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VISITA AL CARCERE ROMANO DI REBIBBIA

OMELIA DI GIOVANNI PAOLO II

Martedì, 27 dicembre 1983

 

1. L’incontro con voi in questo periodo natalizio, carissimi fratelli e sorelle, qui presenti o con noi collegati, mi commuove profondamente. Immagino quel che si agita nei vostri animi: sono giorni, questi, nei quali il ricordo dei propri cari si fa più vivo e il desiderio di potersi ritrovare nell’intimità della propria casa invade il cuore con nostalgia struggente.

Lo immagino, ed è proprio pensando a questo che ho deciso di venire da voi, fra queste mura che voi non potete non sentire così estranee e fredde, per portarvi il calore di una parola amica e insieme il conforto di un invito alla speranza.

Desidererei poter parlare con ciascuno di voi, a lungo. Soprattutto desidererei poter ascoltare quel che ciascuno forse vorrebbe raccontarmi circa la propria vicenda personale e la situazione della propria famiglia, circa le delusioni accumulate nel passato e le aspettative con cui, nonostante tutto, egli continua a proiettarsi verso l’avvenire. Sono certo che un simile colloquio mi consentirebbe di misurare quale profondità di sentimenti e quale ricchezza di umanità ciascuno nasconde dentro di sé.

Purtroppo questo incontro a tu per tu non è possibile. Parlo quindi a tutti, ma vorrei che ciascuno mi ascoltasse come se le mie parole fossero rivolte a lui solo. In effetti, se per gli occhi questa Chiesa risulta gremita di persone, per il mio cuore essa non è che un crocevia nel quale gli è dato di incontrare un altro cuore e condividere con lui un momento di fraternità in un dialogo di speranza e d’amore.

2. La mia prima parola, come succede appunto quando ci si incontra, vuol essere un saluto, che rivolgo con affetto a ciascuno di voi, ringraziando vivamente per questa vostra accoglienza, nella cui spontaneità ravviso una chiara prova di fiduciosa disponibilità verso ciò che la mia presenza tra voi può significare. Sono sentimenti che ricambio con intima commozione, una commozione che le parole, con cui uno di voi ha interpretato il comune pensiero, rendono anche più intensa. Ho ascoltato e ho apprezzato: erano parole nobili, parole sincere, parole che hanno suscitato nel mio cuore un’eco profonda, che non si spegnerà.

Cerco di immaginare - e non mi è difficile - i desideri che ciascuno di voi si porta dietro e che, se potesse parlarmi, mi manifesterebbe. Molte delle cose a cui il vostro cuore aspira, non è purtroppo in mia facoltà concedervi, come voi ben comprendete. E tuttavia sento di avere qualcosa da darvi che può essere per voi di grande importanza. Quel che posso darvi, come uomo e come cristiano, è innanzitutto la mia stima per le vostre persone. Come sacerdote e come Vescovo, posso offrirvi un aiuto a comprendere il senso di questo momento della vostra vita, momento sofferto e tuttavia momento che può rivelarsi a modo suo utile per preparare un domani migliore.

L’altro ieri era Natale: abbiamo celebrato la nascita nel tempo dell’eterno Figlio di Dio. Abbiamo rivissuto quell’evento mirabile nel racconto semplice, ma così suggestivo, dell’evangelista Luca, racconto che ci è stato riproposto poc’anzi.

Avete notato le singolari coincidenze? Il Natale, Gesù lo ha vissuto lontano dalla sua casa, nel contesto squallido e anonimo di una grotta, in una situazione di pratica emarginazione. Ricordate la scarna ma eloquente annotazione dell’Evangelista: “Non c’era posto per loro nell’albergo” (Lc 2, 7)? Se poi alla scena aggiungete quel che succederà ben presto, cioè la fuga precipitosa in Egitto e la prolungata permanenza in terra d’esilio (cf. Mt 2, 13 ss.), il quadro è completo.

