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PAROLE DI PAOLO VI
PER LA RICORRENZA DEI DEFUNTI


Martedì, 2 novembre 1965

     

Siamo qui riuniti con il proposito di onorare religiosamente i nostri defunti: coloro cioè che ci hanno preceduti «cum signo fidei et dormiunt in somno pacis». Ognuno - come è ovvio - ricorda anzitutto i propri cari, specie coloro la cui dipartita è meno lontana, sì che la cicatrice del dolore non è ancora rimarginata. Poi il pensiero torna alle persone conosciute, a coloro che hanno avuto con noi vincoli di parentela, o rapporti di professione ed amicizia, che con noi hanno condiviso le vicende del pellegrinaggio terreno, partecipando alla nostra vita sociale.

L’animo, il ricordo si volge quindi a tutti gli scomparsi appartenenti alle singole parrocchie, ai paesi, ai centri urbani: specialmente alla città e diocesi di Roma, alla nostra terra, al popolo tra cui viviamo.

L’orizzonte si allarga ancora, e sentiamo doverosa la preghiera per gli. altri defunti, a cominciare dalle vittime delle guerre del nostro tempo, sino ai molti caduti anche in questi giorni perché gli uomini non sono capaci di essere fratelli. Si arriva, infine, con tale sentimento di umana pietà, all’aiuto cristiano a quanti sono avvolti dall’oblio, a pro dei quali nessuno prega, e che proprio da noi aspettano l’aiuto per passare dalle sofferenze della espiazione alla luce del Signore..

Un sacro dovere, dunque, di religiosa, universale solidarietà.

Si tratta, è vero, d’un obbligo triste e penoso: ed esso rimarrebbe nei termini d’un dolore sconsolato, se noi ci limitassimo solo all’aspetto umano di quanto sentiamo di fronte alla morte. Sappiamo tutti che tale condoglianza non è sufficiente e che il considerare solo in termini terreni ciò che avviene con la morte e dopo la morte, ci atterrisce. Le cognizioni umane, in proposito, non ci dicono nulla: e generano soltanto smarrimento, fantasie, sconforto. Perciò non bastano questi limitati sentimenti a commemorare degnamente e piamente i nostri defunti. Occorre ben altro: ed ecco la lampada della nostra santa Religione venirci incontro per illuminarci, guidarci ed indicare, in ogni momento, quel che si deve pensare e compiere dinanzi al trapasso dalla esistenza nel tempo all’eternità.

Non è che questa lampada dissipi, nel campo in esame, tutte le tenebre, San Paolo ci ricorda che noi, adesso vediamo come per riflesso, in aenigmate. Nondimeno quel che la Religione ci fa intravedere della vita d’oltre tomba è tale da darci grandi certezze, alimentate e sorrette dalle tre virtù teologali. La fede, la speranza, la carità vengono ad impartirci insegnamenti di luce sì da rendere possibile, anzi doverosa, una comunione con i nostri defunti.

Ben oltre i semplici eppur apprezzabili dati della ragione, che arriva a dimostrare l’immortalità dell’anima senza però nulla dirci della vita futura, la fede ci dà il quadro completo della vita, anzitutto di quella presente, per quindi elevare il nostro spirito ed immergerlo nella somma verità: noi siamo immortali. Noi non moriremo più: siamo nati ieri e abbiamo davanti a noi l’eternità da vivere. La morte che può essere vicina e che, comunque, per la durata del tempo, non è lontana, tocca solo in una maniera episodica la nostra esistenza.

Siamo usciti dalle mani di Dio, che ci ha creati, per vivere sempre. Questa coscienza, di cui ora disponiamo, non si spegnerà mai. Ognuno può dire: il mio essere non sarà più assorbito da un sonno di morte, cioè di annullamento e di distruzione.

Vivrò! Questa nozione, che ci fa contemplare il vero programma e panorama della nostra esistenza, è, da un lato, consolantissima; dall’altro ci prospetta gravi pensieri di arduo dominio. Se siamo fatti per la eternità, che rapporto c’è fra la vita presente e quella futura? Mirabile è la risposta. Noi sappiamo che la morte va considerata come una lanterna posta ad illuminare il mutamento della nostra vita temporale, facendoci ben vedere un rapporto di responsabilità nei confronti del nostro destino eterno. Siamo noi a formare la nostra fisionomia per l’avvenire. Quel che facciamo ora ha una ripercussione nell’eternità. Di qui il peso e il valore della nostra vita presente. «Opera enim illorum sequuntur illos»: è stato letto poco fa nel brano dell’Apocalisse. Le nostre azioni ci seguono: diventano perciò di una importanza enorme. Bisogna pensarle e considerarle appieno; occorre essere perfetti, essere santi. Ogni azione, infatti, ha la sua portata al di là del tempo; incide non nel vuoto, ma nel nostro essere. Saremo, di fronte a Dio, quali ci stiamo plasmando con la nostra volontà, con le nostre virtù.

Consegue doverosa una domanda: come si perverrà a un grado di perfezione, alla piena corrispondenza al supremo destino stabilito da Dio? Rimanendo uniti, sempre, alle fonti della vita: a Cristo Signore benedetto, il Quale ha proclamato: «Ego sum resurrectio et vita»: Io sono la risurrezione e la vita. Così è: questa la norma indefettibile, Quale gioia il ricordare che, nell’imminenza della nostra nascita alla vita soprannaturale, quando abbiamo ricevuto il santo Battesimo, alla richiesta: che cosa cerchi dalla Chiesa? qualcuno ha dato, per noi, la risposta splendente: cerco la fede! E che cosa ti dà la fede? La vita eterna!

