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PIO XII

LETTERA ENCICLICA

SEMPITERNUS REX CHRISTUS(1)  

XV CENTENARIO
DEL CONCILIO ECUMENICO DI CALCEDONIA

 

L'eterno re Cristo, prima di promettere a Pietro, figlio di Giovanni, il governo della chiesa, avendo domandato ai discepoli che cosa pensassero di lui gli uomini e gli stessi apostoli, lodò con singolare encomio quella fede che doveva vincere gli assalti e le tempeste infernali, e che Pietro, illuminato dalla luce del Padre celeste, aveva espresso con queste parole: «Tu sei il Cristo Figlio del Dio vivente» (Mt 16,16). Questa fede, che produce i serti degli apostoli, le palme dei martiri, i gigli delle vergini, e che è virtù di Dio per la salvezza d'ogni credente (cf. Rm 1,16), è stata efficacemente difesa e splendidamente illustrata in modo particolare da tre concili ecumenici, quello di Nicea, quello di Efeso e quello di Calcedonia, di cui ricorre alla fine di quest'anno il XV centenario. È conveniente che questo lietissimo avvenimento sia celebrato così a Roma come in tutto il mondo cattolico con quelle solennità che, con soave commozione dell'animo, ordiniamo, dopo aver reso grazie a Dio, ispiratore d'ogni consiglio salutare.

Come infatti Pio XI, Nostro predecessore di f.m., nell'anno 1925 in quest'alma città volle solennemente commemorare sacro concilio di Nicea, e parimenti nell'anno 1931 rievocò

nell'enciclica Lux veritatis il sacro concilio di Efeso, così Noi in questa lettera, con uguale apprezzamento e premura, ricordiamo il concilio di Calcedonia; poiché i sinodi di Efeso e di Calcedonia, riguardando l'unione ipostatica del Verbo incarnato, sono tra loro indissolubilmente legati; l'uno e l'altro fin dall'antichità furono tenuti in sommo onore sia presso gli orientali, che ne fanno memoria anche nelle loro liturgie, sia presso gli occidentali, come attesta lo stesso san Gregorio Magno, il quale esaltandoli non meno dei due concili ecumenici celebrati nel secolo precedente, cioè il Niceno e il Costantinopolitano, scrisse queste memorande parole: «Su questi, come su di una pietra quadrata, si eleva l'edificio della santa fede, e chi non si appoggia alla loro solidità, qualunque sia la sua vita e la sua azione, anche se può sembrare una pietra, tuttavia giace fuori dell'edificio».(2)

Ma se si considerano attentamente questo avvenimento e le sue circostanze, due punti chiaramente emergono, che Noi vogliamo, quant'è possibile, mettere in luce: cioè il primato del romano pontefice, che rifulse manifestamente dalla gravissima controversia di fede cristologica, e la grandissima importanza della definizione dogmatica del concilio di Calcedonia. Al primato del pontefice romano rendano senza esitazione il debito omaggio riverente, seguendo l'esempio e le orme dei loro padri, coloro che, per la malvagità dei tempi, specialmente nei paesi orientali, sono separati dal seno e dall'unità della chiesa; questa dottrina, guardando all'interno del mistero di Cristo con più puro intuito della mente, accolgano finalmente intera quelli che sono irretiti negli errori di Nestorio e di Eutiche; e la stessa dottrina considerino con più profonda aderenza al vero coloro che, animati da esagerato desiderio di novità, osano scardinare in qualche modo i termini legittimi e inviolabili, quando scrutano il mistero con cui siamo stati redenti. Finalmente tutti coloro che portano il nome di cattolici prendano di qui un forte incitamento a coltivare col pensiero e con la parola la preziosissima perla evangelica, professando e conservando intemerata la fede, con l'aggiunta però di quel che vale di più la testimonianza cioè della propria vita, in cui, allontanato con l'aiuto della divina misericordia tutto ciò che sa di dissonante, di indegno e di riprovevole, risplenda la purezza delle virtù; e in tal modo avverrà che essi partecipino alla divinità di Colui che si è degnato farsi partecipe della nostra umanità.

 

I

Ma, per procedere con ordine, bisogna rifarsi all'origine dei fatti da commemorare. L'autore di tutta la controversia, che si agitò nel concilio di Calcedonia, fu Eutiche, sacerdote e archimandrita di un celebre monastero di Costantinopoli. Datosi a combattere a fondo l'eresia di Nestorio, che affermava due persone in Cristo, cadde nell'errore opposto.

«Molto imprudente e assai ignorante»,(3) con incredibile pertinacia faceva queste asserzioni: bisogna distinguere due momenti: prima dell'incarnazione le nature di Cristo erano due, cioè l'umana e la divina; ma dopo l'unione non vi fu che una sola natura, avendo il Verbo assorbito l'uomo; da Maria vergine ha avuto origine il corpo del Signore, che però non è della stessa sostanza e materia nostre, giacché esso è umano, ma non consostanziale a noi né a colei che ha partorito Cristo secondo la carne;(4) perciò Cristo non è nato né ha patito né è stato crocifisso né è risorto in una vera natura umana.

Ciò dicendo Eutiche non si accorgeva che prima dell'unione la natura umana di Cristo non esisteva affatto, perché cominciò a esistere dal momento della sua concezione; che dopo l'unione è

assurdo pensare che di due nature se ne faccia una sola, perché in nessun modo le due nature vere e reali si possono ridurre ad una, tanto più che la natura divina è infinita e immutabile.

