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DISCORSO DI PAOLO VI
A GRUPPI DI LAVORATORI

Sabato, 19 ottobre 1963

 

Il Santo Padre accoglie con riconoscenza la parole sapienti e gentili che sono state adesso pronunziate e se ne compiace con chi le ha espresse con tanta convinzione e con tanta nobiltà.

È per il Papa motivo di letizia vedere dinanzi a Sé delle categorie che potrebbe chiamare di benemeriti del lavoro. La prima di queste categorie è formata dai cavalieri del lavoro la cui Associazione è appunto presieduta dal Dott. Pozzani. E sono coloro che hanno il merito di avere promosso, organizzato, rinnovato, ingrandito, reso forte, produttivo e moderno, il fenomeno del lavoro. Poi vi sono i Maestri del lavoro, anche essi degni di ogni considerazione, perché conoscono egregiamente il loro mestiere, e lo insegnano agli altri; mettono cioè nel lavoro un senso di perfezione, di puntualità, di impegno che lo rende veramente produttivo, utile e atto a raggiungere i suoi fini, merito anche questo che bisogna riconoscere, lodare ed incoraggiare.

Poi, c’è un’altra categoria di persone; gli anziani del lavoro che hanno il merito della perseveranza, della fedeltà, della pazienza, della costanza, della adesione al dovere quotidiano protratto per anni e sempre con buono e lodevole spirito e con arte degna di approvazione e di rimunerazione.

Ed è presente anche un’altra categoria, distinta dalle altre che sono strettamente unite, ed è quella dei consulenti del lavoro, anche essi benemeriti per l’atto riflesso che pongono sopra l’attività altrui, affinché il lavoro si compia come si deve.

Perciò, come già diceva, se si volesse fare una sintesi il Santo Padre potrebbe definire i presenti a una udienza così bella come i «benemeriti» del lavoro, coloro che veramente sono degni di essere ringraziati ed elogiati, di essere considerati benefattori della società proprio perché al lavoro hanno dedicato tanto ingegno, tanti mezzi, tanti anni, tante fatiche e con il massimo impegno, con grande onestà di intenti ed anche con grande efficacia di risultati.

Ed allora il Papa si sente in dovere di ringraziare di una visita così gradita, del voler presentare al Padre Comune delle anime le loro persone e nello stesso tempo anche le loro attività, persone e attività che meritano encomio, incoraggiamento e benedizione cordiale. E volendo aggiungere a tali riconoscimenti una sola parola di esortazione, il Papa la trova in un sentimento che deve già essere nel cuore di tutti: l’amore al lavoro.

AMARE IL LAVORO

Bisogna amare il lavoro. I diletti figli confermano e documentano questo amore con i loro meriti, e lo pongono in rilievo in maniera molteplice e varia, rispettivamente adatta a ciascuna delle loro categorie.

Il Papa rinnovando il Suo incoraggiamento e la Sua benedizione a questo amore al lavoro, invita i presenti a fare oggetto di meditazione sia pure per breve tempo tale sentimento.

Si può ben dire che l’Italia ama il lavoro, non solo perché è stampato nel primo articolo della sua Costituzione, ma perché lo troviamo impresso nel cuore di tutti i cittadini.

Non ci sono, per fortuna, in Italia classi sociali inerti, non c’è nessuno che voglia sottrarsi a questa legge fondamentale; si vedono anzi tante categorie che erano non impegnate in maniera ben definita e specifica e che desiderano anch’esse entrare nel grande cimento del lavoro; anche le donne, che una volta erano piuttosto appartate nella casa, e si dedicavano ad una attività che non era socialmente considerata.

Dell’unanime desiderio di lavorare il Santo Padre deve compiacersi come di una bellissima manifestazione della psicologia e della moralità del popolo italiano, che il Papa prega Iddio di conservare sempre laborioso e anelante all’impegno, all’occupazione, a non perdere tempo, a rendere saggi e proficui i propri studi in ordine ad una esplicazione di attività bene ordinata, utile, saggia e benefica.