La fede ci inserisce nell’albero dell’eterna vita: Cristo. L’essere uniti con Cristo è necessità essenziale per noi. Se siamo innestati in Lui e cristiani vivi, il nostro destino è bene assicurato e i nostri giorni possono anche consumarsi rapidamente: non importa. Sappiamo d’essere incamminati non verso l’oscurità, l’annullamento, il castigo del nostro essere, ma verso l’oceano della vita: Cristo, la nostra redenzione e salvezza, il nostro premio. Giunge ora la speranza a fornirci anch’essa i suoi beni. Il primo è il conforto: è il togliere le inquietudini che non hanno sollievo; è il sentire vicino a noi la voce grave e autorevole del Maestro ripeterci: «Noli fiere»: non piangere! Un pianto disperato non è cristiano, lacrime che scorrono senza consolazione non sono lacrime benedette. E Gesù spiega: Sì, tu puoi sentire il dolore, la morte, la separazione dai tuoi, l’intera amarezza retaggio della prima colpa; puoi sì piangere, ma non con la disperazione nel cuore e con gli occhi annebbiati e incapaci di scorgere la luce che ti aspetta.

Non vogliate piangere - scrive San Paolo ai Tessalonicesi - come coloro «qui spem non habent», giacché appunto il Cristianesimo, la nostra fede, la nostra unione con Cristo ci danno l’incrollabile sicurezza. «Spe salvi facti sumus»: già con la speranza siamo salvi. Potenzialmente, anzi, sin d’ora siamo al di là dell’abisso tenebroso, al di là della morte: e possiamo procedere con quella serenità, che rende accetta ed agevole la stessa vita presente.

Abbiamo un pegno nella bontà di Dio, nella sua fedeltà, larghezza e misericordia. Egli ci aspetta, ci chiama; perciò sostiene il nostro pellegrinaggio terreno con la sicurezza dell’incontro finale con Lui.

Ed ecco la carità. Fiorisce cioè questa eccelsa virtù che, come dice San Paolo, giammai verrà meno, e non si spegnerà. La fede, la speranza si risolveranno nella visione di Dio e nel suo godimento nella vita futura. La carità no: quel che oggi noi compiamo nella ricerca di Dio, nel volergli bene, nel seguirne i precetti e nell’essere uniti a Cristo: questo slancio, che si chiama amore soprannaturale, carità, durerà sempre. Sarà il nostro sentimento indistruttibile. Adesso palpita nel desiderio, domani rifulgerà nella pienezza del possesso: ma rimarrà sempre identico per origine e natura. Sarà sempre l’anelito di congiungerci al Signore: ad esso è assicurato un totale compimento.

Ora, sappiamo che questo vincolo esistente fra Dio e noi arriva a porsi in comunicazione anche con le anime dei nostri defunti. Il messaggio di amore che noi loro mandiamo perviene ad esse attraverso il misterioso canale costituito dalla Comunione dei Santi, il regno della carità. Riusciamo, quindi, a metterci in reale comunicazione con i trapassati e a ricevere da loro qualche messaggio, non fosse altro che il ricordo dei loro atti ed esempi edificanti; e sentirci, così, già in società restituita, anzi piena, con tutti i nostri defunti.

Quale la conclusione di quanto si è qui rammentato? Dobbiamo attuare in esercizio volenteroso i grandi suggerimenti di fede, di speranza e di carità: e guardare sì la vita con il richiamo luminoso che ci viene dai nostri defunti, ma soprattutto possedere .questo supremo, vittorioso slancio di amore, che il Signore dà e fa circolare tanto in questa vita quanto in quella della beatitudine.

A che cosa ci obbligano, allora, i rapporti, indicatici dal Signore, con coloro che ci hanno preceduti? Essi ci richiamano proprio a quel dovere che noi stiamo adesso piamente compiendo: suffragare i nostri Morti. La comunicabilità dei meriti è uno dei frutti della sopravvivente carità. Noi possiamo aiutare i cari defunti; possiamo beneficarli. Che cosa non faremmo, se ci fossero vicini? Ebbene: li abbiamo, in certo modo, accanto, e proprio nel circuito della carità. Cerchiamo, perciò, di essere solleciti e generosi con il suffragio. Tutti sanno come esso si esprima: con le opere buone, i sacrifizi, specialmente con le elemosine e con la preghiera.

È quanto facciamo in questo momento, cercando di dilatare il nostro cuore per includervi, insieme con i nostri cari, tutti gli altri a cui la carità ci indirizza: cioè il mondo intero e tutti i defunti che fanno parte della Chiesa in stato di purificazione. Cerchiamo di consolare questa immensa schiera di anime non solo con la nostra memoria, ma proprio con la carità della nostra preghiera, del nostro suffragio.

E quel Dio, che è così buono d’averci dato la vita, quel Dio che veglia sopra di noi e ci ha fatti cristiani, riversando sulle nostre anime tante grazie, mentre sta a vedere se di esse ci accorgiamo, se rispondiamo con amore all’amore, accoglierà certamente il nostro impegno di carità per i diletti Defunti. Ascolterà le nostre preci, affretterà per loro il giorno solare della vita eterna; e darà a noi più salda certezza; anche un anticipo del nostro destino supremo. Saremo salvi per la bontà del Signore. E così sia!              

 



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