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MESSA ESEQUIALE DELL'ARCIVESCOVO DERMOT J. RYAN

OMELIA DI GIOVANNI PAOLO II

Basilica Vaticana - Sabato, 23 febbraio 1985

 

“Anche voi tenetevi pronti, perché il Figlio dell’uomo verrà nell’ora che non pensate!”.

Fratelli carissimi.

Quante volte abbiamo meditato queste parole del divin Maestro, insieme alle altre ugualmente severe e impressionanti: “Vegliate, dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora” (Mt 25, 13); ma forse mai come in questa dolorosa circostanza esse risuonano veridiche e ammonitrici!

Il nostro amato fratello arcivescovo Dermot Ryan improvvisamente ci ha lasciati! Era nel pieno delle sue energie; da meno di un anno aveva intrapreso con entusiasmo e dedizione il suo lavoro assai impegnativo come pro-prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli; portava nel nuovo incarico un ricco e collaudato patrimonio culturale e pastorale e una lunga esperienza di sacerdote, di vescovo, di docente e di organizzatore; era reduce da un viaggio negli Stati Uniti per commemorare il decennio dell’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi e aveva presieduto nei giorni scorsi al Congresso internazionale missionario presso la Pontificia università urbaniana e con viva soddisfazione lo attendevamo per l’udienza finale insieme con i partecipanti . . . E invece il Signore l’ha voluto con sé. Improvvisamente, giovedì pomeriggio, un violento collasso stroncava la sua esistenza operosa.

Grande è la nostra mestizia per la perdita di monsignor Ryan. Il 5 aprile dello scorso anno, nel contesto dei vari cambiamenti di titolari dei dicasteri romani, era stato nominato pro-prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli. La sua morte è un doloroso lutto per la Curia romana; e lo è anche per la Chiesa d’Irlanda, da lui tanto amata, che lo vide giovane studente, appassionato di teologia, di Sacra Scrittura, di lingue orientali; e poi sacerdote zelante e dinamico e infine per dodici anni arcivescovo di Dublino, concreto e coraggioso, pastoralmente sollecito di tutti, convinto - come diceva - che “la Chiesa deve fare tutto il possibile per servire i suoi membri ovunque si trovino”.

Ma la morte di monsignor Ryan è una grave perdita anche per la Chiesa universale. Infatti egli possedeva esperienza e doti tali da renderlo particolarmente idoneo al nuovo incarico: la conoscenza di molte Chiese particolari, a motivo dei suoi studi e dei suoi viaggi di ministero; la pastoralità unita alla missionarietà, conscio com’era del “mandato” trasmesso da Gesù agli apostoli e da questi ai loro successori per tutti i tempi e per tutti i luoghi; e infine la romanità rettamente intesa come “comunione” con Pietro nella verità e nella carità. Quanto bene avrebbe potuto compiere ancora per la dilatazione del Vangelo e per la formazione dei missionari. Mi piace a questo proposito citare, a suo onore e a nostro incoraggiamento, quanto egli disse alcuni giorni fa al Congresso suddetto, di cui aveva ufficialmente aperto i lavori. Al termine della prima seduta egli si soffermò sul problema complesso e difficile dell’inculturazione e ricordò che anche nel passato è avvenuto l’incontro del Vangelo con altre culture, senza che questo abbia portato a stravolgimenti e contaminazioni. Il problema perciò - diceva monsignor Ryan - non è tanto nello studiare i valori insiti nelle altre culture, quanto nel conoscere e nel saper trasmettere i valori del Vangelo (cf. “L’Osservatore Romano”, 20 febbraio 1985). Sono affermazioni illuminanti e rasserenanti, che devono continuare ad orientare l’impegno di quanti faticano per l’annuncio del Vangelo nel mondo.