Chi considera con sano giudizio tali opinioni, vede facilmente che tutto il mistero della divina economia svanisce in ombre vane e impalpabili.

Alle persone assennate l'opinione di Eutiche apparve evidentemente del tutto nuova, assurda, in assoluta contraddizione con gli oracoli dei profeti e i testi del Vangelo, come pure col Simbolo apostolico e col dogma di fede sancito a Nicea: un'opinione attinta alle fonti impure di Valentino e di Apollinare.

In un sinodo particolare, riunito a Costantinopoli e presieduto da san Flaviano vescovo della medesima città, Eutiche, che andava disseminando ostinatamente e largamente i suoi errori per i monasteri, su formale accusa di eresia del vescovo Eusebio di Dorileo, fu condannato. Ma Eutiche, come se la condanna fosse ingiusta per lui, che reprimeva la rinascente empietà di Nestorio, si appellò al giudizio di alcuni vescovi di grande autorità. Una siffatta lettera di protesta ricevette lo stesso san Leone Magno, pontefice della sede apostolica, le cui splendide e solide virtù, la vigile sollecitudine per la religione e per la pace, la strenua difesa della verità e della dignità della cattedra romana, l'abilità nel trattare gli affari, pari all'armoniosa eloquenza, riscuotono l'inesauribile ammirazione di tutti i secoli. Nessuno più di lui sembrava capace e idoneo a rintuzzare l'errore di Eutiche, perché nelle sue allocuzioni e nelle sue lettere con magnificenza pari alla pietà egli soleva esaltare e celebrare il mistero, mai abbastanza predicato, dell'unica persona e delle due nature in Cristo: «La chiesa cattolica vive e prospera di questa fede, per cui in Gesù Cristo non si crede né l'umanità senza la divinità né la divinità senza l'umanità».(5)

Ma l'archimandrita Eutiche, avendo poca fiducia nel patrocinio del romano pontefice, appigliandosi alle astuzie e agli inganni, per mezzo di Crisafio, al quale era legato da stretta amicizia e che era molto accetto all'imperatore Teodosio II, ottenne dallo stesso imperatore che la sua causa fosse riveduta e si riunisse ad Efeso un altro concilio, cui presiedesse Dioscoro, vescovo di Alessandria. Questi, intimo amico di Eutiche, ma avverso a Flaviano, vescovo di Costantinopoli, ingannato da falsa analogia di dogmi, andava dicendo che come Cirillo, suo predecessore, aveva difeso una sola persona in Cristo, così egli voleva difendere con tutte le forze una sola natura in Cristo dopo l'«unione». San Leone Magno, per motivo di pace, non ricusò di mandarvi i suoi legati, che portassero, insieme con altre due lettere - una al sinodo, l'altra a Flaviano, in cui gli errori eutichiani erano confutati con la chiarezza di una dottrina perfetta e copiosa.

Ma in questo sinodo Efesino, che Leone denominò giustamente latrocinio, arbitri Dioscoro ed Eutiche, tutto fu manipolato con violenza; fu negato ai legati apostolici il primo posto nel consesso; fu proibito di leggere le lettere del sommo pontefice, i voti dei vescovi furono estorti per via d'inganni e di minacce; insieme con altri Flaviano fu accusato di eresia, privato dell'ufficio pastorale e gettato in carcere, dove morì. E la temerità del furibondo Dioscoro arrivò a tal punto che (nefando delitto!) osò lanciare la scomunica alla suprema autorità apostolica. Appena Leone venne a sapere per mezzo del diacono Ilaro le malefatte del conciliabolo brigantesco, disapprovò tutto ciò che là si era fatto e decretato, ordinandone un nuovo esame, e ne soffrì acerbo dolore, alimentato dai frequenti appelli al suo giudizio da parte di molti vescovi deposti.

Degno di menzione è ciò che scrissero in quella circostanza Flaviano e Teodoreto di Ciro al supremo pastore della chiesa. Così si esprime Flaviano: «Volgendo, come per un partito preso, tutte le cose iniquamente a mio danno, dopo quell'ingiusta sentenza pronunziata contro di me [da Dioscoro], come a lui piacque, mentre io mi appellavo al trono dell'apostolica sede di Pietro, principe degli apostoli, e a tutto il beato sinodo soggetto a vostra santità, subito mi vidi circondato da molti soldati, che non mi permettevano di rifugiarmi presso il santo altare, ma cercavano di tirarmi fuori della chiesa».(6) E questo scrive Teodoreto: «Se Paolo, araldo della verità, si recò dal grande Pietro, molto più noi umili e piccoli ricorriamo alla vostra apostolica sede, per ottenere da voi rimedio alle piaghe delle chiese. Perché a voi spetta esercitare il primato su tutte. ... Io aspetto il giudizio della vostra apostolica sede. ... Anzitutto io prego di essere istruito da voi, se debba rassegnarmi a questa ingiusta deposizione oppure no; attendo la vostra sentenza».(7)

