egli conclude - la predico a voi, e mi sento tanto felice di sapere che voi non solo ascoltate queste parole, ma le praticate nel nome di Cristo».

                                      



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