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ORDINAZIONE EPISCOPALE A DICIANNOVE PRESULI

OMELIA DI PAOLO VI

Domenica, 13 febbraio 1972

 

Venerabili Fratelli e diletti Figli,

Il rito liturgico si svolge in due momenti psicologici; uno muove il nostro animo ad esprimere i suoi sentimenti ed i suoi pensieri, e lo spinge alla preghiera che innalza a Dio le sue lodi o rivolge a Dio le proprie invocazioni; l’altro impone al nostro animo il silenzio e la quiete e lo dispone ad accogliere la voce interiore dello Spirito; il primo parla a Dio, il secondo lo ascolta. Questo secondo è ora per noi; interrompe preci e gesti di questa grande cerimonia, e ci vuole silenziosi e immobili; attivo il primo, passivo l’altro. Come il navigante arresta lo sforzo dei suoi remi, e lascia che il vento gonfi la sua vela e guidi la sua nave, così l’animo di ciascuno di noi si placa in un momento di riposo interiore e si concede al soffio del Paraclito per udirne il tacito, ma impellente linguaggio.

1. Noi ascoltiamo. Ascoltiamo dapprima la voce arcana delle cose mute, divenute eloquenti ad esprimere il loro significato spirituale. Ascoltiamo ciò che dice questo luogo famoso e pur sempre misterioso: è il «trofeo» d’un sepolcro; il sepolcro che conserva le reliquie dell’Apostolo Pietro. Siamo raccolti sulla tomba di colui che Cristo tramutò dall’umile e debole Simone, figlio di Jona, in Pietro, in fondamento sul quale Egli, Cristo, profetò di costruire un suo edificio indistruttibile, la «sua Chiesa».

Non parlano qui forse le cose che vediamo, che ci attorniano? Non hanno un loro eloquente discorso, pur nella muta materialità della loro presenza? Non ci sarebbe bisogno della nostra parola. Il discorso è qui: ripetiamo, basta ascoltare. Qui parla la Tomba di Pietro, che raccoglie le povere e trionfali spoglie del Pescatore di Galilea; qui parla il fatto che siamo riuniti insieme, membri dell’una santa cattolica e apostolica Chiesa, cementati, pur nella diversità della provenienza, della lingua, della mentalità, da questa fede che esprimiamo unanimi nel Credo. In tal modo, non acquista storica e quasi sensibile evidenza il sacramento della successione apostolica, che stiamo celebrando? Non sono i Vescovi i successori, non puramente giuridici, ma eredi in comunione sopravvivente di animazione e di ministero, degli Apostoli? ed il primo fra loro Simone Pietro non tiene forse lezione in questa Basilica a lui dedicata, se noi ricordiamo il vaticinio della prima lettera del medesimo apostolo Pietro (1 Petr. 2, 4-10), là dove appare che la sua qualifica non è che sacramento vicario della vera e prima pietra viva, Cristo stesso, supremo capostipite della mistica casa, dove ogni elemento sovrapposto diventa pure vivo, diventa stirpe eletta, regale sacerdozio, gente santa, guadagnata al disegno luminoso e misericordioso, donde è generato il Popolo di Dio? Non prendono significato organico ed armonioso la distinzione e la parentela del sacerdozio comune dei fedeli, componenti con noi il corpo mistico di Cristo, che è la Chiesa, rispetto al nostro sacerdozio ministeriale ed episcopale, nel quale è infusa in pienezza la potestà depositaria e comunicativa dei misteri di Dio?

L’economia della successione apostolica, gerarchica cioè e ministeriale, qui prende quasi evidenza storica e sensibile per tutti i presenti, ma imprime più fortemente nei nostri animi, di noi Vescovi, la coscienza del nostro essere sopraelevato alla vocazione apostolica, alla funzione di testimoni e di maestri della fede, alla missione di operatori della grazia, alla responsabilità tremenda ed amorosa di pastori. Lasciamoci penetrare da questo senso superiore dell’ordinazione, che stampa nella nostra persona il carattere sacerdotale di Cristo.

2. Ma ascoltiamo ancora quanto, come conseguenza logica e storica, spirituale e reale, scaturisce da questo fatto arcano e inconfutabile della successione apostolica; ciò che deve anche attrarre stamane il nostro spirito, è l’unione che ne risulta. La Chiesa, fondata sugli Apostoli, procede da un disegno eterno di Dio Padre, che, attraverso l’antica Alleanza, si è scelto il suo Popolo, erede delle promesse messianiche, e lo ha riunito mediante il sacrificio del suo unico Figlio, mediante il rito della nuova Alleanza. La successione apostolica e garanzia di quella unità, per la quale Cristo è morto e risorto (Io. 11, 52): i vescovi presiedono alle singole Chiese particolari e locali, le quali, pur essendo distanti nel tempo e nello spazio, non cessano di essere un solo e unico Popolo di Dio, come unico è Dio che le chiama e le santifica. Nella coscienza dell’universalità della Chiesa è radicata la coscienza della sua unità: «Un solo corpo e uno spirito solo, come una sola è la speranza a cui siete stati chiamati per la vostra vocazione. Un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo; un solo Dio e Padre di tutti, che, sopra tutti, opera in tutti ed è in tutti» (Eph. 4, 4-6). Questa consapevolezza ha retto la Chiesa nei secoli della sua storia: oltre ogni rottura, oltre ogni scisma. Chiesa universale e Chiese particolari: Successore di Pietro e Successori degli Apostoli: è il linguaggio vivo della storia, che noi oggi cogliamo qui, nella sua vivezza e autenticità, e tutti ci conforta e rasserena. Anche questa voce di unità vitale e organica ascoltiamo oggi, in questa pausa di meditazione, nella celebrazione dei divini misteri.