Per cancellare tanta macchia, Leone spinse con insistenti lettere Teodosio e Pulcheria a porre rimedio a così tristi condizioni di cose e perciò a radunare nei confini dell'Italia un nuovo concilio che riparasse le malefatte di quello Efesino. Un giorno ricevendo nella Basilica Vaticana Valentiniano III, la madre di lui Galla Placidia e la moglie Eudossia, circondato da una fitta corona di vescovi, con gemiti e pianto li indusse a provvedere immediatamente secondo le loro forze al crescente disagio della chiesa. Allora scrisse un imperatore all'altro; scrissero le stesse regine. Ma invano: Teodosio, circondato da astuzie e da inganni, non una riparò delle ingiustizie commesse. Ma quando l'imperatore inopinatamente morì, sua sorella Pulcheria assunse il governo e prese come marito, associandolo nell'impero, Marciano, ambedue stimati per pietà e saggezza. Allora Anatolio, che Dioscoro aveva messo arbitrariamente sulla cattedra di Flaviano, sottoscrisse la lettera di Leone a Flaviano intorno all'incarnazione del Verbo; la salma di Flaviano fu trasportata con grande pompa a Costantinopoli; i vescovi deposti furono restituiti alle loro sedi; unanime divenne la riprovazione dell'eresia eutichiana, sicché non si vedeva più la necessità di un nuovo concilio, tanto più che le condizioni dell'impero romano erano malsicure a causa delle invasioni barbariche.

Tuttavia il concilio si radunò e si celebrò per desiderio dell'imperatore e col consenso del sommo pontefice.

Calcedonia era una città della Bitinia, presso il Bosforo di

Tracia, di fronte a Costantinopoli, situata sull'opposta sponda. Quivi nell'ampia basilica suburbana di S. Eufemia vergine e martire, l'8 ottobre, partiti da Nicea, dov'erano già a tale scopo raccolti, si riunirono i Padri, in numero di circa seicento, tutti dei paesi orientali, eccetto due africani profughi dalla patria.

Collocato in mezzo il libro dei Vangeli, davanti ai cancelli del santo altare prendevano posto diciannove rappresentanti dell'imperatore e del senato. Il compito di legati pontifici fu affidato ai piissimi personaggi Pascasino, vescovo di Lilibeo in Sicilia, Lucenzio, vescovo di Ascoli, Bonifacio e Basilio sacerdoti, ai quali si aggiunse Giuliano, vescovo di Cos, per aiutarli con la sua diligente opera. I legati del romano pontefice occupavano il primo posto tra i vescovi; per primi sono nominati, per primi prendono la parola, per primi firmano gli atti e, in forza della loro autorità delegata, confermano o rigettano i voti degli altri, come avvenne apertamente nella condanna di Dioscoro che essi ratificarono con queste parole: «Il santissimo e beatissimo arcivescovo della grande e antica Roma, Leone, per mezzo di noi e di questo santo sinodo, insieme col beatissimo e degnissimo di lode Pietro apostolo, che è la pietra e la base della chiesa cattolica, e il fondamento della fede ortodossa, ha spogliato lui [Dioscoro] della dignità episcopale come anche lo ha rimosso da ogni ministero sacerdotale».(8)

Del resto, che non solo i legati pontifici abbiano esercitato l'autorità di presiedere, ma che il diritto e l'onore di presiedere sia stato anche riconosciuto loro da tutti i padri del concilio, senza alcuna opposizione, risulta chiaro dalla lettera sinodica inviata a Leone: «Tu in verità - essi scrivono - presiedevi come il capo alle membra dimostrando benevolenza in coloro che tenevano il tuo posto».(9)

Non vogliamo qui passare in rassegna i singoli atti del concilio, ma soltanto toccarne brevemente i principali, in quanti sono utili a porre in luce la verità e a giovare alla religione. Pertanto non possiamo, dal momento che si agita la questione della dignità della sede apostolica, passare sotto silenzio il canone 28 di quel concilio, nel quale si attribuiva il secondo posto di onore dopo la sede romana alla sede episcopale di Costantinopoli, come città imperiale. Sebbene nulla vi sia stato fatto contro il divino primato di giurisdizione, che da tutti era riconosciuto, tuttavia quel canone, compilato in assenza e contro la volontà dei legati pontifici, e perciò clandestino e surrettizio, è destituito di ogni valore giuridico e da san Leone fu riprovato e condannato in molte lettere. E del resto a tale sentenza di annullamento aderirono Marciano e Pulcheria, anzi lu stesso Anatolio, il quale, scusando la riprovevole audacia cli quell'atto; così scrisse a Leone: «Di quelle cose che nei giorni scorsi sono state decretate nel concilio universale di Calcedonìa a favore della sede costantinopolitana, sia certa vostra beatitudine che io non ho alcuna colpa ..., ma è il reverendissimo clero della chiesa costantinopolitana, che ha avuto questo desiderio ...; essendo state riservate all'autorità di vostra beatitudine tutta la validità e l'approvazione di tale atto».(10)

 

II

Ma veniamo ormai al cardine di tutta la questione, e cioè alla solenne definizione della fede cattolica, con cui fu rigettato e condannato il pernicioso errore di Eutiche. Nella quarta sessione dello stesso sacro sinodo, fu richiesto dai rappresentanti imperiali che si componesse una nuova formula di fede; ma il legato pontificio Pascasino, interpretando il voto di tutti, rispose che ciò non era affatto necessario, essendo sufficienti i Simboli di fede e i canoni già in uso nella chiesa, prima tra essi, nel caso presente, la lettera di Leone a Flaviano: «In terzo luogo poi (cioè dopo i Simboli Niceno e Costantinopolitano e la loro esposizione fatta da san Cirillo nel Concilio Efesino) gli scritti inviati dal beatissimo e apostolico Leone, papa della chiesa universale, contro l'eresia di Nestorio e di Eutiche, hanno già indicato quale sia la vera fede. Similmente anche il santo sinodo questa stessa fede tiene e segue».(11)

