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DISCORSO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XV
AL TERMINE DELLA LETTURA DEL DECRETO
DELLA SACRA CONGREGAZIONE DEI RITI
SULLE « VIRTÙ ESERCITATE IN GRADO EROICO »
DAL SERVO DI DIO GIUSEPPE CAFASSO

Aula concistoriale del Palazzo Apostolico,
Domenica, 27 febbraio 1921

 

Risonava ancora in quest’aula l’eco delle parole che Noi ponemmo sul labbro del Venerabile Dalmonte, nel giorno in cui Noi stessi ne proclamammo eroiche le virtù. E la continuazione di quell’eco diceva che le parole di un antico re di Sodoma ad Abramo: «Dammi le anime; tutto il resto tienilo per te » (Genesi, XIV, 21) avevano additato la più ardente brama del cuore di un missionario sollecito di irradiare nel popolo la luce della sua fede nell’ordine soprannaturale, e avido solo di fatiche, di disagi, di patimenti, allo scopo di guadagnare anime a Cristo. Ma ecco che le medesime parole «Dammi le anime, tutto il resto tienilo », sono state oggi appropriate anche al Venerabile Giuseppe Cafasso da chi santamente esulta per la proclamata eroicità delle virtù di quest’altro Servo di Dio. Non è difficile ravvisare le analogie, che corrono tra il figlio della dotta Bologna, fondatore di una benemerita opera di missioni, e il figlio della forte Torino, che fu il secondo direttore del Convitto ecclesiastico di quella città. Si tratta di due sacerdoti, membri entrambi del clero secolare; si tratta di due figli di una stessa nazione; si tratta di due apostoli che il loro apostolato esercitarono colla predicazione e coll’amministrazioe del sacramento della penitenza: che più? si tratta di due Servi di Dio, sui quali da principio parve stendersi l’ala dell’oblio, ma che entrambi furono poscia restituiti alla vera luce dallo zelo di un solo medesimo Postulatore. Ma, più che al semplice concorso di non ispregevoli analogie fra il Missionario bolognese e il pio sacerdote di Torino, Noi crediamo che la quasi contemporaneità dei decreti relativi alle virtù eroiche dei due Servi di Dio sia dovuta a ragione di ordine superiore.

Una madre che voglia persuadere ai figli la bellezza di una verità o l’amore di un pratico bene, moltiplica argomenti e prove per raggiungere il suo fine. Non altrimenti la Chiesa, dopo l’esempio delle virtù del Ven. Dalmonte, propone oggi quello del Venerabile Cafasso, nella fiducia che gli animi, già scossi alla vista dell’eroismo del primo, si arrendano all’invito di imitare le virtù del secondo, mercé la luce del decreto che le proclama eroiche. Crediamo infatti che una forza di speciale persuasione si debba ravvisare nel carattere proprio della carità del Venerabile Cafasso.

Imperocché la cristiana carità riempie il mondo di meraviglie, così quando innalza a Dio le sue fiamme, come quando feconda del suo calore l’affetto verso il prossimo. Ma chi potrà dire l’eccellenza dei trionfi della carità, quando questa risieda in soggetto che, per l’amore a Dio sia emulo dei serafini, e per quello del prossimo imiti dappresso lo zelo ardente degli apostoli? Non a torto direste, o dilettissimi figli, che la carità apparisce allora adorna dei caratteri di universalità e di ordine. Ma, più eloquente di qualunque sentenza astratta, è l’esempio concreto che porge il Ven. Cafasso. La carità di lui apparve commendevole per l’ampiezza dell’oggetto, perché niun bene amabile escluse, e non meritò minor plauso perché i beni amabili considerò e mostrò di apprezzare in quell’ordine in cui veramente sono degni di amore. Oh! questi caratteri di universalità e di ordine sono così manifesti nella carità del Ven. Cafasso, che Noi crediamo doverne congiungere il ricordo al decreto che proclama eroiche le virtù di questo Servo di Dio. Se ne scaturirà una qualche lezione per i figli Nostri, Noi ne ringrazieremo il Signore, e diremo confermata l’opportunità di appropriare al Venerabile Cafasso, non meno che al Ven. Dalmonte, le antiche parole: «Dammi le anime; tutto il resto tienilo per te ».

