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SOLENNI ESEQUIE DEL CARDINALE WLADYSLAW RUBIN

OMELIA DI GIOVANNI PAOLO II

Basilica Vaticana - Venerdì, 30 novembre 1990

 

“Le anime dei giusti sono nelle mani di Dio!” (Sap 3, 1).  

Amati confratelli nell’episcopato e nel sacerdozio, carissimi fedeli, che partecipate a questa cerimonia funebre!

1. Anche il nostro amato e stimato fratello, card. Wladyslaw Rubin, ci ha lasciato, e noi, che l’abbiamo conosciuto e seguito per tanti anni, vogliamo pensarlo davvero, come un giusto, nell’amore infinito del Signore!

Ci ha lasciato nel XXV anniversario dell’Istituzione del Sinodo dei vescovi, organismo al cui avvio ha recato un decisivo contributo, essendone stato nominato primo segretario dall’indimenticabile Papa Paolo VI. La circostanza rende anche più sentito il cordoglio per la sua dipartita.

Da qualche anno ormai il caro cardinale aveva abbandonato gran parte delle sue attività a motivo della grave malattia che lo aveva colpito. Un doloroso insieme di tribolazioni spirituali e fisiche lo ha accompagnato in quest’ultimo periodo, purificando ulteriormente la sua anima. In ogni circostanza egli ha dato un esempio di pieno e sereno abbandono alla volontà di Dio, lasciandoci tutti edificati.

Ora, come dice la Scrittura, egli è nella pace: il Signore l’ha provato, l’ha saggiato come oro nel crogiolo, e lo ha trovato degno di sé; lo ha gradito come un olocausto. E ora noi siamo qui in preghiera intorno alla sua bara con la nostra mestizia, ma anche con le certezze della nostra fede!

2. Riandando col pensiero alla vita del card. Rubin, si rimane impressionati per la varietà e l’intensità delle sue esperienze. Nato il 20 settembre 1917 a Toki, nell’arcidiocesi di Lwow, egli compì gli studi ginnasiali a Tarnopol e si iscrisse poi alla Facoltà teologica e alla Facoltà di Diritto dell’Università Jan Kazimierz a Lwow. E di qui incominciarono le sue peripezie e le sue peregrinazioni. Allo scoppio della seconda guerra mondiale dovette interrompere gli studi e insieme con gli altri connazionali fu arrestato e deportato in un campo di lavoro forzato, in Siberia. Successivamente, grazie all’interessamento dell’ordinario militare mons. Gawlina, poté unirsi ai seminaristi da lui radunati perché completassero i loro studi. Ebbe così l’opportunità di conseguire la licenza in teologia nell’Università san Giuseppe di Beirut e il 30 giugno 1946 poté ricevere a Beirut l’ordinazione sacerdotale.

E così, dalla Polonia alla Siberia, al Libano, il giovane Rubin raccoglieva e moltiplicava le sue esperienze con fede ferma e intrepido coraggio. Giovane sacerdote, fu designato parroco dei numerosi polacchi che si trovavano nel Libano a causa della guerra. Con tale mansione egli si dedicò all’insegnamento della religione nelle scuole polacche di Beirut, fu cappellano dell’ospedale e moderatore del sodalizio mariano dei giovani universitari.

Nel 1949 veniva mandato dal suo arcivescovo a Roma per laurearsi in diritto canonico presso la Gregoriana. Un nuovo campo di attività pastorale si apriva davanti a lui. Gli fu affidata l’assistenza religiosa degli emigrati polacchi. Dal 1953 al 1958 fu “missionario” dei polacchi in Italia; organizzò due Istituti - uno a Loreto e l’altro a Roma - per gli orfani e per i fanciulli di famiglie in difficoltà; nel 1959 fu nominato rettore del Pontificio Collegio Polacco in Roma per curare in modo particolare la formazione dei sacerdoti-studenti provenienti dalla Polonia; nel 1964 fu nominato Delegato del primate di Polonia per l’emigrazione e ausiliare nella sede primaziale di Gniezno.

Io stesso ebbi la gioia di essere conconsacrante alla sua ordinazione episcopale, accanto al card. Stefan Wyszynski e, nella mia qualità di arcivescovo di Cracovia, lo nominai rettore della chiesa di Santo Stanislao e dell’omonimo Ospizio in Roma, ove egli si dedicò ad un’intensa attività pastorale tra gli emigrati polacchi sparsi in tante Nazioni del mondo, visitandoli in tutti i Continenti e mantenendo con loro stretti rapporti. Per mezzo delle “missioni polacche”, istituite nei vari Paesi e con la collaborazione di mons. Wesoly, alimentò continuamente la fede cristiana in milioni dei suoi connazionali esuli nel mondo, partecipando con assiduità ai lavori della Conferenza episcopale polacca. Per questo vasto e assillante lavoro, la Polonia deve essere ben riconoscente al card. Rubin; come anche la Chiesa, che ebbe sempre in lui un pastore illuminato e saldo, pur nelle drammatiche vicende della società e della Patria! Egli era dappertutto portatore di certezze e di speranza; testimone dell’amore fedele di Dio!