Giova qui ricordare che questa importantissima lettera di san Leone a Flaviano intorno all'incarnazione del Verbo fu letta nella terza sessione del concilio; e appena tacque la voce del lettore, tutti i presenti gridarono insieme unanimi: «Questa è la fede dei padri, questa è la fede degli apostoli. Tutti crediamo così, gli ortodossi credono così. Sia scomunicato chi non crede così. Pietro così ha parlato per bocca di Leone».(12)

Dopo questo, in pieno consenso tutti dissero che il documento del romano pontefice concordava perfettamente con i Simboli Niceno e Costantinopolitano. Nondimeno nella quinta sessione sinodale, su rinnovata richiesta dei rappresentanti di Marciano e del senato, fu preparata una nuova formula di fede da un consiglio scelto di vescovi di varie regioni, che si erano riuniti nell'oratorio della Basilica di Santa Eufemia; essa è composta di un prologo, del Simbolo Niceno e del Simbolo Costantinopolitano, allora promulgato per la prima volta, e della solenne condanna dell'errore eutichiano. Tale formula fu approvata dai padri del concilio con unanime consenso.

Crediamo ora di fare cosa degna, venerabili fratelli, se Ci fermiamo un poco a spiegare il documento del romano pontefice, che rivendica splendidamente la fede cattolica. Anzitutto contro Eutiche che andava dicendo: «Confesso che il Signore nostro era di due nature prima dell'unione; dopo l'unione invece confesso una sola natura»,(13) non senza sdegno così il santissimo pontefice contrappone la luce della folgorante verità: «Mi meraviglio che una sua formula così assurda e così perversa non sia stata riprovata da alcuna protesta dei giudici...; mentre è egualmente empio asserire nel Figlio unigenito di Dio due nature prima dell'incarnazione come ammettere in lui una sola natura dopo che il Verbo si è fatto carne».(14) Né con minore energia il papa colpisce Nestorio, che nell'errore va all'eccesso contrario: «In forza di quest'unità di persona da ammettersi nelle due nature, si legge che il Figlio dell'uomo è disceso dal cielo, quando il Figlio di Dio assume la carne dalla Vergine, dalla quale è nato. E ancora si dice che il Figlio di Dio è stato crocifisso e sepolto, mentre egli ha sofferto queste cose non nella divinità stessa, per la quale l'Unigenito è coeterno e consostanziale al Padre, ma nella sua debole natura umana. Sicché tutti professiamo anche nel Simbolo che l'unigenito Figlio di Dio è stato crocifisso e sepolto».(15)

Oltre la distinzione delle due nature in Cristo, vien qui rivendicata con molta chiarezza anche la distinzione delle proprietà e delle operazioni dell'una e dell'altra natura: «Salva dunque - egli dice - la proprietà dell'una e dell'altra natura, confluenti nell'unica persona, è stata assunta l'umiltà dalla maestà, la debolezza dalla forza, la mortalità dall'eternità».(16) E ancora: «L'una e l'altra natura conservano senza minorazione la loro proprietà».(17)

Ma la duplice serie di quelle proprietà e operazioni si attribuisce all'unica persona del Verbo, perché «Uno ... e il medesimo è veramente Figlio di Dio e veramente Figlio dell'uomo».(18) per cui: «Operano dunque l'una e l'altra natura con

mutua comunione ciò che loro è proprio, cioè il Verbo opera ciò che è proprio del Verbo e la carne esegue ciò che è proprio della carne».(19) Qui appare la ben nota comunicazione degli idiomi, come si suol dire, che Cirillo giustamente difese contro Nestorio, appoggiandosi al solito principio che le due nature di Cristo sussistono nell'unica persona del Verbo, del Verbo cioè generato dal Padre prima di tutti i secoli, secondo la divinità, è nato da Maria nel tempo, secondo l'umanità.

Questa profonda dottrina, attinta dal Vangelo, senza sconfessare ciò che era stato definito nel concilio Efesino, condanna Eutiche, mentre non risparmia Nestorio; e con essa concorda perfettamente la definizione dogmatica del concilio Calcedonese, la quale parimenti afferma con chiarezza ed energia due distinte nature e una persona in Cristo con queste parole: «Il santo, grande e universale sinodo condanna (quelli) che fantasticano di due nature del Signore prima dell'unione, e ne immaginano una dopo l'unione. Noi dunque, sulle orme dei santi padri, insegniamo in pieno accordo a confessare un solo e medesimo Figlio e Signore nostro Gesù Cristo; il medesimo perfetto nella divinità e perfetto nell'umanità, Dio vero e uomo vero, fatto di anima razionale e di corpo, consostanziale al Padre secondo la divinità, consostanziale a noi secondo l'umanità, simile a noi in tutto fuorché nel peccato; generato dal Padre prima dei secoli secondo la divinità, da Maria Vergine genitrice di Dio, secondo l'umanità, negli ultimi tempi, per noi e per la nostra salvezza; un solo e medesimo Cristo, Figlio, Signore, Unigenito da riconoscersi in due nature senza confusione, senza separazione, in nessun modo tolta la differenza delle nature per ragione dell'unione, e anzi salva la proprietà dell'una e dell'altra natura concorrenti in una sola persona e sussistenza: non in due persone scisso o diviso, ma un solo e medesimo Figlio e Unigenito Dio Verbo, Signore Gesù Cristo».(20)

Se si domanda per qual motivo il linguaggio del concilio di Calcedonia si distingua per chiarezza ed efficacia nell'impugnare l'errore, crediamo dipenda dal fatto che, messa da parte

ogni ambiguità, si adoperano termini molto appropriati. Difatti, nella definizione calcedonese, alle voci persona e ipostasi (prósôpon e ypóstasis) si attribuisce uguale significato; invece al termine natura (fýsis) si dà un senso diverso, né mai il significato di esso è attribuito ai due primi.