A chi ricorda l’insegnamento di San Tommaso, che l’oggetto proprio della carità non si pone altrove che nel Bene sommo, cioè in Dio (Sum. th. 2a 2.ae), può recare meraviglia che Noi diciamo « la carità del Cafasso essere stata commendevole anzitutto per l’ampiezza dell’oggetto ». Ma lo stesso Dottore angelico ci ammaestra che, se Iddio dev’essere amato come bene proprio ed essenziale, in linea secondaria devono essere amate anche le creature, nelle quali si contiene una qualche partecipazione del bene proprio ed essenziale che è Dio. A Santa Caterina da Genova che diceva al Signore: «Voi mi comandate di amare il prossimo, ed io sento di non poter amare altri che voi », Gesù rispondeva: « Chi ama me, ama anche le cose amate da me ». Ne segue che una carità « commendevole per ampiezza di oggetto » non suppone molteplicità di « beni proprii e principali », ma non esclude distinzione e varietà di beni partecipati o secondarii; solamente esige giusta proporzione fra il grado dell’amore alle creature e la partecipazione che in queste si ammiri del Bene Sommo che è Dio. Ora che in Giuseppe Cafasso la fiamma della carità verso Dio siasi mostrata accesa di santo ardore ce lo dicono anzitutto le testimonianze dei contemporanei, i quali parlano della facilità, che ebbe sin da fanciullo, di sollevarsi dalle cose del tempo a quelle dell’eternità; ce lo dicono i desiderii, in lui maturati nell’adolescenza, di rompere, per quanto gli fosse possibile, i lacci che per mezzo della famiglia lo attaccavano alla terra; ce lo dicono finalmente le conversazioni continue che, in tutti i periodi della non lunga sua vita, e, malgrado la molteplicità delle occupazioni, egli seppe tenere sempre col Cielo.

Imperocché il vero segno a conoscere se il Signore è amato da noi, è la sollecitudine onde procuriamo di tenerci a Lui uniti coi pensieri della mente, cogli affetti del cuore e colle opere della mano. Come l’ago magnetico si volge sempre al polo, così chiunque ama naturalmente desidera di congiungersi ognora più coll’oggetto amato; e non è chi non sappia che i pensieri, gli affetti e le opere, conformi alla divina volontà, esprimono il modo onde quaggiù si effettua la congiunzione nostra con Dio. Ora questa congiunzione con Dio era evidentemente supposta nel Cafasso da quei suoi conterranei, che lo chiamavano « il santetto » fin da quando non contava che sei anni di età; era presentita da quelle madri che al Cafasso, di fresco ordinato sacerdote, avvicinavano i loro figliuoli, affinché questi ne avessero buona impressione, generatrice di salutare influenza in tutta la loro vita futura; era indubbiamente attestata da coloro che, avendo avuto abituale contatto col Cafasso nella vita domestica o in quella dei santi ministeri, giungevano all’esagerazione di chiedere se non fosse stato immune dal peccato originale.

Niun dubbio adunque che Dio sia stato il primo e principale oggetto dell’amore di Giuseppe Cafasso. Ma noi abbiamo già ricordato che, presupposto l’amore a Dio, anzi in base ad esso, la carità del cristiano può rivolgersi anche alle creature, nelle quali è partecipata, sebbene in minime proporzioni, l’eccellenza del Bene sommo.

E non ci dice il cuore che il Venerabile Cafasso, appunto perché vero amante di Dio, amava anche il prossimo? Lo amava nei fanciulli ai quali, anche prima di uscire dalla nativa Castelnuovo d’Asti, era solito, al dire dei testi interrogati per gli atti della beatificazione, « di insegnare quel catechismo, che essi erano stati meno solleciti di lui ad imparare nella chiesa ». Lo amava nei giovani che, poi, fatti maturi anzi attempati, non si saziavano di ricordare con somma lode gli efficaci eccitamenti al bene, avuti dal Cafasso nei cinque lustri del suo rettorato del Convitto ecclesiastico di Torino. Lo amava negli ecclesiastici e nei laici, che si erano affidati alla sua direzione spirituale, e che egli guidava, colla parola e coll’esempio, sui campi fioriti della cristiana perfezione. Lo amava... che più? il Venerabile Cafasso amò il prossimo nei peccatori che egli ridusse a penitenza, negli ammalati ai quali fu medico così dell’anima come del corpo, nei carcerati ai quali prodigò cure materne fino ad essere pronto a farsi prigioniero con essi, nei condannati a morte ai quali infuse tali sentimenti di rassegnazione, e mise in cuore tanta vivezza di pentimento, da poter egli inaugurare una nuova devozione, la devozione « ai suoi santi impiccati ».

