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 DISCORSO DI PAOLO VI
AI PARROCI E AI PREDICATORI QUARESIMALISTI DI ROMA

Lunedì 21 febbraio 1966

 

Signor Cardinale, zelante e diletto Nostro Cardinale Vicario!

Venerati Confratelli, a Noi ed a lui Ausiliari nel ministero pastorale di questa alma diocesi di Roma!

e voi, cari Parroci, cari Sacerdoti tutti, diocesani e religiosi, e voi, Predicatori della quaresima, siate benvenuti a questo nostro incontro annuale, siate per ciò tutti ringraziati e benedetti!

Avremo molte, moltissime cose da dirci, se volessimo qui riassumere i temi riguardanti la nostra vita sacerdotale e risultanti dal momento particolare, che la Chiesa sta attraversando, e che quella di Roma specialmente sta sperimentando: il post-Concilio, con tutti i suoi incitamenti e problemi, il Giubileo, che c’impegna a qualche particolare fatica e ci apre il cuore a qualche lieta speranza, il nuovo ordinamento della direzione pastorale dato in questi giorni alla nostra Città, il recente richiamo allo spirito della penitenza cristiana e alle norme della sua osservanza, eccetera. Ma possiamo dispensarci dal passare in rassegna questi vari temi, perché supponiamo, a buon diritto, che voi ne siate non solo informati, ma compresi e imbevuti mediante la coscienziosa riflessione ch’essi reclamano da buoni Sacerdoti, quali voi siete; e poi perché tutto è stato già detto, e ben detto, dalla Notificazione del Nostro Cardinale Vicario sulla quaresima nel Giubileo post-conciliare, pochi giorni fa: gliene siamo anche Noi obbligati. Non possiamo tuttavia esimerci dal salutare davanti a voi tutti i due nuovi Nostri Vescovi Ausiliari, scelti dalle file del Clero romano, Monsignor Zanera e Monsignor Trabalzini, che Noi stessi avremo la gioia di consacrare nella Basilica di S. Pietro, nella prossima festa di San Giuseppe, e che, sotto la guida del Cardinale Vicario e di Monsignor Vice Gerente, con gli altri due Vescovi Ausiliari, e con il Vescovo incaricato dell’assistenza agli Istituti sanitari, non che con quello che assiste le Confraternite, attenderanno all’assistenza pastorale della Città e della Diocesi, e daranno specialmente ai Parroci e ai Vice Parroci il conforto d’una più frequente e immediata conversazione circa i bisogni spirituali della popolazione, mentre nella divisione delle zone di competenza, lungi dal separare una parte della comunità diocesana dall’altra, ne cresceranno il senso di più efficace ed articolata compagine.

Lasciando dunque questi temi ad altri momenti, profittiamo della presente occasione per rivolgere a noi stessi il pensiero: siamo, per dovere di ministero, abitualmente estroflessi, e non abbiamo spesso il tempo, né la voglia di meditare sui nostri problemi personali. Eppure questa è forse l’ora per compiere un atto riflesso: e dopo d’aver considerato le molte e assillanti questioni, che dal di fuori ci circondano e ci impegnano, dobbiamo un istante dedicarlo alla nostra coscienza: «intra in cubiculum tuum . . .» (Matt. 6, 6), domandando a noi stessi: e noi Sacerdoti? come ci troviamo? che cosa ora il Concilio ci dice e ci impone? e il Giubileo: come lo faremo per la pace e per il fervore della nostra anima?

Questa riflessione darebbe origine a lunghi e vari discorsi; vorremmo che ciascuno ne facesse motivo per fare quest’anno un bel corso di esercizi spirituali, tali da risvegliare nel nostro spirito la voce prima, quella che ci chiamò al sacerdozio, e da ridare a questa nostra elezione il suo pieno significato, la sua autentica spiritualità, la sua grave coscienza di immensi doveri e la sua inesauribile sorgente interiore di grazia, di gaudio e di pace. Non sarebbe questo un proposito degno dell’ora che volge?

Lasciamo a ciascuno di voi la risposta. Noi ci limitiamo a cogliere un sentimento dell’anima sacerdotale, che varie notizie Ci dicono oggi diffuso, dove più, dove meno, un po’ dappertutto nel Clero: un sentimento di incertezza. Non sappiamo se anche fra voi questo sentimento abbia preso radice; ma dalle informazioni e dalle testimonianze, che Noi abbiamo circa il vostro stato d’animo e circa il vostro ministero, dovremmo fortunatamente dire di no; abbiamo prova della vostra serenità, del vostro fervore, del vostro zelo, del vostro equilibrio; e ne siamo felici; ne ringraziamo il Signore; ed esortiamo voi a perseverare in codesta alacre e sicura condizione di spirito. È uno dei doni incomparabili e caratteristici della nostra vocazione, quello della sicurezza interiore, quello della coscienza della grazia inestimabile d’avere scelto bene, quello di sapersi, pur fra tanti difetti interni ed esterni, sulla strada buona. E nulla sembra meno conforme alla psicologia d’un sacerdote fedele, che l’oppressione del dubbio sulla bontà della propria vocazione e del proprio ministero.

Ma siccome non poco se ne parla, lasciate che Noi cerchiamo di premunire gli animi vostri dalla possibile corrosione di pensieri infelici, qua e là oggi correnti, sopra la natura e la funzione del sacerdozio e sopra le conseguenti novità, a cui il suo concetto teologico e sociologico e la sua pratica espressione dovrebbero essere sottoposti.