GLI SCOPI DELL’OPEROSITÀ UMANA

A questo punto però bisogna fare un’altra riflessione; chiedersi se sotto questa manifestazione generale che si può davvero dire amorosa per la fatica umana non ci siano lacune o difetti, od anche, alcune volte, traviamenti.

Quando? Quando noi cerchiamo quali sono i motivi, le ragioni, le spinte dinamiche per cui, comunemente parlando, la gente cerca di lavorare. È comune a tutti, legittimo e, si può ben dire, sacro il desiderio di lavorare per guadagnare, per avere il pane sulla propria mensa. È un fine economico immediato, degno di ogni considerazione, anzi di ogni cura perché questo primo scopo della fatica umana, il vivere della propria opera e del proprio lavoro, possa essere accessibile a tutti, abbia delle strade ben preparate, con le scuole professionali e di avviamento al lavoro, con gli apprendistati, e poi con tutto il necessario per proteggere il disoccupato quando ancora ci fosse.

È da augurarsi che anche il profitto immediato del lavoro, la mercede, possa essere tale - come hanno detto ed esortato tante volte anche i Documenti pontifici - da assicurare un pane conveniente; un sostentamento lieto e gradevole, che sia bastevole a mantenere decorosamente una famiglia e non solo l’individuo, ad assicurare al lavoratore, non un equilibrio economico instabile, ma quella certa agiatezza che possa dare distensione e tranquillità per il domani.

L’utile economico è, come tutti ben sanno, la grande molla che muove e sospinge l’uomo al lavoro. Ci sono però, per fortuna, delle altre componenti umane, degnissime, che nobilitano questa aspirazione e la indirizzano a finalità più alte: l’amore della famiglia, il desiderio di dare migliore espressione alla propria attività. Come ha detto or ora il comm. Pezzani con parole molto nobili e molto precise, l’uomo ha bisogno del lavoro per esplicare se stesso; il lavoro è una pedagogia personale e aiuta a risvegliare e ad impiegare tutte le facoltà, anche quelle implicite, o dormienti e ancora atrofizzate, che abbiamo nella nostra ricchissima natura; il lavoro le risveglia e le fa capaci di manifestazioni della prodigiosa adattabilità ed educabilità dell’uomo.

Ma poi, ecco la ricerca dei fini che si può approfondire. Perché se vediamo che ci sono dei fenomeni non felici nel campo del lavoro, questo si deve spesso ad una deficienza di fini.

PER UNA GERARCHIA DEI FINI

Infatti anche in questo grande e collettivo fenomeno della operosità umana vi è chi tende a lavorare così da non averne più bisogno. È quel lavoro che suscita il desiderio del piacere, della pigrizia, dello sforzo per addossare sulle spalle altrui la fatica umana e potere invece essere personalmente esonerato da questo comune dovere. Perché purtroppo l’egoismo è anche un fenomeno che accompagna tutta la grande manifestazione dell’attività umana. Così la ricerca della sola utilità economica può essere causa di quella inquietudine che noi notiamo nei campi del lavoro, di quella asprezza che ancora serpeggia nella popolazione, specialmente nelle classi lavoratrici.

Non si riesce a stabilire dei rapporti di collaborazione, più serena, più facile, come quelli che i presenti invece cercano di stabilire, forse proprio perché i fini per cui tanta gente lavora, sono dei fini puramente economici, immediati, egoistici, che non hanno una visione sociale e soprattutto una visione umana completa.

Nessuno negherà che il lavoro sia una fatica e che quindi sia un peso, talvolta anche gravoso, sulle spalle di chi lo deve portare, compiere con intensità. Accade allora di sentir dire: c’è un compenso adeguato a tutto questo? basta la remunerazione economica per compensare in me il dispendio di forze umane che il lavoro mi ha domandato?

Anche per quelli che cercano nel lavoro, nella passione della propria arte, di migliorare uno strumento, di raggiungere un risultato nuovo, di abbellire un prodotto, di allargare la cerchia della sua diffusione, questi motivi possono accrescere la passione del lavoro; ma sono sufficienti per appagare questo benedetto cuore umano che non è mai sazio delle sue conquiste e che quando più arriva a conquistare, tanto più - esperienza modernissima - si sente vuoto, stanco, desolato, inutile?