3. Ma ancora un’altra voce arcana ascoltiamo, che continua sul filo delle precedenti riflessioni. Ed è quella del carisma della potestà pastorale, conferito ai vescovi della Chiesa di Dio secondo la precisa volontà di Cristo e la disposizione dello Spirito Santo (Cfr. Act. 20, 28): posuit Spiritus Sanctus regere. Il carisma interiore ed esteriore del vescovo è quello dunque dell’essere chiamato alla testa di quella porzione del gregge che è a lui affidata, ed appartiene all’unica Chiesa: e si esplica nell’esercizio della triplice funzione pastorale: di magistero, di ministero e di guida. Non ci sfugge come, specialmente in questi tempi recenti, si sia preteso di opporre la Chiesa carismatica a quella gerarchica, quasi si trattasse di due organismi distinti, anzi, in sé contrastanti e opposti. Di fatto, qui, nella potestà pastorale, il carisma e l’autorità coincidono: abbiamo ricevuto lo Spirito Santo, che nella missione episcopale si manifesta così, in questa simbiosi simultanea di magisterium, assistito dal lume del Paraclito, di ministerium santificando mediante la sua grazia e di regimen, nella carità del servizio: sono questi facoltà del Vescovo e doni dello Spirito. È la voce di Paolo che ce lo ricorda e conferma: «Vi sono bensì vari carismi distinti, ma un medesimo è lo Spirito; e vi sono vari ministeri, ma un medesimo Signore; e varie operazioni, ma è il medesimo Dio che opera ogni cosa in tutti» (1 Cor. 12, 4-6). Dall’unico Dio-Trinità discende l’unica Chiesa, della quale i Vescovi hanno la prima responsabilità, con unicità di attribuzione carismatica e gerarchica. Non si negano certo i carismi particolari dei fedeli, tutt’altro; lo stesso passo della prima lettera ai Corinti li suppone e li riconosce, perché la Chiesa è un organismo vivo, animato dalla vita stessa, misteriosa e molteplice, imprevedibile e mobile, santificatrice e trasformatrice, di Dio; ma i carismi, concessi ai fedeli, come ancora sottolinea Paolo (1 Cor. 14, 26-33, 40), vanno soggetti a disciplina, che sola è assicurata dal carisma della potestà pastorale, nella carità.

Questa missione, che è stata conferita al corpo episcopale, ci obbliga a dare uno sguardo alla Chiesa e uno sguardo al mondo, al servizio del quale Dio ci ha posti: nella Chiesa siamo gli organi vivificanti della famiglia di Dio, chiamati a dare, come Cristo, nell’imitazione e nella sequela di Lui (Io. 15, 16), servizio e sacrificio nell’immolazione quotidiana per il gregge, assicurandogli al tempo stesso sicurezza, comunione, gaudio e tutti i doni dello Spirito (Cfr. Gal. 5, 22-23). Mirabile e tremenda e pur esaltante visione del nostro posto nella Chiesa, a cui dobbiamo assicurare la coesione, nell’obbedienza e nell’amore dei nostri carissimi figli! E, per poterlo fare, dobbiamo ricordare che siamo stati in certo qual modo segregati, prescelti: «segregatus in Evangelium Dei» (Rom. 1, 1).

Le esigenze del nostro ministero esigono un totale dono di sé e ci staccano da ogni vincolante o equivoco legame col mondo; ma al tempo stesso ci fanno pensare che siamo stati costituiti per il mondo, per la sua elevazione e santificazione, per la sua animazione e consacrazione. Guai al Pastore che dimenticasse anche l’unica pecorella, perché di tutte gli sarà chiesto conto: è la tradizione biblica, profetica ed evangelica, che ce lo ricorda con temibile severità. La carità di Cristo, che ci ha conferito il carisma della potestà pastorale, ce lo ha conferito per tutti gli uomini e, in modo particolare, per «coloro che in qualsiasi maniera si sono allontanati dalla vita della carità, oppure ignorano ancora il Vangelo e la sua misericordia salvifica» (Decr. Christus Dominus, 11).

Fratelli e Figli carissimi,

Queste le voci che, in questa basilica, presso la Tomba di Pietro, tra l’assemblea orante qui presente, risuonano oggi alle nostre orecchie, e che abbiamo cercato di captare, pur cogliendo solo qualche parte della ricchezza del messaggio che esse ci portano. Ma la meditazione continua. Per voi specialmente nuovi «fratres nostri apostoli ecclesiarum, gloria Christi» (2 Cor. 8, 23), affinché, per usare ancora le parole di S. Paolo, voi «sappiate come comportarvi nella casa di Dio, che è la Chiesa del Dio vivo, colonna e sostegno della verità» (Cfr. 1 Tim. 3 , 15). E l’impegno di fare tesoro di questa ora di grazia non si ferma qui. Ce lo auguriamo a vicenda. Nel proseguire la Messa, uniti al Cristo Sommo Sacerdote e Pastore, che tutti ci santifica e presenta al Padre nella rinnovazione dell’unico sacrificio redentore, chiederemo a Lui che ce ne dia l’intelligenza sempre più amorosa, e attenta, e completa. E, con l’intelligenza, ci dia la grazia per vivere in comunione col Popolo di Dio la nostra vocazione.

                               



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