Eppure, nonostante queste doti e le grandi prospettive di bene che esse aprivano, il Signore ha voluto monsignor Ryan con sé: nei piani del Signore egli aveva ormai terminato la sua corsa, aveva compiuto il suo “mandato” e a noi non resta che dire con rassegnazione, ma anche con estrema fiducia: “Sia fatta la tua volontà, come in cielo e così in terra!”. Infatti, “e ‘n sua volontade è nostra pace!” (Dante Alighieri, La Divina Commedia, “Paradiso”, III, 25). Questo nostro amato fratello ha raggiunto la mercede, ha meritato la “corona di giustizia”, che il Signore riserva per il giorno definitivo a tutti coloro che attendono con amore la sua manifestazione (cf. 2 Tm 4, 8). Non lo vedremo più con noi; ma rimarrà sempre vivo il suo ricordo, sempre efficace il suo esempio.

2. La morte che ha colto monsignor Ryan, mentre predisponeva programmi di lavoro apostolico molteplici e intensi, è per tutti noi un ammonimento serio, anche se non privo di una sua soavità alla luce della parola e dell’amore di Cristo.

Essa ci insegna a vigilare e ad essere sempre preparati per l’incontro con il Signore, ricordandoci che “nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore; se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore” (Rm 14, 7-8).

Essere preparati significa vivere in “grazia di Dio”: questa è la prima e fondamentale condizione di una vita autenticamente cristiana. “Vivere in grazia” e “far vivere in grazia” è la missione e l’ideale primario del ministro di Dio.

Ci si stringe il cuore pensando a tante morti improvvise che ogni giorno avvengono sulla faccia della terra: quante di queste persone sono preparate ad affrontare il giudizio di Dio? Questo pensiero ci impegna ad aumentare il nostro zelo apostolico per le anime.

Essere preparati significa trovarci sempre al nostro posto. E il nostro posto è quello della volontà di Dio, del dovere quotidiano, della sequela di Cristo conosciuto, amato, imitato. Talvolta il compito che ci è affidato può farci soffrire; talvolta il proprio lavoro è umile e nascosto, senza umane consolazioni. Eppure, questo “trovarsi al proprio posto”, come monsignor Ryan quella sera ultima e definitiva, ci dà forza morale e serenità. Ricordiamo le belle parole che Sant’Ignazio di Antiochia scriveva al vescovo San Policarpo, di cui oggi celebriamo la memoria: “Abbi cura dell’unità della Chiesa, di cui non vi è nulla di meglio . . . Abbi pazienza e carità con tutti . . . Non stancarti nella preghiera . . . Vigila con uno spirito insonne . . . Dove c’è maggior fatica, ivi il guadagno sarà maggiore . . . Sta’ saldo e forte come incudine che riceve colpi. È proprio del valoroso atleta ricevere, sì, battiture, ma vincere . . . Esamina i tempi; aspetta colui che è al di fuori del tempo, invisibile, ma che si è fatto visibile per noi . . .” (S. Ignazio di Antiochia, Ad Polycarpum, I-III).

Essere preparati significa infine vivere nell’attesa dell’eterna felicità, accettando le tribolazioni della vita e del ministero, sapendo che “le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi” (Rm 8, 18). La non conoscenza dell’ora dell’incontro finale con Dio è uno stimolo a intensificare il nostro amore, a trafficare i nostri talenti, a non perdere tempo, a rendere più ardente la nostra invocazione, a coltivare con più ansia e ardore la “beata speranza”. Infatti “passa la scena di questo mondo!” (1 Cor 7, 31) ed essendo sempre vicina la “mezzanotte” della parabola evangelica, manteniamo accesa la lampada della fede e della confidenza! Non ci sia altro vanto per noi che nella croce di Cristo (cf. Gal 6, 14), per mezzo della quale viviamo con serenità e pazienza tra le difficoltà quotidiane.

Mentre offriamo il sacrificio eucaristico per il caro arcivescovo Ryan, noi confidiamo nella sua preghiera dal cielo per tutti noi, per la Congregazione romana, che egli ha lasciato, per la Chiesa d’Irlanda, sua amatissima patria, per l’intera comunità cristiana, affinché l’amore di Cristo arda nei nostri cuori, mentre camminiamo solleciti verso la casa del Padre!

 

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