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SANTA MESSA IN «CENA DOMINI»

OMELIA DI PAOLO VI

Giovedì Santo, 8 aprile 1971

 

A questo punto il rito obbliga chi vi presiede a prendere la parola, a interrompere per brevi momenti l’onda trascinante dei canti e delle cerimonie, a rompere un silenzio, che, lasciato a sé, penseremmo incantevole. La grande memoria dell’ultima Cena del Signore, triste e soave insieme, ci domina tutti; il mistero eucaristico, con la suggestività della sua reale Presenza e della sua validità sacrificale, ci assorbe, ci incanta e finalmente ci fa contemplativi e adoratori. Lascio ciascuno di voi in cotesto atteggiamento spirituale, concentrato nel punto focale di questa celebrazione rievocatrice dell’istituzione del Santissimo Sacramento, e teso nello sforzo di rivedere la scena evangelica di quest’ultima Pasqua del Testamento antico e di quella prima Pasqua del Testamento nuovo, e di avvertire il riflesso che essa, quella scena, riverbera su questa, che ora tutti ci accoglie, quanti qui siamo, e su quante simili scene nella Chiesa si stanno celebrando.

UNA NECESSARIA MEDITAZIONE

E allora mi accorgo d’un fatto spirituale, sul quale richiamo la vostra attenzione; il fatto della coscienza che ciascuno di noi sente sorgere in se stesso al confronto del mistero eucaristico, attorno al quale siamo radunati. Ci sentiamo illuminati e riscaldati da quel fuoco centrale, ch’è Gesù, che si fa segno al tempo stesso di alimento che Egli vuol essere per la nostra vita cristiana, e di vittima per la nostra salvezza; e ci domandiamo qual è il nostro contegno, il nostro atteggiamento spirituale e pratico, quali convitati alla Cena del Signore, quali uomini di fronte al mistero di una sua così prodigiosa e viva e perenne presenza sacramentale e sacrificale. La meditazione non ci distrae, se, alla luce dell’obbiettivo attraente e irradiante, ch’è Cristo eucaristico, osserviamo, per un istante, il comportamento di coloro che lo circondano, cioè di coloro che ebbero la somma ventura d’essere commensali dell’ultima Cena di Gesù, e poi dei Fedeli che ne rinnovarono la celebrazione, e di noi stessi che qua raduna questa sera il Giovedì Santo.

Non è nuova considerazione. Già S. Paolo, primo teste storico della tradizione liturgica su questo tema, descrive e critica: «Quando voi vi radunate non è cotesto il modo di mangiare la cena del Signore» (1 Cor. 11, 20). E ancora prima, ne aveva parlato Gesu stesso, quando tra i discepoli appena messi a tavola era sorta una contesa di precedenza circa «chi di loro potesse passare per il più grande» (Luc. 22, 23); e quando Gesù, per dare loro una lezione di somma umiltà, volle lavare i piedi ai discepoli stessi, e Pietro protestò che ciò non doveva compiersi da Lui, Maestro e Signore; ma Cristo s’impose condizionando la partecipazione alla sua mensa all’accogliere, al comprendere, all’imitare il mistero di umiltà, la Kénosis (Cfr. Phil. 2, 7) che avvolge tutta la economia della divina rivelazione. Tutto il racconto della Cena può essere commentato, quasi a cornice di ciò che allora Gesù fece e disse, osservando il contegno della piccola comunità, cominciando dall’atmosfera d’intimità singolare, che vi regna almeno in alcuni momenti, quasi di affettuosa sentimentalità (Cfr. Luc. 22, 15), di profonda dolcezza (Io. 13, 34), poi di angoscioso stupore all’annuncio d’un incombente tradimento (Marc. 14, 18-19), e quindi di grande tristezza perché Gesù lascia capire imminente la sua fine terrena (Io. 14, 1; 16, 17; ecc.), e preannuncia le tribolazioni destinate ai seguaci fedeli (Io. 16, 20, ss.), e finalmente di mistica sospensione degli animi, quando Gesù si effonde in discorsi rivelatori dello Spirito Paraclito, animatore d’una nuova forma di vita interiore ed ecclesiale, tutta spirante amore, verità ed unità.

IL SACRAMENTO DELL’EMMANUEL: IDDIO CON NOI

Basterebbe saper respirare un po’ quell’atmosfera dell’ultima Cena, soave e dolorosa, profonda ed aperta, fortemente umana e squisitamente spirituale, per comprendere qualche cosa del mistero eucaristico e per sentirsi inebriati del surrealismo evangelico. Lo sanno i pii, i meditativi, i mistici; lo sanno gli adoratori dell’Eucaristia.