Pertanto a torto pensavano una volta nestoriani ed eutichiani e oggi vanno dicendo alcuni storici, che il concilio di Calcedonia ha corretto ciò che si era definito nel concilio di Efeso. L'uno completa l'altro; la sintesi poi armonica della dottrina cristologica fondamentale appare definitiva nel secondo e nel terzo concilio di Costantinopoli.

È veramente doloroso che alcuni antichi avversari del concilio Calcedonese, detti anch'essi monofisiti, abbiano respinto una fede così pura, così sincera e integra, a causa di alcune espressioni di antichi mal comprese. Difatti, sebbene essi fossero avversi ad Eutiche, che parlava assurdamente di mescolanza delle nature di Cristo, pure si attaccarono tenacemente alla nota formula: «Una è la natura del Verbo incarnata», di cui si era servito san Cirillo Alessandrino, come se fosse di sant'Atanasio, ma in senso ortodosso, perché egli intendeva la natura nel significato di persona. I padri di Calcedonia però avevano eliminato ogni equivoco e ogni incertezza da quei termini: giacché essi, equiparando la terminologia trinitaria a quella cristologica, identificarono la natura e l'essenza (ousía) da una parte e la persona e l'ipostasi dall'altra, distinguendo bene tra loro le due coppie di termini, mentre i suddetti dissidenti identificarono con la persona la natura, ma non l'essenza. Si deve perciò dire, secondo il linguaggio comune e chiaro, che in Dio c'è una natura e tre persone, ma in Cristo c'è una persona e due nature.

Per il motivo qui addotto accade che ancora oggi alcuni gruppi di dissidenti sparsi in Egitto, in Etiopia, in Siria, in Armenia e altrove, nel formulare la dottrina dell'incarnazione del Signore sembrano deviare dal retto sentiero piuttosto con le parole; il che si può arguire dai loro documenti liturgici e teologici.

Del resto già nel secolo XII, un uomo, che presso gli armeni godeva di grande autorità, confessava candidamente il suo

pensiero intorno a questa materia: «Noi diciamo che Cristo è una natura non per via di confusione, alla maniera di Eutiche, né di mutilazione, come voleva Apollinare, ma secondo la mente di Cirillo Alessandrino, il quale nel libro Scholia adversus Nestorium dice: Una è la natura del Verbo incarnato, come hanno insegnato i padri. ... E noi pure l'abbiamo appreso dalla tradizione dei santi, non introducendo nell'unione di Cristo confusione o mutazione o alterazione secondo il pensiero degli eterodossi, asserendo una natura, ma nel senso d'ipostasi, che voi stessi ponete in Cristo; il che è giusto e noi lo riconosciamo, ed equivale perfettamente alla nostra formula "Una natura...". Né ricusiamo di dire "due nature" purché non s'intenda per via di divisione come vuole Nestorio, ma si mantenga chiara l'inconfusione contro Eutiche e Apollinare».(21)

Se il gaudio e la santa letizia toccano l'apice quando si realizza la parola del salmo: «Ecco come è bello e giocondo che i fratelli si trovino insieme uniti» (Sal 132,1); se la gloria di Dio allora specialmente risplende congiunta all'utilità di tutti quando la piena verità e la piena carità legano insieme le pecorelle di Cristo, vedano coloro che con amore e dolore abbiamo qui sopra ricordato, se sia lecito e utile tenersi ancora lontano, specialmente per un iniziale equivoco di parole, dalla chiesa una e santa, fondata sugli zaffiri (cf. Is 54,11) cioè sui profeti e gli apostoli, sulla stessa pietra angolare somma, Gesù Cristo (cf. Ef 2,20).

È del tutto contraria anche alla definizione di fede del concilio di Calcedonia l'opinione, assai diffusa fuori del cattolicesimo, poggiata su un passo dell'epistola di Paolo apostolo ai Filippesi (Fil 2,7), malamente e arbitrariamente interpretato: la dottrina chiamata kenotica, secondo la quale in Cristo si ammette una limitazione della divinità del Verbo; un'invenzione veramente strana che, degna di riprovazione come l'opposto errore del docetismo, riduce tutto il mistero dell'incarnazione e redenzione a ombre evanescenti. «Nell'integra e perfetta natura di vero uomo così insegna eloquentemente Leone Magno, è nato il vero Dio, intero nelle sue proprietà, intero nelle nostre».(22)

Sebbene nulla vieti di scrutare più a fondo l'umanità di Cristo, anche sotto l'aspetto psicologico, tuttavia nell'arduo campo di tali studi non mancano coloro che abbandonano più del giusto le posizioni antiche per costruirne delle nuove, e si servono a torto dell'autorità e della definizione del concilio Calcedonese per sorreggere le proprie elucubrazioni.