Non vi pare che vi siano elementi più che sufficienti per poter guardare al presepe con la fiducia che quel Bimbo adagiato nella mangiatoia è perfettamente in grado di capire il vostro stato d’animo? Sì, egli vi capisce e vi invita a non perdervi d’animo, ma a fare delle stesse circostanze difficili, nelle quali vi trovate, l’occasione di quella riuscita interiore, da cui dipende il vostro futuro. Non è forse questo il messaggio più vero del Natale? Da Cristo che nasce, ogni essere umano è invitato a rinascere a un senso più vivo della propria dignità e dei doveri che da tale dignità derivano. Nel neonato Salvatore, per altro, egli può trovare la luce e il sostegno necessari per individuare la strada di tale rinascita e per riuscire poi, giorno dopo giorno, a percorrerla.  

Diritti e dignità della persona

3. Gesù è nato, infatti, per essere il nostro Redentore. Come ben conoscete, la Chiesa celebra quest’anno il Giubileo straordinario della Redenzione, nel ricordo del 1950° anniversario di quell’evento decisivo per la storia umana, che è stata la passione e risurrezione di Cristo. Ebbene, sapete come il profeta Isaia annunciava, secoli prima, la venuta e l’opera del futuro Messia? Sono parole particolarmente significative, perché Gesù in persona le applicò a se stesso all’inizio della sua vita pubblica. Eccole: “Lo Spirito del Signore Dio è su di me, perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione; mi ha mandato a portare il lieto annunzio ai poveri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, a promulgare l’anno di misericordia del Signore” (Is 61, 1-2; cf. Lc 4, 18-19).

Dunque, il “lieto annunzio”, che Gesù ha portato agli uomini, comprende anche la “scarcerazione dei prigionieri”. Quale eco singolare suscitano nell’animo queste parole, a sentirle risuonare qui fra voi! Qual è il loro senso? Si debbono forse riferire alla struttura carceraria nella sua accezione più immediata, quasi che Cristo sia venuto per eliminare le prigioni e ogni altra forma di istituzione detentiva?

In un certo senso è anche così, perché - in prospettiva finale - la Redenzione mira al superamento di tutte le conseguenze della miseria umana e del peccato. In quel “nuovo cielo” e in quella “nuova terra”, che la seconda venuta di Cristo inaugurerà alla fine dei tempi, non ci saranno più carceri, come “non ci sarà più la morte, né il lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate” (Ap 21, 1. 4).

Ma anche ora, su questa terra e sotto questo cielo, le parole del Signore hanno avuto e hanno una loro efficacia nei confronti dell’istituzione carceraria, così come gli uomini l’hanno concepita e attuata. Chi potrebbe ignorare infatti l’influsso benefico che, nel corso dei secoli, il messaggio evangelico ha svolto nel promuovere un maggior rispetto per la dignità umana del carcerato, i cui diritti ad un trattamento equo, aperto alla possibilità di reinserimento nella società, erano spesso così ingiustamente conculcati.

Molto cammino s’è fatto in questo campo, ma altro certamente ne resta da fare. La Chiesa, come interprete del messaggio di Cristo, apprezza e incoraggia gli sforzi di quanti si prodigano per far evolvere il sistema carcerario verso una situazione di sempre pieno rispetto dei diritti e della dignità della persona.  

Liberare l’uomo dal carcere morale

4. “Mi ha mandato . . . a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri”. Se la missione di Cristo tocca anche le strutture esterne delle istituzioni umane, essa si rivolge però, in primo luogo, all’interiorità dell’uomo, là dove hanno le radici gli egoismi, gli odi, le storture morali, che condizionano poi pesantemente gli stessi rapporti esterni delle persone e le istituzioni giuridiche e sociali, a cui esse danno vita per la convivenza con i loro simili.

Cristo è venuto innanzitutto per “liberare” l’uomo dal carcere morale, nel quale lo hanno rinchiuso le sue passioni. “Chiunque commette il peccato è schiavo del peccato”, egli afferma nel Vangelo (Gv 8, 34); ed è proprio da questa schiavitù che egli intende liberare l’uomo con la Redenzione. Quella del peccato è una schiavitù a cui ogni uomo è soggetto fin dalla nascita per la comune discendenza da Adamo, ed è una schiavitù che purtroppo ciascuno aggrava con le colpe personali, alle quali per fragilità o volutamente nel corso della vita si espone. Vale quindi per ogni persona l’imperativo, risuonato nella prima Lettura, a convertirsi “dalla sua condotta malvagia e dalla violenza che è nelle sue mani” (Gv 3, 8). Non v’è uomo che non abbia bisogno di essere liberato da Cristo, perché non v’è uomo che non sia, in forma più o meno grave, prigioniero di se stesso e delle sue passioni.