3. Al termine del Concilio Vaticano II, una nuova e ancor più delicata incombenza l’attendeva: il 17 febbraio 1967 Paolo VI nominava mons. Rubin primo segretario del neonato Sinodo dei vescovi. Egli vi recava una vastissima esperienza e una profonda sensibilità per i problemi della Chiesa nella società moderna, unite a una vasta cultura e a un’ammirevole prudenza. Per ben dodici anni egli portò avanti l’attività del Sinodo, presiedendo cinque Assemblee generali, i cui lavori sfociarono in documenti finali di grande importanza, come quelli sul sacerdozio, sulla giustizia sociale, sulla evangelizzazione.

Giurista di vaglia, attento alle varie necessità della società e della Chiesa, il card. Rubin ha lasciato numerosi scritti in materia giuridica e pastorale, nei quali ha consegnato il frutto dei suoi studi e della sua esperienza.

Per i tanti meriti acquisiti e per la ricchezza della sua esperienza, nel Concistoro del 30 giugno 1979, decisi di elevarlo alla dignità cardinalizia e per la sua conoscenza della storia e della liturgia delle Chiese Orientali nel 1980 lo nominai prefetto del relativo Dicastero, allora molto impegnato anche nella stesura definitiva del Codice di diritto orientale. In questa mansione, svolta con la sua solita diligenza e passione, lo colse quella tormentosa malattia, che trasformò la sua vita in un meritorio calvario.

4. Volendo ora, davanti alla sua salma, raccogliere in sintesi la sua lunga e laboriosa esistenza, per trarne esempio e incitamento, si potrebbe dire che la sua vita è stata sempre un intenso atto di amore sacerdotale! Sì, egli dovunque si è trovato ha sempre amato: dai tribolati tempi della deportazione in Siberia ai vari impegni in Libano, a Roma, in Italia e all’estero, ovunque lo hanno portato i suoi doveri e le sue mansioni, egli ha cercato di mettere in pratica il comandamento dell’amore!

“Da questo abbiamo conosciuto l’amore”, scrive l’apostolo san Giovanni, “Cristo ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli!” (1 Gv 3, 16). Il card. Rubin, che aveva preso come motto episcopale e cardinalizio “Crux Domini spes et victoria”, seppe vivere questo ideale fino in fondo, memore dell’ammonizione del Divin Maestro: “Se uno mi vuol servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servo” (Gv 12, 26). Egli non volle altro che servire sempre e con fervore Gesù Cristo, il Rivelatore della Verità e il Redentore dell’umanità, e perciò la sua vita, immersa nelle varie e continue fatiche pastorali - come il chicco di grano che, caduto in terra, si disfa per portare molto frutto - ha irradiato la luce della verità, ha dato la grazia a innumerevoli anime, ha consolato e confortato migliaia di persone afflitte e angosciate, ha asciugato tante lacrime, ha portato gioia e serenità a tante anime . . . Egli ha amato e perciò ha servito!

Caro fratello, te lo dico come amico e come Pontefice: sei stato un degno figlio della Polonia! La nostra Patria, nel suo lungo e tribolato cammino, può essere giustamente orgogliosa di te! E anche la Chiesa ti è riconoscente per l’intenso lavoro compiuto a servizio della verità, della santità e della carità, con spirito e sensibilità ecumenica, con dolcezza e comprensione evangelica!

5. Cari fratelli e sorelle qui presenti!

La morte fa sempre impressione, perché è il distacco dalle persone amate e dalle realtà terrene che sono state oggetto del nostro impegno. Anche Gesù, avvicinandosi al momento della passione e della morte, cominciò a provare tristezza e angoscia, e desiderò che gli apostoli vegliassero con lui. Inoltre, morire significa entrare nell’eternità e affrontare il giudizio dell’Altissimo!

Ma in questo momento, intorno all’altare del Signore, offrendo il sacrificio della Messa in suffragio del card. Rubin, ci conforta riandare alle parole di san Paolo, nelle quali ci pare di leggere un suo degno epitaffio: “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me!” (Gal 2, 20). Oh, certamente, “il salario del peccato è la morte”, ma “il dono di Dio è la vita eterna in Cristo Gesù nostro Signore!” (Rm 6, 23).

Maria santissima, la Vergine Immacolata, di cui egli fu tanto devoto, lo faccia al più presto partecipe della gloria eterna di Dio e accompagni sempre anche noi nel nostro quotidiano cammino sulla scia dei suoi esempi di sacerdote e di vescovo, di amico e di fratello.

 

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