Costoro spingono tanto innanzi lo stato e la condizione della natura umana di Cristo da sembrare che essa sia ritenuta un soggetto autonomo, come se non sussistesse nella persona dello stesso Verbo. Ma il concilio Calcedonese, in tutto concorde con quello Efesino, afferma chiaramente che le due nature del nostro Redentore convergono «in una sola persona e sussistenza» e proibisce di ammettere in Cristo due individui, di maniera che accanto al Verbo sia posto un certo «uomo assunto», dotato di piena autonomia.

San Leone, poi, non solo tiene la stessa dottrina, ma indica e dimostra anche la fonte da cui attinge questi puri principi: «Tutto ciò - egli dice - che da noi è stato scritto si prova che è stato preso dalla dottrina apostolica ed evangelica».(23)

Difatti la chiesa fin dai primi tempi, sia nei documenti scritti, sia nella predicazione, sia nelle preci liturgiche, professa in modo chiaro e preciso che l'unigenito Figlio di Dio, consostanziale al Padre, nostro Signore Gesù Cristo, Verbo incarnato è nato sulla terra, ha patito, è stato confitto in croce e, dopo essere risorto dal sepolcro, è asceso al cielo. Inoltre la sacra Scrittura attribuisce all'unico Cristo, Figlio di Dio, proprietà umane, e al medesimo, Figlio dell'Uomo, proprietà divine.

Difatti l'evangelista Giovanni dichiara: «Il Verbo si fece carne» (Gv 1, 14); Paolo poi scrive di lui: «Il quale, già sussistente nella natura di Dio ... si è umiliato, fatto obbediente fino alla morte» (Fil 2, 6-8); oppure: «Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il Figlio suo fatto da donna» (Gal 4, 4); e lo stesso divino Redentore afferma in modo perentorio: «Io e il Padre siamo una cosa sola» (Gv 10,30); e ancora: «Sono uscito dal Padre e son venuto nel mondo» (Gv 16, 28). L'origine celeste del nostro Redentore risplende anche in questo testo del Vangelo: «Son disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato» (Gv 6, 38). E

da quest'altro: «Colui che discende, è quello stesso che ascende sopra tutti i cieli» (Ef 4, 10). Affermazione che san Tommaso d'Aquino così commenta e illustra: «Chi discende è quegli stesso che ascende. Nel che è designata l'unità della persona del Dio uomo. Discende infatti ... il Figlio di Dio assumendo la natura umana, ma ascende il Figlio dell'uomo secondo l'umana natura alla sublimità della vita immortale. E così lo stesso è il Figlio di Dio, che discende, e il Figlio dell'uomo che ascende».(24)

Questo stesso concetto già l'aveva felicemente espresso il Nostro predecessore Leone Magno con queste parole: «Poiché alla giustificazione degli uomini questo principalmente contribuisce, che l'Unigenito di Dio si è degnato di essere anche il Figlio dell'uomo in maniera che quello stesso che è Dio, homooúsios al Padre, ossia della stessa sostanza del Padre, fosse anche vero uomo e consostanziale alla Madre secondo la carne; noi godiamo dell'uno e dell'altro giacché non ci salviamo che in virtù di ambedue, non dividendo affatto il visibile dall'invisibile, il corporeo dall'incorporeo, il passibile dall'impassibile, il palpabile dall'impalpabile, la forma del servo dalla forma di Dio; perché, sebbene uno sussista fin dall'eternità e l'altro sia cominciato nel tempo, tuttavia, essendo convenuti nell'unione, non possono più avere né separazione né fine».(25)

Solo dunque se con santa e pura fede si crede che in Cristo non c'è altra persona che quella del Verbo, in cui confluiscono le due nature, l'umana e la divina, del tutto distinte fra di loro, diverse per proprietà e operazioni, appaiono la magnificenza e la pietà della nostra redenzione, mai abbastanza esaltata.

O sublimità della misericordia e della giustizia divina, che portò soccorso ai colpevoli e si procurò dei figli! O cieli curvati in basso affinché, allontanate le brume invernali, apparissero i fiori sulla nostra terra (cf. Ct 2, 11s) e noi diventassimo uomini nuovi, nuova creatura, nuova fattura, gente santa e prole celeste! Il Verbo ha veramente patito nella sua carne, ha sparso il suo sangue sulla croce e all'eterno Padre ha pagato un sovrabbondante prezzo di soddisfazione per le nostre colpe; onde avviene che risplende sicura la speranza di salvezza a coloro che con fede sincera e con carità operosa aderiscono a Cristo e, con l'aiuto della grazia da lui procurata, producono frutti di giustizia.


III

L'evocazione di fasti così gloriosi e così insigni della chiesa, di natura sua fa sì che Noi con amore più vivo rivolgiamo il pensiero agli orientali. Infatti il sacrosanto concilio ecumenico di Calcedonia è soprattutto un loro monumento glorioso, che certamente durerà per tutti i secoli: giacché là, sotto la guida della sede apostolica, da un'assemblea di circa seicento vescovi orientali la dottrina dell'unità di Cristo, per cui le due nature, divina e umana, concorrono distintamente e senza confusione in una sola persona, essendo stata adulterata con empia audacia, fu tempestivamente difesa e mirabilmente dichiarata. Ma purtroppo molti nei paesi orientali si sono miseramente allontanati per una lunga serie di secoli dall'unità del corpo mistico di Cristo, di cui l'unione ipostatica è fulgido esemplare. Non è forse cosa santa, salutare e conforme alla volontà di Dio che tutti finalmente ritornino all'unico ovile di Cristo?