Forse il ricordo di tante e sì differenti classi di persone, alle quali il Cafasso rivolse le sue amorose sollecitudini, potrebbe bastare a persuadere l’ampiezza dell’oggetto della sua carità. Ma chi ponga speciale attenzione all’ultima classe di persone da Noi ricordata non può non argomentare, dal favore prestato ad essa, la benevolenza con cui il Cafasso era pronto ad abbracciare tutti gli uomini. Sembra infatti che una certa naturale ripugnanza ci possa tener lontani dai condannati all’estremo supplizio, se non consideriamo in essi che i reietti della società, ossia coloro che, per l’enormità dei delitti commessi, sembrano meno degni di quella stima che è presupposta dall’amore. Ma il cristiano non deve dimenticare che anche quegli infelici hanno un’anima, che è costata il Sangue di un Dio; e, appunto perché caduti più in basso, hanno maggior bisogno di un braccio forte che li aiuti a rialzarsi; appunto perché esposti a maggior pericolo di dannarsi, hanno più urgente e più grave bisogno di un angelo, che li strappi agli artigli di Satana. Ora ai condannati a morte dall’umana Giustizia il Cafasso dedicò cure speciali: le dedicò così costanti ed amorose, e rivendicava a sé con tanta insistenza il privilegio di assistere i giustiziandi, che giunse ad essere chiamato dal volgo « il prete della forca! ». Da queste disposizioni di animo, trionfatrici di ogni naturale ripugnanza, è agevole argomentare la preparazione del Cafasso ad abbracciare tutti e singoli gli uomini, senza distinzione di grado, di condizione e di merito; epperò la carità di lui deve apparirci ornata del carattere di universalità per l’ampiezza dell’oggetto.

L’apostolo San Paolo, volendo persuadere i fedeli di Corinto di essersi prestato ad attrarre alla sequela di Cristo coloro che non si erano ancora convertiti, diceva di « essersi fatto giudeo coi giudei » (« et factus sum Iudaeis tanquam Iudaeus, ut Iudaeos lucrarer »): poi, volendo dimostrare di aver fatto altrettanto coi Gentili, soggiungeva: « con quelli che sono sotto la legge (mi sono fatto) come se fossi sotto la legge » (« iis qui sub lege sunt quasi sub lege essem »); e finalmente, a guisa di chi riassume in forma generica l’azione già prima indicata in maniera specifica e distinta, conchiudeva il discorso col dire « mi sono fatto tutto a tutti » (« omnibus omnia factus ut omnes facerem salvos ») (1 Cor. IX, 22). Il Dottore angelico commenta da pari suo questo tratto dell’epistola Paolina, e vi ravvisa anzitutto la « generalità » delle persone alle quali si estese la sollecitudine dell’apostolo. Ma, poiché noi abbiamo già detto che il Cafasso era pronto ad estendere, se già non la estendeva di fatto, la sua carità a tutti gli uomini, chi potrebbe mettere in dubbio che la generalità voluta da San Tommaso nel commentare l’omnibus factus di san Paolo, fosse raggiunta anche dal nostro Venerabile?

L’angelico Dottore nelle citate parole vede però anche la liberalità o generosità con cui san Paolo si era fatto tutto a tutti: « implicat triplicem conditionem in servitio: generalitas, liberalitas, utilitas…» (Comment. in Epist. S. Pauli). E per giudicare dell’ampiezza dell’oggetto nella carità del Ven. Cafasso, dopo di aver considerata la generalità delle persone alle quali si estese, non considereremo noi anche la liberalità, o la generosità del modo, onde questa carità si fece palese? A questa considerazione c’induce lo studio del testo Paolino che, se nella parola « omnibus » autorizza la generalità delle persone voluta da san Tommaso, colle altre parole « omnia factus » suppone la liberalità dei modi richiesta dallo stesso angelìco Dottore. Ma i modi adoperati dal Cafasso, per compiere la missione che il Signore gli aveva affidata verso una sì grande generalità di persone, non furono essi così numerosi, così frequenti e sopra tutto così efficaci da dimostrare che il Cafasso non solo erasi fatto a tutti, (« omnibus factus »), ma appariva ancora « fatto tutto a tutti » (« omnibus omnia factus? »).

