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PAOLO VI  

LETTERA APOSTOLICA MOTU PROPRIO

EPISCOPALIS POTESTATIS

Vengono date ai Vescovi delle Chiese Orientali norme riguardanti la facoltà di dispensare

 

La pienezza della Potestà Episcopale viene chiaramente definita dal Concilio Ecumenico Vaticano II, che a Noi è felicemente toccato di proseguire e chiudere, soprattutto nel Decreto Christus Dominus (AAS 58 (1966), pp. 673-701). In questo Decreto infatti, al n. 8, leggiamo quanto segue:
a) Ai Vescovi, come a successori degli Apostoli, nelle diocesi loro affidate, per sé spetta la potestà ordinaria, propria ed immediata, che é necessaria per l'esercizio del loro ufficio pastorale, ferma sempre restando in ogni campo la potestà del Romano Pontefice, in forza del suo ufficio, di riservare alcune cause a se stesso o ad altra Autorità.
b) Ai singoli Vescovi diocesani, in un caso particolare, è data facoltà di dispensare da una legge generale della Chiesa i fedeli sui quali, a norma del diritto, esercitano la loro autorità, ogni qual volta ritengano che ciò giovi al loro bene spirituale; purché dalla Suprema Autorità della Chiesa non sia stata fatta qualche speciale riserva (Ibid., p. 676).

Per attuare tale prescrizione, il 15 giugno dello scorso anno abbiamo promulgato la Lettera Apostolica riguardante gli uffici dei vescovi (Cf AAS 58 (1966), pp. 467-472), nella quale abbiamo fissato un elenco di leggi generali per tutta la Chiesa Latina, delle quali Ci siamo riservati l'onere della dispensa, cioè delle leggi dalla cui dispensa la Sede Apostolica si è sempre astenuta, o dalle quali fu solita dispensare solo assai raramente, per questioni che nella società umana incidono con particolare influsso.

Quasi nel medesimo tempo, su istanza del Cardinale Pro-Prefetto della Sacra Congregazione per la Chiesa Orientale, abbiamo voluto che per le chiese orientali fosse prorogata la vacatio legis (Cf AAS 58 (1966), p. 523), per quanto riguarda il n. 8 b, e ciò principalmente perché si potesse preparare con maggior cura un indice simile adattato all'indole delle Chiese Orientali, esigendo esso uno studio più approfondito data la maggiore varietà di disciplina.

Ora, dopo aver consultato la medesima Sacra Congregazione per la Chiesa Orientale e gli Uffici della Curia Romana, le Commissioni Postconciliari e i Segretariati, e dopo aver ponderato i loro pareri, con ferma cognizione, di Nostra Suprema e Apostolica autorità, per le Chiese Orientali dichiariamo e stabiliamo quanto segue.

I. Quelle leggi che la Chiesa, Madre previdente, ha sancito per le Chiese Orientali con le Lettere Apostoliche Crebrae allatae (22 febbraio 1949) (Motu proprio De disciplina sacramenti matrimonii pro Ecclesia Orientali: Cf. AAS 41 (1949), pp. 89-117), Sollicitudinem Nostram (6 gennaio 1950) (Motu proprio De Iudiciis pro Ecclesia Orientali: Cf AAS 42 (1950), pp. 5-120), Postquam Apostolicis Litteris (9 febbraio 1952) (Motu proprio De Religiosis, de bonis Ecclesiae temporalibus, de verborum signiftcatione: Cf AAS 44 (1952), pp. 65-150), Cleri sanctitati (2 giugno 1957) (Motu proprio De Ritibus Orientalibus, de personis pro Ecclesiis Orientalibus: Cf AAS 49 (1957), pp. 433-600), e in seguito con altri documenti ha stabilito e non revocato, le dichiariamo integre e sante, a meno che il Concilio Ecumenico Vaticano II le abbia apertamente abrogate oppure in quelle parti che siano state abrogate o derogate.

II. Col nome di Vescovi diocesani o eparchiali si intendono non solo i Vescovi residenziali, ma anche gli altri ad essi nel diritto equiparati (CONC. VAT. II, Decr. sulla missione pastorale dei Vescovi nella Chiesa Christus Dominus, n. 21: cf AAS 58 (1966), p. 683). Ciò è richiesto sia dalla parità di diritti che godono i Vescovi eparchiali e gli altri, sia dalla uguale motivazione di quei diritti, sia dalla necessità di provvedere al bene spirituale dei fedeli. Per questo godono della facoltà di dispensare anche gli Esarchi con territorio proprio (Lett. Ap. motu proprio Cleri sanctitati, can. 364, § 2: Cf AAS 49 (1957), pp. 541), gli Esarchi Apostolici (Ibid., can. 367, § 1), gli Esarchi patriarcali e arcivescovili (secondo i cann. 385 e 391 del m. p. Cleri sanctitati) (Cf AAS 49 (1957), pp. 547), gli Amministratori Apostolici permanenti (Ibid., can. 355, § 1, 1).

III. Per dispensa si intende lo scioglimento della legge in un caso speciale. Ma la facoltà di dispensare si esercita nei confronti delle leggi precipienti o proibenti, non però circa le leggi costitutive.
Nella nozione di dispensa non è affatto inclusa la concessione di licenza, di facoltà, di indulto e di assoluzione.
Le leggi riguardanti i giudizi, essendo stabilite per la difesa dei diritti, e la dispensa da esse non riguardando direttamente il bene spirituale dei fedeli, non sono oggetto della facoltà di cui si parla nel Decreto Christus Dominus, n. 8 b (Cf AAS 58 (1966), pp. 677).