Per quanto spetta a Noi, vogliamo che essi sappiano bene che i nostri pensieri sono di pace e non di afflizione (cf. Ger 29, 11). Peraltro è ben noto che questa disposizione d'animo Noi l'abbiamo dimostrata anche coi fatti e se, per necessità di cose, Ci gloriamo in questo, Ci gloriamo nel Signore, il quale è il datore d'ogni buona volontà. Seguendo dunque le orme dei Nostri predecessori, Ci siamo adoperati assiduamente perché sia facilitato agli orientali il ritorno alla chiesa cattolica: abbiamo difeso i loro legittimi riti, promosso gli studi che li riguardano, promulgato per loro provvide leggi, circondato di cura particolare la Congregazione per la chiesa orientale istituita nella curia romana; abbiamo insignito dello splendore della porpora romana il patriarca degli armeni.

Mentre infieriva la recente guerra con la sequela di miseria, di fame e di malattie, Noi, senza distinzione tra dissidenti e coloro che sogliono chiamarci Padre, Ci siamo adoperati ad alleviare dappertutto il peso delle sciagure: Ci siamo sforzati di aiutare le vedove, i fanciulli, i vecchi, i malati e saremmo stati più felici se avessimo potuto adeguare i mezzi ai desideri. A questa sede apostolica dunque, per cui il presiedere è giovare, a quest'incrollabile rupe di verità piantata da Dio, quelli che per calamità di tempi si sono da essa separati - guardando e imitando Flaviano, nuovo Giovanni Crisostomo nel sopportare le prove più dure per la giustizia, i padri calcedonesi, eletti membri del corpo mistico di Cristo, il forte Marciano, mite e saggio principe, Pulcheria, giglio fulgido di regale e intemerata bellezza - non tardino a rendere il dovuto omaggio: Noi prevediamo quale ricca fonte di beni a comune vantaggio dell'orbe cristiano scaturirà da questo ritorno all'unità della chiesa.

Certo non ignoriamo quale cumulo inveterato di pregiudizi impedisca tenacemente che si realizzi la preghiera innalzata da Cristo all'eterno Padre per i seguaci dell'evangelo, nell'ultima cena: «Che tutti siano una cosa sola» (Gv 17, 21). Ma conosciamo anche che la forza della preghiera è così grande, se gli oranti, in compatta schiera, ardono di sicura fede in una coscienza pura, che si può spostare perfino una montagna e precipitarla nel mare (cf. Mc 11, 23). Desideriamo dunque ardentemente che tutti coloro cui sta a cuore il caldo richiamo ad abbracciare l'unità cristiana (e nessuno che appartenga a Cristo può far poco conto di una cosa così grave), innalzino preci e suppliche a Dio, autore e fonte di ordine, unità e bellezza, affinché i voti lodevoli degli uomini migliori si realizzino quanto prima. A spianare certamente il cammino per cui si deve raggiungere tale meta, vale l'indagine senza ira e passione con cui, oggi più che nel passato, sogliono ricostruirsi e vagliarsi i fatti antichi.

Ma c'è un altro motivo che con grande urgenza esige che le schiere denominate cristiane quanto prima si uniscano e combattano sotto un solo vessillo contro i tempestosi assalti del nemico infernale. Chi non ha orrore dell'odio e della ferocia con cui i nemici di Dio, in molti paesi del mondo, minacciano di distruggere o cercano di sradicare tutto ciò che c'è di divino e di cristiano? Contro le associate schiere di costoro, non possono continuare, divisi e dispersi, a perder tempo tutti quelli che, segnati dal carattere battesimale, sono destinati per dovere alla buona battaglia di Cristo.

I ceppi, le sofferenze, i tormenti, i gemiti, il sangue di coloro che, noti o ignoti, moltitudine senza numero, in questi ultimi tempi e ancora oggi, per la costanza della virtù e la professione della fede cristiana hanno sofferto e soffrono, con voce sempre più alta eccitano tutti ad abbracciare questa santa unità della chiesa.

La speranza del ritorno dei fratelli e dei figli già da lungo tempo separati da questa sede apostolica è rafforzata dalla croce inasprita e insanguinata dalle sofferenze di tanti altri fratelli e figli: nessuno impedisca o trascuri l'opera salutare di Dio! Ai benefici e al gaudio di questa unità, con paterna esortazione, invitiamo e richiamiamo anche coloro che seguono gli errori nestoriani e monofisitici. Si persuadano essi che Noi reputiamo come una fulgidissima gemma della corona del Nostro apostolato, se Ci sia dato di poter abbracciare con amore e onore coloro che sono tanto più cari a Noi, quanto più il loro lungo distacco Ce ne ha acuito il desiderio.

Finalmente è Nostro voto che, quando per la vostra sollecita opera, venerabili fratelli, sarà celebrata la commemorazione del sacrosanto concilio Calcedonese, tutti ne traggano impulso ad aderire con solidissima fede a Cristo nostro redentore e re. Nessuno, allettato dalle aberrazioni dell'umana filosofia e ingannato dalle tortuosità del linguaggio umano, osi scuotere col dubbio o pervertire con nocive innovazioni il dogma definito a Calcedonia, che cioè in Cristo ci sono due vere e perfette nature, una divina e l'altra umana, congiunte insieme ma non confuse, e sussistenti nell'unica persona del Verbo. Anzi, uniti strettamente con l'Autore della nostra salvezza, che è «Via di santi costumi, Verità di divina dottrina e Vita di eterna beatitudine»,(26) tutti riamino in lui la propria natura restaurata, onorino la libertà redenta e, rigettata la stoltezza del mondo vecchio, passino con piena letizia alla sapienza dell'infanzia spirituale, che non conosce vecchiezza.