Vi è uno scetticismo, un pessimismo che pesa sulla psicologia della società moderna, e che fa paura. La nostra società, nell’immensa dovizia di mezzi che si è procurata, manca spesso della scienza dei fini più alti e più umani che devono guidare l’operosità dell’uomo.

Il Santo Padre ha letto il manifesto che presiede al loro convegno e vi ha trovato delle parole sagge che sono state proferite da magistrali rappresentanti della guida umana. Tra questi alcuni Pontefici, immediati Predecessori del Santo Padre, hanno dato degli insegnamenti - che non devono essere dimenticati - sopra il senso, il valore, il modo di esplicare la fatica umana.

Il Santo Padre ricorda queste cose a quei carissimi figli proprio perché siano contenti e per dire loro che se cercheranno, seguiranno e tradurranno in pratica la concezione cristiana del lavoro, il conforto, il sostegno alla loro fatica, non verrà mai meno.

NEL CONCETTO CRISTIANO DELLA VITA

Sì, il segreto che può rendere il lavoro forte, perseverante, fonte di conforto, onesto, desideroso sempre di perfezione, si può trovare, e non nascosto ma offerto a tutti, proprio in quella concezione della vita che chiamiamo cristiana.

Sì, la fatica ha la sua ragion d’essere, sia per il valore di riparazione che assume, sia per l’aspetto fecondo di conquista delle cose buone e benefiche.

Nella vita cristiana troviamo esempi come quello di S. Benedetto, che risalgono ad un magistero ancora più autorevole, a quello del Redentore stesso che si è voluto fare lavoratore sia manuale che della parola salvatrice.

Troveremo nel Vangelo tutti i compensi che le retribuzioni umane non possono dare. Il Signore premierà l’operaio forte e fedele; la vita umana è una giornata di lavoro, lo sappiamo bene dalle parabole evangeliche e alla fine vi è una mercede, cioè una vita superiore, una vita compensativa, una pienezza che in tutta la nostra attività non potremmo raggiungere.

Abbiamo infatti una speranza, più ancora una certezza: se avremo lavorato bene, con onestà e con fatica, nessuna azione sarà dimenticata; nulla andrà perduto; il calcolo che si fa per il profitto materiale e che raggiunge alcune volte delle perfezioni infinitesimali, la Provvidenza, che sorveglia e vigila sulla nostra vita, sa compierlo con altrettanta perfezione per il premio spirituale. Il Signore ha promesso che neppure un bicchiere d’acqua resterà senza ricompensa; ciò vuol dire anche un gesto gentile, anche un atto che sembra insignificante e di nessun valore, se è compiuto con animo buono non resterà senza acquistarci un credito per il regno dei cieli.

Il Santo Padre è sicuro che i diletti figli danno alle loro fatiche un fine superiore e che faranno propaganda per diffondere nella società idee così buone e così alte.

È stato parlato di responsabilità. Questa parola significa un lavoro svolto con libertà; ma chi ha associato, per primo, al lavoro la libertà? Oggi sembra una cosa evidente; ma se guardiamo al mondo pagano e dove Cristo non è arrivato, troveremo che questo binomio - lavoro e libertà - non è raggiungibile. Il lavoro era compiuto dagli schiavi; persino l’insegnamento che è il lavoro più nobile, più spirituale era una operazione riservata allo schiavo. E ci sono tante illustri figure del paganesimo, Cicerone per esempio, che documentano con delle espressioni assai significative e sconcertanti questa dissociazione della libertà dal lavoro.

È il Cristianesimo che ha conferito al lavoro questa dignità e questa superiorità; perciò il Santo Padre esorta ad essere cristiani; vedranno che il loro lavoro diventerà buono, fervoroso, consolato, sarà sostenuto nelle sue pene e nelle sue stanchezze, sarà illuminato nelle sue ricerche e soprattutto - il Papa può prometterlo e garantirlo - sarà degnamente rimunerato dal Signore.

                                       



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