IV. Col nome di leggi generali della Chiesa si intendono le leggi meramente disciplinari, stabilite dalla Suprema Autorità ecclesiastica, alle quali sono tenuti ovunque tutti coloro per i quali sono state emanate; non però quelle leggi divine, sia naturali che positive, dalle quali solamente il Sommo Pontefice - quando usa della potestà vicaria - può dispensare; come accade nella dispensa dal matrimonio rato e non consumato, da ciò che riguarda il privilegio di fede, ecc.

V. Il caso particolare riguarda non solo i singoli fedeli, ma anche più persone fisiche, che costituiscono in senso stretto una certa comunità.

VI. I fedeli sui quali, a norma del diritto, si esercita l'autorità di dispensare, sono quelli sia del proprio che di un altro rito che, per ragione di domicilio o di altro titolo, sono soggetti al Vescovo (Lett. Ap. motu proprio Cleri sanctitati, can. 22: Cf AAS 49 (1957), pp. 441-442).

VII. Per concedere la dispensa si richiede un motivo giusto e ragionevole, fatta debita attenzione anche alla gravità della legge da cui si dispensa. Motivo legittimo della dispensa è il bene spirituale dei fedeli (CONC. VAT. II, Decr. sulla missione pastorale dei Vescovi nella Chiesa Christus Dominus, n. 8,b: cf AAS 58 (1966), p. 676).

VIII. Salve le facoltà speciali che legittimamente competono ai Patriarchi, agli Arcivescovi Maggiori, ai Legati del Romano Pontefice e ai Gerarchi, espressamente Ci riserviamo le seguenti dispense:

1. Dall'obbligo del celibato ossia dalla proibizione di contrarre matrimonio, cui sono vincolati i diaconi e i sacerdoti, anche se siano stati ridotti legalmente allo stato laicale oppure vi siano ritornati, in quei riti nei quali non vengono ammessi chierici coniugati (Lett. Ap. motu proprio Cleri sanctitati, can. 157, § 2: Cf AAS 49 (1957), pp. 477); negli altri riti invece solo se i medesimi hanno liberamente scelto il celibato.

2. In quei riti nei quali non vengono ammessi chierici coniugati, dalla proibizione di esercitare l'ordine del presbiterato fatto ai coniugati, che abbiano ricevuto il medesimo ordine senza la dispensa della Sede Apostolica (Ibid., can. 72, § 2: Cf AAS 49 (1957), pp. 457).

3. Dalla proibizione, che riguarda i chierici costituiti nell'Ordine maggiore, di esercitare direttamente o per mezzo di altri il commercio, sia per propria che per altrui utilità (Ibid., can. 83).

4. Dalle leggi generali che riguardano i monaci e gli altri religiosi come tali, non però in quanto sono soggetti ai Patriarchi ed ai Gerarchi del luogo a norma del diritto e in particolare del Decreto Conciliare Christus Dominus (nn. 33-35) (Cf AAS 58 (1966), pp. 690), ferma sempre restando la disciplina religiosa e salvo il diritto del proprio Superiore. Dalle altre leggi generali solo se si tratta di monaci di un Monastero esente, oppure di religiosi di una Religione clericale esente di esenzione pontificia.

5. Dall'obbligo di denunziare il sacerdote reo del delitto di sollecitazione in confessione, a norma della Costituzione Sacramentum Paenitentiae di Benedetto XIV (1° giugno 1741; cf Codex Iuris Canonici, Documenta, Docum. V, in AAS 9 (1917), pp. 505-508).

6. Dall'impedimento di età per contrarre un valido matrimonio, quando il difetto di età supera i due anni (Motu proprio Crebrae allatae, can. 32: Cf AAS 41 (1949), pp. 95).

7. Dall'impedimento al matrimonio, sorto dal diaconato o dal sacro Ordine del presbiterato, oppure dalla professione religiosa solenne o maggiore (Ibid., can. 62, § 1 e can. 63).

8. Dall'impedimento di crimine, di cui al can. 65, 2 e 3 (Ibid.).

9. Dall'impedimento di consanguineità in linea retta ed in linea obliqua fino al terzo grado (Ibid. can. 66).

10. Dall'impedimento sorto per affinità da digenia in linea retta (Ibid., can. 67 e 68).

11. Da tutti gli impedimenti matrimoniali, se si tratta di matrimoni misti, ogni qualvolta non si possono osservare le condizioni richieste dal diritto (Ibid., can. 51).

12. Dalla forma canonica prescritta per contrarre validamente il matrimonio.

13. Dalla legge di rinnovare il consenso matrimoniale per la sanazione in radice, ogni volta che:

a) si richieda la dispensa da un impedimento riservato alla Sede Apostolica;
b) sia in causa un impedimento di diritto naturale o divino, già però estinto;
c) si tratti di matrimoni misti, allorché non siano state adempite le condizioni prescritte dal diritto (Ibid., can. 51 ).


14. Dalla pena vendicativa sancita dal diritto comune, che sia stata dichiarata o inflitta direttamente dalla Sede Apostolica.

15. Dal tempo stabilito per il digiuno eucaristico. Le norme per le facoltà di dispensare, attribuite ai Vescovi ai Sensi del Decreto Conciliare Christus Dominus, entreranno in vigore il 6 agosto di quest'anno, festa della Trasfigurazione del Signore Nostro Gesù Cristo.

Quanto viene da Noi sancito con questa Lettera data in forma di Motu proprio vogliamo che sia stabile ed efficace, nonostante qualsiasi altra disposizione contraria.

Dato a Roma, presso San Pietro, il giorno 2 maggio, festa di sant'Atananasio Vescovo e Dottore, nell'anno 1967, quarto del Nostro Pontificato.

PAOLO PP. VI

 



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