Accolga questi ardentissimi voti Dio uno e trino, la cui natura è bontà e la volontà è potenza, per intercessione della vergine Maria Madre di Dio, dei santi apostoli Pietro e Paolo, di Eufemia vergine calcedonese e martire trionfatrice. E voi, venerabili fratelli, unite per questo le vostre alle Nostre preghiere e fate che quanto vi abbiamo scritto venga a conoscenza di

quanti più è possibile. Grati fin d'ora di questo aiuto, a voi e a tutti i sacerdoti e i fedeli affidati alla vostra cura pastorale, impartiamo di gran cuore l'apostolica benedizione, nel cui auspicio possiate sottomettervi più volentieri al giogo leggero e soave di Cristo re ed essere sempre più simili nell'umiltà a Colui del quale volete partecipare la gloria.

Roma, presso San Pietro, l'8 settembre, festa della natività di Maria vergine, nell'anno 1951, XIII del Nostro pontificato.

 

PIO PP. XII


(1) PIUS PP. XII, Litt. enc. Sempiternus Rex de oecumenica Chalcedonensi Synodo quindecim abhinc saeculis celebrata, [Ad venerabiles Fratres Patriarchas, Primates, Archiepiscopos, Episcopos aliosque locorum Ordinarios, pacem et communionem cum Apostolica Sede habentes], 8 septembris 1951: AAS 43 (1951), pp. 625-644.

Celebrazioni del XV centenario del concilio di Calcedonia. Premesse dottrinali e storiche di quel concilio (8 ottobre -1 ° nov. 451). Le prime vicende dell'eresia di Nestonio e di Eutiche. Il «latrocinio» di Efeso. Ricorso di Flaviano e di altri vescovi alla sede apostolica di Roma e intervento di papa Leone. Il concilio: definizione delle due nature nell'unica persona del Verbo e primato della sede apostolica di Roma. «Pietro ha parlato per bocca di Leone». Chiarezza e precisione di termini nella definizione di Calcedonia. Alcune moderne deviazioni. Dottrina evangelica e apostolica. Appello ai fratelli separati perché tornino all'unico gregge; unità contro i nemici di Dio e di Cristo; comunanza di martirio e di sangue.

(2) Registrum Epistularum, I, 25 (al. 24): PL 77, 478; ed. EWALD, I, 36.

(3) S. LEO M., Ep. 28 (Ad Flavianum), 1: PL 54, 755s. 

(4) Cf. FLAVIANUS, Ep. 26 (Ad Leonem M.): PL 54, 745.

(5) S. LEO M., Ep. 28, 5: PL 54, 777.

(6) SCHWARTZ, Acta Conciliorum Oecumenicorum, II, vol. II, pars 1. p 78.

(7) THEODORETUS, Ep. 52 (Ad Leonem M.), 1.5.6: PL 54, 847 et 851; cf. PG 83, 1311s et 1315s.

(8) MANSI, Conciliorum amplissima collectio, VI, 1047 (Act. III); SCHWARTZ, II, vol. I, pars altera, p. 29 [225] (Act. II).

(9) SYNODUS CHALCEDONENSIS, Ep. 98 (Ad Leonem M.), 1: PL 54, 951; MANSI, VI, 147.

(10) ANATOLIUS, Ep. 132 (Ad Leonem M.), 4: PL 54, 1084 MANSI, VI, 278s.

(11) MANSI, VII, 10.

(12) SCHWARTZ, II, vol. I, pars altera, p. 81 [277] (Act; III); MANSI, VI, 971 (Act. II).

(13) S. LEO M., Ep. 28, 6: PL 54, 777. 

(14) Ibid.

(15) S. LEO M., Ep. 28, 5: PL 54, 771; cf. S. AUGUSTINUS, Contra sermonem Arianorum, c. 8: PL 42, 688.

(16) S. LEO M., Ep. 28, 3: PL 54, 763; cf. S. LEO M., Serm. 21, 2: PL 54,192. 

(17) S. LEO M., Ep. 28, 3: PL 54, 765; cf. Serm. 23, 2: PL 54, 201:

(18) S. LEO M., Ep. 28, 4: PL 54, 767.

(19) Ibid.

(20) MANSI, VII, 114 et 115.

(21) Ita NERSES IV ( 1173) in Libello confessionis fidei, ad Manuelem Com nenum imperatorem byzantinum: I. CAPPELLETTI, S. Narsetis Claiensis, Armeno rum Catholici, opera, I, Venetiis 1833, pp. 182-183.

(22) S. LEO M., Ep. 28, 3: PL 54, 763; cf. Serm. 23, 2: PL 54, 201.

(23) S. LEO M., Ep. 152: PL 54, 1123.

(24) S. THOMAS AQ., Comm. in Ep. ad Ephesios, c. IV, lect. III, circa finem. 

(25) S. LEO M., Serm. 30, 6: PL 54, 233s.

(26) S. LEO M., Serm. 72, 1: PL 54, 390.




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