Non ricorderemo l’amorevolezza con cui era solito accogliere chiunque si fosse a lui rivolto, né la prontezza con cui si prestava a farsi mediatore di soccorsi o di impieghi? Ma come potremmo tacere della pazienza che esercitava nel ministero delle confessioni? Nemmeno avvertiva che la lunga permanenza nella rigidissima chiesa di San Francesco avrebbe potuto recar danno alla sua salute. E come non ricordare quella ilarità del sembiante, con cui incoraggiava i penitenti che avessero voluto valersi del suo ministero? Non si apporrebbe al vero chi credesse che, nella direzione del Convitto ecclesiastico, il Cafasso lasciasse correre l’acqua per la sua china e non sapesse, a tempo e luogo, usare ammonimenti e correzioni, castighi e licenziamenti. Si valeva anche di questi, ma come due secoli innanzi se ne era servito San Francesco di Sales, senza che l’uso di essi apparisse frutto di passione. Che se in Giuseppe Cafasso avesse dovuto apparire una passione, questa sarebbe stata la brama ardentissima di condurre anime a Dio.

Il Signore parve secondare codesta brama, perché i penitenti del Venerabile, numerosi fin da principio, al dir dei testi contemporanei, diventarono ben presto una turba, e la turba abbracciò persone appartenenti ad ogni classe della società. Sarebbe superfluo il dire che non aveva preferenze per i nobili sui plebei, né per i ricchi sui poveri. Eppure il Cafasso una preferenza l’aveva... ed era per i peccatori ostinati, per i languenti in carcere, per i condannati all’estremo supplizio. Oh! le sante industrie che adoperava cogli infermi, che sapeva più ammalati nell’anima che nel corpo! Ora si presentava qual padre amoroso, ora qual giudice severo; ma era sempre l’amico, sollecito della salute dell’anima e del corpo. Talora era respinto dagli infermi, era talora discacciato dai parenti; ma poco egli tardava a tornare all’assalto per guadagnare un’anima, e le nuove industrie suggeritegli dalla sua carità, mettendogli in mano ora una taumaturga immagine della Vergine, ora un Crocifisso arricchito di indulgenze dal Papa, finivano sempre per trionfare della resistenza opposta dall’angelo delle tenebre.

Non dissimile condotta teneva il Venerabile nel visitare i carcerati, e non dissimile era l’accoglienza che ne riceveva, ora lieta ora triste. Non si dimentichi però che fu sul punto di rimanere sequestrato in carcere, quella sera in cui si indugiò nell’assistere e nel confortare un reo di gravi delitti, non ancora disposto a mutar vita. Si torni anche col pensiero a quel privilegio, di assistere i condannati all’estremo supplizio, che già abbiamo detto avere il Cafasso rivendicato per sé; si ricordino le cure specialissime che il Venerabile, nel non lungo periodo della sua vita sacerdotale, ebbe per più di sessanta condannati a morte. Oh! la pazienza nel vedersi dapprima respinto, il facile ricorso alla preghiera per vincere gli ostinati, gli opportuni ricordi della madre terrena, i dolci inviti fatti in nome della Madre celeste, la minaccia dei castighi eterni e, anche più spesso, la promessa del premio « senza nemmeno passare pel luogo di espiazione »: furono questi gli argomenti più spesso adoperati dal Ven. Cafasso con gli infelici già posti in Confortatorio. Argomenti efficacissimi, perché dischiusero le porte dell’eterna vita a quanti dovettero espiare coll’estremo supplizio i delitti della vita terrena. Un solo, fra i condannati a morte che furono assistiti dal Cafasso, un solo aveva sino all’ultimo rifiutato di arrendersi al suo invito a penitenza... ma si arrese, stando già sul carro che dovea condurlo al luogo dell’estremo supplizio, e sul quale avea preso posto anche il Cafasso. L’insieme di queste industrie, adoperate dal nostro Venerabile a pro dei fratelli, ci autorizza a dire che la sua carità era ornata del carattere di universalità, perché l’ampiezza del suo oggetto era attestata non solo dalla generalità delle persone che abbracciava, ma ancora dalla varietà e dalla generosità dei modi coi quali era esercitata.

Se non che fin da principio Noi abbiamo detto che la carità, inculcata dalla Chiesa col decreto che proclama l’eroicità delle virtù del Ven. Cafasso, è una carità che, oltre ad essere universale, deve anche essere ed apparire ordinata. Ora l’ordine, che può ammirarsi nell’esercizio della carità, non è se non quello onde l’amore al prossimo si mostra indirizzato a quello verso Dio, o, se meglio piace, appar di questo una manifestazione esterna: senza dire che, se la carità verso il prossimo ci fa solleciti del bene di lui, l’ordine esige che fra due beni diamo continua preferenza allo spirituale, come a quello che il prossimo e noi congiunge meglio al Signore.

