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PAOLO VI

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 25 maggio 1966

 

La «città sul monte»

Diletti Figli e Figlie!

Ancora vi parleremo della Chiesa. È il tema che si offre più facilmente per un incontro come quello risultante dall’udienza generale; è poi il tema che il recente Concilio ecumenico ha reso d’attualità: è stato l’oggetto principale delle discussioni e delle deliberazioni conciliari; ed è il motivo ricorrente di tanti studi e di tanti commenti nella cultura contemporanea. A Noi preme interessare a questo tema l’attenzione dei Nostri visitatori, senza alcuna pretesa di darne una nozione organica e completa; Ci basta piuttosto di rilevare come sia difficile dir bene e dir tutto sulla Chiesa, tanto la sua realtà è feconda, e tanto è profonda la sua verità. Dicevamo infatti, in Udienze precedenti, che i molti nomi allegorici dati alla Chiesa, le molte figure che tentano di ritrarne il concetto, dimostrano, per un verso, la difficoltà di definirla in parole e in concetti adeguati; per un altro verso, la varietà, interessante e invitante a meditare e ad ammirare, dei suoi molteplici aspetti.

Prendiamone una di queste figure della Chiesa, fra le tante menzionate nella splendida Costituzione conciliare relativa alla Chiesa medesima; la figura della Città. La Chiesa è come una Città, una «civitas». E che cosa è una Città? Ancor prima d’essere un luogo abitato, un gruppo di case (urbs), la Città è l’unione di individui, di famiglie, di tribù, di gruppi umani, stretti fra loro per formare una società, resa omogenea e autonoma da leggi e da autorità proprie; è una comunità unita e governata da un diritto sociale distinto; una nazione, possiamo dire, se consideriamo i suoi elementi etnici, storici e linguistici; uno stato, se la consideriamo sotto l’aspetto giuridico. La Chiesa è appunto una società giuridica, organizzata, visibile, perfetta. Ricordiamo ancora la definizione classica di S. Roberto Bellarmino: la Chiesa «è l’assemblea degli uomini, che professano la medesima fede cristiana, tenuta insieme dalla comunione dei medesimi sacramenti, sotto la guida dei legittimi pastori e specialmente del romano Pontefice» (Controv. III; de Eccl. II). «Che la Chiesa abbia forma di società, è un fatto che cade sotto gli occhi di tutti; è infatti a tutti palese l’esistenza d’una moltitudine di cattolici fedeli, congregata (come dice fin dai primissimi tempi del cristianesimo la Didaché, XI, 5) dai quattro venti, soggetta ed obbediente alla guida d’un pastore supremo e di altri particolari rettori, munita di mezzi, sia spirituali che temporali, destinati a vantaggio della comunità, e rivolta al fine soprannaturale della visione beatifica» (Ottaviani, Compendium Iuris Eccl. p. 94; Rampolla, La Città sul Monte).

Così volle il Signore la sua Chiesa: una vera società organizzata, visibile, religiosa, con i poteri propri d’una società perfetta e sovrana, con leggi proprie, con autorità proprie, con mezzi e fine propri. È questa una verità fondamentale della dottrina cattolica, che ha le sue salde e chiare radici nel nuovo Testamento e la sua evidente realtà nella storia della Chiesa. Ma forse, proprio per questa inoppugnabile tradizionale manifestazione, è una delle verità più discusse e combattute nella grande controversia circa la vera natura della Chiesa. Chi la vorrebbe soltanto spirituale e perciò invisibile; questa sola sarebbe d’origine divina, non badando alla logica conseguenza che una Chiesa invisibile non è più affatto una Chiesa (cfr. Boyer, cit. da De Lubac Med.; p. 68). Già fin dal primo secolo del cristianesimo la santa e squillante voce del martire S. Ignazio d’Antiochia, facendo l’apologia dei gradi - vescovo, presbiteri, diaconi - della primitiva gerarchia ecclesiastica, risuona: «senza di questi non si può parlare di Chiesa» (Ad Trall. III, 1).

E c’è chi vorrebbe opporre la Chiesa giuridica alla Chiesa della carità, pensando essere possibile e non pensando essere contrario all’economia dell’Incarnazione isolare un aspetto costitutivo della Chiesa dall’altro, come già ci premunisce la famosa Enciclica sul Corpo mistico di Papa Pio XII (n. 62).

Certamente la concezione della Chiesa come una «civitas», come una società avente particolari forme, diritti, costumi, avente cioè una configurazione umana, concreta e storicamente identificata, pone molte questioni, primissima quella dei difetti, che una tale realizzazione della Chiesa può presentare; ma dobbiamo pensare che una tale concezione, cioè una tale società composta di uomini, quali noi siamo, deboli, peccatori, bisognosi di perdono e di redenzione, è sorta dalla bontà di Dio, dall’amore di Cristo per l’umanità, il Quale, così adunandola e organizzandola, la fa sua, la istruisce, la guida e la santifica; le comunica cioè, mediante la Chiesa, la sua redenzione, la sua salvezza.

E senza, per ora, considerare altre questioni inerenti al concetto giuridico della Chiesa, procuriamo di comprendere la grazia, che il Signore ci ha fatto d’essere cittadini di questa città benedetta, dove un’autorità munita di divini poteri ci dà la prova dell’inesauribile misericordia del Signore, ci dà la sicurezza della sua perenne azione santificatrice, ci dà lo stimolo continuo all’esercizio effettivo della fede e della carità, e ci promette che la Città stessa si trasformerà da terrena in celeste, che è e sarà cioè la Città di Dio; qui nel tempo, sulla terra, già santa nel suo disegno e nei suoi poteri, ma in via di purificazione e di santificazione nei suoi atti e nei suoi membri; ma che un giorno sarà radiosa e gloriosa, come la Gerusalemme santa, che Giovanni vide nell’Apocalisse, «avente in sé lo splendore di Dio» (21, 11).

E Dio voglia: con la Nostra Apostolica Benedizione.

                                                       



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