Vera liberazione si ha, quindi, nella conversione e nella purificazione del cuore, cioè in quel radicale mutamento di spirito, di mente e di vita, che solo la grazia di Cristo può operare. Il Giubileo straordinario, che stiamo celebrando, mira soprattutto a tale risultato: stimolare i cuori alla conversione. Quella, infatti, è la “scarcerazione” per la quale, in primo luogo, Cristo è venuto sulla terra, ha predicato il Vangelo, ha patito la morte ed è, alla fine, risorto. Tale “scarcerazione” sta alla radice di tutte le altre. Se la grazia della Redenzione scioglie l’uomo dai vincoli delle sue colpe, allora egli - qualunque sia la sua condizione esterna - comincia a godere di quella libertà interiore che è la sorgente di ogni altra libertà.  

Un messaggio straordinario

5. Carissimi, ecco l’annuncio che io, come ministro di Cristo, ho la gioia di recare a voi in questo giorno sul quale il Natale, da poco celebrato, diffonde ancora tanta luce di dolcezza e di pace. In questo giorno la Chiesa ricorda l’apostolo san Giovanni, il discepolo prediletto, al quale dobbiamo, fra tante meravigliose verità conservateci nei suoi scritti, anche quell’affermazione folgorante: “Dio è amore” (1 Gv 4, 16).

Mi è caro raccogliere questo suo straordinario messaggio, per lasciarvelo come sintesi mirabile di quanto ho inteso dirvi in questo incontro: “Dio è amore”. Ciascuno, dunque, può rivolgersi a lui nella fiduciosa certezza di essere da lui amato. Quale che sia la vicenda personale che ciascuno si ritrova alle spalle, quali che siano le esperienze deludenti che la vita gli può avere riservato, di una cosa non dovrà mai dubitare: in cielo c’è un Padre buono che sa di lui (cf. Mt 6, 32) e che lo ama.

Sentitevi amati dal Signore! Di questo amore vuol essere segno la venuta del Papa tra voi. Di questo amore è pure testimonianza l’assidua presenza nel carcere del ministro di Dio, del cappellano, il quale partecipa ai vostri problemi, condivide le vostre preoccupazioni, vi sostiene con la sua solidarietà. Apritegli il cuore e assecondate il suo ministero spirituale. Egli vi parla in nome di quel Cristo che, ponendosi al fianco vostro come di ogni persona che soffre, ha voluto identificarsi con voi. Ricordate? “Ero carcerato e siete venuti a visitarmi”, egli ha detto? (cf. Mt 25, 36. 40).

Cristo ha amato l’uomo, pagando per questo un altissimo prezzo: ha dato la sua vita per lui (cf. Gal 2, 20). Credete all’amore di Cristo e impegnatevi a corrispondervi. La vera novità nella storia di ciascuno di noi, come in quella del mondo, può scaturire solo di qui, da un amore accolto e offerto in umile atteggiamento di gratitudine verso un Dio che “per noi uomini e per la nostra salvezza” ha preso carne nel seno purissimo del presepe, in una notte di tanti anni fa, a Betlemme.

Nella luce che promana dalla mangiatoia e alle soglie ormai del nuovo anno, io rivolgo un augurio cordiale a tutti voi, come pure al signor ministro di Grazia e giustizia qui presente, alle autorità carcerarie, ai cappellani, alle guardie e al personale, mentre col pensiero mi porto nelle altre carceri di Roma e d’Italia, anzi in tutte le carceri del mondo, per tendere le mani verso le persone ivi detenute e a tutte augurare, con affetto profondo e partecipe, un anno migliore di quello che sta per concludersi. Sarà un anno migliore, se nel nostro cuore riusciremo a fare più spazio a Dio che “è amore”.

A tutti giunga la mia benedizione.

 

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