Per noi ora basta un corollario, che ciascuno può rimandare a future riflessioni: il culto eucaristico non si esaurisce nell’atto liturgico che lo genera; esso esige una comprensione, una riflessione, una spiritualità, che devono dare ad ogni fedele ed all’intera comunità il senso sacramentale dell’Emmanuel, del Dio con noi (Cfr. Is. 8, 10; Luc. 24, 29; Matth. 28, 20; Sacrosanctum Concilium, 10). In altri termini sarà ottimo frutto della celebrazione del Giovedì Santo un rinnovamento, un rifiorimento della pietà eucaristica, quale la teologia del «mistero della fede», l’avvertenza dell’istituzione simultanea del sacerdozio ministeriale, ch’esso comporta, e lo spirito della riforma liturgica conciliare reclamano oggi dal Popolo di Dio.

Forse i discepoli stessi, presenti alla Cena del Signore, furono un po’ come noi, non del tutto consapevoli di ciò ch’era avvenuto mediante le strane parole di Gesù: «Questo è il mio corpo», «Questo è il calice del mio Sangue». Ebbero anch’essi il bisogno di capire dopo. È sempre così con le rivelazioni divine per via di forme sensibili; esse richiedono un successivo ripensamento, una penetrazione approfondita (Cfr. Luc. 24, 31-32). E che questo dislivello fra ciò che Gesù fece e disse quella sera e la comprensione dei discepoli fosse notevole ce lo dimostrano gli atteggiamenti dei discepoli stessi, che stiamo osservando.

IL COMANDAMENTO NUOVO

Pietro per primo. Dicevamo del suo contegno ribelle dapprima, docile all’eccesso poi. Dopo la promulgazione del comandamento nuovo dell’amore scambievole (Io. 13, 34-35), egli si rifà curioso ad una parola precedente di Gesù: «Dove io vado, voi non potete venire» (Io. 13, 33), senza accennare - e dando così l’impressione di non coglierne l’enorme importanza - al grande precetto della carità, appena proclamato dal Divino Maestro. Infatti, l’interesse dell’Apostolo si esprime in questa domanda: «Signore, dove vai? quo vadis?» (Io. 13, 36). E poi quando Gesù, traboccante di tristezza, palesa il prossimo tradimento di uno dei commensali (Matth. 26, 21), e la fuga dei discepoli stessi, Pietro protesta con la sua impetuosa generosità, non badando all’ammonimento premonitore del Signore: «In verità ti dico: questa notte stessa, prima che il gallo abbia cantato due volte, tre volte tu mi avrai rinnegato» (Marc. 14, 30). Atroce episodio, che ferirà profondamente il cuore di Cristo (Luc. 22, 61), e che costerà a Pietro amarissime lacrime (Matth. 26, 75), e riparazione con triplice attestato d’amore (Io. 21, 15 ss.). Toccherà a chi vi parla per primo farne argomento di perenne meditazione, ed a tutti quanti, ministri e fedeli che si assidono alla mensa del Signore riflettere quanto la nostra fedeltà sia fragile e volubile, e quanto essa abbia sempre bisogno del carisma, che anche in quel momento drammatico Gesù misericordioso volle assicurare a Pietro medesimo; oh! ascoltate le parole potenti e dolcissime: «Simone, Simone! Ecco che Satana ha ottenuto il permesso di vagliarvi come si vaglia il grano. Ma io ho pregato per te (pensate! Gesù che prega per l’Apostolo scelto da lui come fondamento della sua Chiesa!) (Cfr. Matth. 16, 18); ho pregato per te, affinché la tua fede non venga meno, e tu, quando sarai convertito, conferma i tuoi fratelli» (Luc. 22, 31-32). È bello ascoltare queste parole, facenti parte del racconto dell’istituzione dell’Eucaristia, e ripensarle in questa sede e in questo momento!

Poi fra i personaggi dell’ultima Cena non possiamo dimenticare un altro protagonista. Giuda. Stringe il cuore vederlo assiso all’agape pasquale. E non possiamo soffocare la commozione rileggendo la narrazione evangelica, e vedendo come la presenza del traditore pesi sul cuore del Maestro, che «turbato nello spirito» (Io. 13, 21) non volle più contenere l’opprimente segreto: «In verità, in verità vi dico: uno di voi mi tradirà» (Ibid.). Sapete il resto; come avvenne discretamente la identificazione del traditore, e com’egli, scoperto, furtivamente lasciò il cenacolo: «Era notte», conclude l’Evangelista (Io. 13, 30). «E colui stesso che usciva era notte», commenta Sant’Agostino (In Io. Tract. 62; PL 35, 1803). Chi non sente un brivido nel cuore ascoltando il commento ancor più grave e terribile di Gesù: «Sarebbe stato meglio che quell’uomo non fosse mai nato!» (Marc. 14, 21).