Innanzi tutto: che tutti oggi siano più che mai persuasi dell’importanza fondamentale del ministero sacro per compiere il disegno di salvezza ideato e instaurato da Cristo, è già grande cosa: la Chiesa ne ha crescente e luminosa coscienza, i fedeli lo avvertono sempre di più, anche tanti Fratelli separati lo ammettono, rivedendo certe posizioni negative, il mondo profano ne intuisce la logicità ed il bisogno. Il Concilio solennemente ce lo ricorda affermando che «l’auspicato rinnovamento di tutta la Chiesa in grande parte dipende dal ministero sacerdotale, animato dallo Spirito di Cristo» (Decreto sulla formazione sacerdotale, proemio). Nessun dubbio su questo.

Come nessun dubbio dobbiamo ammettere sull’intrinseca esigenza di perfezione morale e spirituale, postulata dal sacerdozio. Sorvoliamo ora tutto l’intreccio di questioni che riguardano questo punto; ci basti la elementare conclusione che reclama nel Sacerdote una fedeltà al Vangelo, un’animazione della grazia, uno sforzo morale che traduciamo nella semplice, ma densa parola «santità». Se ogni fedele è chiamato a realizzare in sé tale pienezza di vita cristiana, quanto più il Sacerdote, che deve precedere e istruire con l’esempio, ancor più che con la parola, il Popolo di Dio!

Ma le incertezze, si dirà, vengono successivamente.

Diciamo a dialogo: sulla verità religiosa. Risposta: fidatevi del magistero ecclesiastico, apposta istituito e assistito da Nostro Signore per confermare i fratelli (cfr. Luc. 22, 32), e non lasciatevi malamente invadere-dalla mentalità relativista, che distrugge il concetto di verità oggettiva; forse è proprio l’indulgenza a questo modo comodo di pensare quella che rende oscuro l’orizzonte religioso e fa triste lo spirito di colui che ne deve essere il profeta.

Poi. Sulla essenza e sulla missione del sacerdozio. Risposta: il Sacerdote è prima di tutto ordinato alla celebrazione del Sacrificio eucaristico, nel quale egli, in persona Christi et nomine Ecclesiae, offre a Dio sacramentalmente la Passione e la Morte del Nostro Redentore, e nello stesso tempo ne fa alimento di vita soprannaturale per sé e per i fedeli, a cui deve fare ogni sforzo per distribuirlo largamente e degnamente; il ministero della parola e quello della carità pastorale devono convergere verso quello della preghiera e dell’azione sacramentale e ne devono trarre ispirazione e sostegno.

Ancora: le riforme. Risposta: sì, cominciando da quella interiore: «renovamini spiritu mentis vestrae et induite novum hominem». A nulla servirebbero le riforme esteriori, senza questo continuo rinnovamento interiore, questo studio di modellare la nostra mentalità su quella di Cristo in conformità all’interpretazione che la Chiesa ci offre.

Il «sensus Ecclesiae» e l’amore alla Chiesa, sono le sorgenti della sua perenne giovinezza. Ci sembra alle volte che alcuni parlino di riforme, senza questa cordiale e costruttiva adesione alla Chiesa, alle sue leggi, alle sue tradizioni, alle sue aspirazioni. Diremo con Sant’Agostino: «Habemus . . . Spiritum Sanctum, si amamus Ecclesiam; amamus autem, si in eius compage et charitate consistimus» (In Io. Tract. 32, 8; P.L. 35, 1646). Credere che si possa avvicinare il mondo ed avere influsso cristiano sopra di esso, assumendo, noi Sacerdoti, i suoi modi di pensare e di vivere, sarebbe illusione, sarebbe privare della sua virtù reattiva la nostra presenza fra gli uomini.

E sull’obbedienza? Anche su questo capo quanta inquietudine, quanta critica, quanta insofferenza. Eppure la risposta è sempre la stessa: l’autorità nella Chiesa è voluta da Cristo. Chi pensa doversi instaurare una revisione totale della disciplina ecclesiastica, sostenendo che la legislazione canonica è sorpassata ed anacronistica, non è sulla buona strada; egli affligge la Chiesa, disintegrandone il tessuto spirituale e sociale, e affligge se stesso privandosi del merito della docilità spontanea, filiale e virile e del conforto dell’umiltà, del buon esempio e della fiducia.

Indubbiamente l’autorità nella Chiesa ha essa pure nuovi e grandi doveri e dovrà orientarsi nell’esercizio dei suoi compiti verso le forme che il Concilio ha delineato, e che lo spirito pastorale ond’è informata le suggerirà. Ma l’oboedientia et pax, tanto caro a Papa Giovanni, sarà rimedio a questo genere di inquietudine che talvolta si fa sentire nelle file del Clero.

Quante altre battute potrebbe avere questo dialogo!

Ma vi basti per ora l’aver letto nel Nostro cuore la comprensione che Noi abbiamo dei vostri animi e specialmente di quel disagio, che le vicende presenti della Chiesa e del mondo possono in essi suscitare.

Abbiate fiducia, fratelli e figli carissimi.

Noi vi diremo con uno studioso, bravo e pio, contemporaneo: «La nostra gioia d’essere preti non riposa sopra una migliore definizione del Sacerdozio, e neppure sopra un’esperienza della sua efficacia; ma sopra la confidenza totale che noi mettiamo nel Signore, che ci ha chiamati nella nostra debolezza a partecipare al suo mistero. Noi affermiamo con San Paolo:

“Scio cui credidi et certus sum quia potens est depositum meum servare" fino al giorno del suo ritorno» (2 Tim. 1, 12 - L. Lochet).

Abbiate fiducia. A ciò vi conforti la Nostra Apostolica Benedizione.

                                                                                     



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