Ma agì forse diversamente il Cafasso? Racconta il Ven. Don Bosco che questo suo conterraneo nel giorno della sua ordinazione sacerdotale si gettò ai piedi del Crocifisso, e disse: «Voglio farmi santo, e presto santo ». Un tale proposito indicava bene l’altezza a cui tendeva la fiamma di amore accesa nel petto del giovane prete, e ognuno intende che alla medesima altezza mirava il regolamento di vita a sé proposto e costantemente osservato dal nostro Venerabile, mercé quelle pratiche di pietà che sono l’ornamento più bello della vita sacerdotale. Anche la facilità, con cui nei discorsi famigliari era solito ad elevarsi dalle cose terrene alle celesti, diceva abbastanza che il suo amore non voleva allontanarsi mai da Dio, anzi mirava al trionfo dell’ordine, sacrificando sull’ara dell’amore a Dio ogni affetto al bene secondario e caduco.

Ma l’ordinata carità del Cafasso non apparve mai meglio che quando si mostrò sollecito del bene del prossimo; imperocché il sollievo temporale recato agli infermi era ordinato al loro bene spirituale, e già abbiamo detto che l’affannosa cura, da lui prestata ai condannati all’estremo supplizio, era giustificata solo dalla considerazione del breve tempo che rimaneva a quegli infelici per assicurare la loro eterna salvezza. Con ogni ragione avrebbe dunque potuto applicare a sé tutta la frase dell’apostolo: « omnibus omnia factus ut omnes facerem salvos », perché anche egli non si era fatto tutto a tutti per alcun motivo o interesse umano, ma solo per condurli tutti a salvezza: « ut omnes salvos facerem ».

Crediamo però di non poter passare sotto silenzio un ultimo argomento che, mentre addita la speciale missione da Dio affidata al Venerabile Cafasso, conferma ognor meglio che la carità di lui fu mirabilmente ordinata. Imperocché il nostro Servo di Dio parve da Dio mandato a sradicare la zizzania del giansenismo, che purtroppo, all’alba del secolo decimonono, cresceva ancora in mezzo al buon grano in alcune terre del Piemonte.

Dal campo scientifico la dottrina dei giansenisti era passata a quello delle pratiche religiose, e in questo campo non è a dire quali danni arrecasse, perché ognuno comprende che le teorie giansenistiche, quelle specialmente che riguardavano i sacramenti della Penitenza e della santa Eucarestia nonché le funzioni liturgiche, dovevano allontanare i fedeli — e li allontanavano purtroppo! — dalla Chiesa. Ma all’inconsulto rigorismo dei seguaci di Porto Reale il Cafasso oppose le savie norme attinte alla Teologia Morale di San Alfonso Maria de’ Liguori, e, prima colle sue conferenze, poi colla formazione del giovane clero nel Convitto ecclesiastico da lui diretto, preparò una nuova generazione, non più timorosa di accostarsi a Dio, ma avida di inebriarsi alla dolcezza dell’amore scaturito dal Cuore Santissimo di Gesù. Sembra a Noi che non si potrebbe provare in miglior guisa che il Cafasso si fece tutto a tutti per condurre tutti a salute. Gli insegnamenti che egli dava dalla cattedra e dal pulpito erano indirizzati alla generalità del prossimo, e miravano al massimo bene del medesimo. La carità di lui non era dunque solo universale, era anche bene ordinata.

Non a torto perciò sono state messe in bocca al Ven. Cafasso le parole che Noi avevamo già poste sul labbro del Venerabile Dalmonte: «Dammi le anime; tutto il resto tienilo per te », e a Noi arride la speranza che la nuova lezione oggi data dalla Chiesa persuada tutti i nostri figli a farsi apostoli di carità, universale e ordinata. Il novello eroe, che oggi proponiamo a modello di virtù, abbia imitatori non solo quanti hanno assistito alla pubblicazione dell’odierno decreto, ma altresì quanti ne avranno notizia.

E la benedizione di Dio, che Noi invochiamo sui figli vicini e sui lontani, faciliti a tutti l’adempimento del santo proposito. Ne abbia così nuova gloria la Chiesa, e nuovo lustro il Piemonte, che al Cafasso fu culla avventurata e vasto campo di azione. Ne abbia sviluppo sempre maggiore il Convitto ecclesiastico di Torino, principale erede dello spirito del Venerabile, e che appunto in questi giorni celebra il primo centenario dalla sua fondazione. Il clero ne abbia incremento di zelo; i laici ne ritraggano più efficace l’esempio della virtù; e ne abbiano conforto, anzi speranza di protezione superna, così i parenti superstiti, come gli ecclesiastici e i laici che con tanto zelo promuovono la causa di beatificazione del Venerabile Giuseppe Cafasso.

 

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