SPECIALE IMPLORAZIONE A GESÙ: VIA, VERITÀ E VITA

Fratelli! io non posso pensare a questo tragico dramma pasquale, senza che anche nel mio spirito di Vescovo e di Pastore si associ la memoria dell’abbandono, della fuga di tanti Confratelli nel Sacerdozio dal nostro cenacolo di «dispensatori dei misteri di Dio» (1 Cor. 4, 1). Lo so, lo so; bisogna distinguere caso da caso, bisogna comprendere, bisogna compatire, bisogna perdonare, e forse bisogna riattendere, e sempre bisogna amare. E ricordare nell’amore angoscioso che anche questi confratelli, infelici o disertori che siano, sono segnati dall’indelebile impronta dello Spirito, che li qualifica Sacerdoti in eterno, qualunque sia la metamorfosi, che essi esteriormente e socialmente subiscono e molti da sé, per vili motivi terreni, reclamano. Ma come non avvertire, in quest’ora di comunione, i posti vacanti di questi un giorno nostri commensali? Come non piangere per la defezione cosciente di alcuni, come non deplorare la mediocrità morale che vorrebbe trovare naturale e logico infrangere una propria promessa, lungamente premeditata, solennemente professata davanti a Cristo e alla Chiesa? Come, questa sera, non pregare per questi fratelli fuggiaschi e per le comunità da loro lasciate e scandalizzate? Come non intensificare la nostra affettuosa invocazione per la nuova generazione di ministri, che nella nostra Chiesa latina, accettando il sacerdozio, compiono liberamente e coscientemente la propria generosa opzione per l’unico amore a Cristo, per l’unico servizio alla Chiesa, per l’unico e totale ministero ai fratelli, consumando così nella propria carne «ciò che ancora manca alle passioni di Cristo» (Cfr. Col. 1, 24), affinché il loro sacrificio d’amore valga come segno, come esempio, come merito all’efficacia della Redenzione nella nostra moderna età secolarizzata ed edonistica?

Sì, così pregheremo. E per completare il nostro ascolto lasceremo echeggiare poi le divine risposte agli altri interlocutori dell’ultima Cena, a Tommaso, a Filippo, a Taddeo, e agli Undici rimasti; e una fra tutte la risposta data a Tommaso, sempre positivo e concreto nelle sue questioni: «Signore, noi non sappiamo dove Tu vai; come dunque possiamo conoscere la via?». E Gesù gli risponde: «Io sono la via, la verità e la vita» (Io. 14, 5-6). La risposta, la grande risposta valga anche per tutti noi questa sera. E per sempre.

«UT SINT OMNES UNUM!»

E a voi ricordo infine l’impressione riassuntiva, che lo sguardo girato sulla comitiva intorno all’atto istitutivo dell’Eucaristia suscita negli animi; impressione che scopre una realtà prodottasi nel Cenacolo, l’unione degli Undici con Cristo, anzi l’unità, un’unità nuova e soprannaturale; essa è annunciata come fatto incipiente ed in fieri da Cristo stesso al termine dei discorsi incomparabili di quell’ultima sera: ut sint unum, che tutti siano uno! (Cfr. Io. 17, 22) L’Eucaristia, vista in chi vi partecipa, è comunione; comunione in Cristo, comunione con i Fratelli solidali nella medesima fede e nella medesima carità: è la Chiesa! la Chiesa è comunione.

E sono lieto di esprimere il voto, che vedo qui compiersi in questa celebrazione del Giovedì Santo: la vostra presenza si fa comunione! Io saluto e benedico questa comunione! saluto con questo sentimento di formare un Corpo solo noi tutti, che partecipiamo ad unico Pane (Cfr. 1 Cor. 10, 17), i membri del Sacro Collegio qui presenti e i Prelati della Curia Romana; saluto il Cardinale Vicario, Arciprete di questa Basilica col Clero che le appartiene, ed il Presbiterio Romano che a lui fa capo, con tutta la Popolazione di Roma; saluto il Signor Sindaco, il primo Magistrato dell’Urbe e le altre Personalità civili rappresentative, che sono intervenute a questo rito di armonia e di pace; saluto il Corpo Diplomatico ed i notabili della Città, le Associazioni Cattoliche e tutti i Fedeli presenti; ed il saluto augurale dell’unità si estende a tutta la santa Chiesa cattolica, dovunque essa celebra il Giovedì Santo; e arriva anche agli orizzonti ecumenici con amorosa speranza; a tutta la umanità, affinché possa essa trovare pace e concordia. Ut sint omnes unum: che tutti siano uno! Cristo è il principio e il centro della vera e superiore unità umana e della comunione soprannaturale che Noi questa sera benedicendo nel Suo nome qui celebriamo!

                                               



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