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PONTIFICIA COMMISSIONE BIBLICA

BIBBIA E MORALE

RADICI BIBLICHE DELL’AGIRE CRISTIANO

 

Prefazione

Introduzione

0.1. Un mondo che cerca risposte
0.2. I nostri obiettivi
0.3. Linee di fondo per comprendere l'orientamento del documento

0.3.1. Il concetto chiave: “morale rivelata”
0.3.2. L'unità dei due Testamenti

0.4. I destinatari del documento

PRIMA PARTE - UNA MORALE RIVELATA: DONO DIVINO E RISPOSTA UMANA

1. Il dono della creazione e le sue implicazioni morali.

1.1. Il dono della creazione.

1.1.1. All'inizio della Genesi.
1.1.2. In alcuni Salmi.
1.1.3. Dati fondamentali dell'esistenza umana.

1.2. L'uomo creato come immagine di Dio e la sua responsabilità morale

1.2.1. Secondo i racconti della creazione.
1.2.2. Secondo i Salmi.
1.2.3. Conclusione: sulle tracce di Gesù.

2. Il dono dell'alleanza nell'Antico Testamento e le norme per l'agire umano.

2.1. La progressiva percezione dell'alleanza (approccio storico).

2.1.1. Una prima esperienza fondamentale e fondatrice: un cammino comune verso la libertà
2.1.2. Una prima intuizione d'interpretazione teologica.
2.1.3. Un concetto teologico originale che esprime l'intuizione: l'alleanza

2.2. Le diverse espressioni dell'alleanza (approccio canonico).

2.2.1. L'alleanza con Noè e con "ogni carne".
2.2.2. L'alleanza con Abramo
2.2.3. L'alleanza con Mosè e il popolo d'Israele.

2.2.3.1. Il Decalogo.
2.2.3.2. I codici legislativi.
2.2.3.3. L'insegnamento morale dei Profeti.

2.2.4. L'alleanza con Davide.
2.2.5. La "nuova alleanza" secondo Geremia.
2.2.6. L'insegnamento morale dei sapienti.

3. La nuova alleanza in Gesù Cristo come ultimo dono di Dio e le sue implicazioni morali.

3.1. La venuta del Regno di Dio e le sue implicazioni morali.

3.1.1. Il Regno di Dio: tema principale della predicazione di Gesù nei sinottici.
3.1.2. L'annuncio del regno di Dio e le sue implicazioni morali.

3.2. Il dono del Figlio e le sue implicazioni morali, secondo Giovanni.

3.2.1. Il dono del Figlio, espressione dell'amore salvatore di Dio.
3.2.2. Il comportamento del Figlio e le sue implicazioni morali.

3.3. Il dono del Figlio e le sue implicazioni morali, secondo le epistole paoline e altre.

3.3.1. Il dono di Dio secondo Paolo
3.3.2. L'insegnamento morale di Paolo.
3.3.3. La sequela di Cristo secondo le lettere di Giacomo e Pietro.

3.4. La nuova alleanza e le sue implicazioni morali, secondo la lettera agli Ebrei.

3.4.1. Cristo mediatore della nuova alleanza.
3.4.2. Le esigenze del dono della nuova alleanza.

3.5. Alleanza e impegno dei cristiani: la prospettiva dell'Apocalisse.

3.5.1. Un'alleanza che si muove nella storia.
3.5.2. L'impegno dei cristiani.

3.6. L'eucaristia, sintesi della nuova alleanza.

3.6.1. Il dono dell'eucaristia.
3.6.2. Le implicazioni comunitarie dell'eucaristia.

4. Dal dono al perdono.

4.1. Il perdono di Dio secondo l'Antico Testamento.
4.2. Il perdono di Dio secondo il Nuovo Testamento

5. La meta escatologica, orizzonte ispirativo dell'agire morale.

5.1. Il regno realizzato e Dio tutto in tutti: il messaggio di Paolo
5.2. Il punto di arrivo dell'Apocalisse: la reciprocità con Cristo e con Dio.
5.3. Conclusione.

SECONDA PARTE - ALCUNI CRITERI BIBLICI PER LA RIFLESSIONE MORALE

Introduzione

1. Criteri fondamentali.

1.1. Primo criterio fondamentale: Conformità alla visione biblica dell'essere umano.

1.1.1. Spiegazione
1.1.2. Dati biblici.
1.1.3. Orientamenti per l'oggi.

1.2. Secondo criterio fondamentale : Conformità all'esempio di Gesù.

1.2.1. Spiegazione del criterio
1.2.2. Dati biblici.
1.2.3. Orientamenti per l'oggi.

1.3. Conclusione sui criteri fondamentali.

2. Criteri specifici

2.1. Primo criterio specifico: La convergenza.

2.1.1. Dati biblici.
2.1.2. Orientamenti per l'oggi

2.2. Secondo criterio specifico: La contrapposizione.

2.2.1. Dati biblici.
2.2.2. Orientamenti per l'oggi.

2.3. Terzo criterio specifico: La progressione.

2.3.1. Dati biblici.
2.3.2. Orientamenti per l'oggi.

2.4. Quarto criterio specifico: La dimensione comunitaria.

2.4.1. Dati biblici.
2.4.2. Orientamenti per l'oggi

2.5. Quinto criterio specifico: La finalità.

2.5.1. Dati biblici.
2.5.2. Orientamenti per l'oggi

2.6. Sesto criterio specifico : Il discernimento.

2.6.1. Dati biblici.
2.6.2. Orientamenti per l'oggi.

CONCLUSIONE GENERALE

1. Elementi di originalità.
2. Prospettive per l'avvenire.


       

PONTIFICIA COMMISSIONE BIBLICA

BIBBIA E MORALE

RADICI BIBLICHE DELL’AGIRE CRISTIANO

Esodo 20,2-17

 

Io sono il SIGNORE, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d`Egitto, dalla condizione di schiavitù: non avrai altri dei di fronte a me. Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io, il SIGNORE, sono il tuo Dio, un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra il suo favore fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandi.

Non pronuncerai invano il nome del SIGNORE, tuo Dio, perché il SIGNORE non lascerà impunito chi pronuncia il suo nome invano.

Ricordati del giorno di sabato per santificarlo: sei giorni faticherai e farai ogni tuo lavoro; ma il settimo giorno è il sabato in onore del SIGNORE, tuo Dio: tu non farai alcun lavoro, né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te. Perché in sei giorni il SIGNORE ha fatto il cielo e la terra e il mare e quanto è in essi, ma si è riposato il giorno settimo. Perciò il SIGNORE ha benedetto il giorno di sabato e lo ha dichiarato sacro.

Onora tuo padre e tua madre, perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che ti dá il SIGNORE, tuo Dio.

Non uccidere.

Non commettere adulterio.

Non rubare.

Non pronunciare falsa testimonianza contro il tuo prossimo.

Non desiderare la casa del tuo prossimo.

Non desiderare la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo.

Matteo 5,3-12

 

Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli.

Beati gli afflitti, perché saranno consolati.
Beati i miti, perché erediteranno la terra.
Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati.

Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia.

Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio.

Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio.

Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.

Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti hanno perseguitato i profeti prima di voi.

PREFAZIONE

 

L'anelito di felicità, ossia il desiderio di ottenere una vita pienamente appagante, è da sempre profondamente radicato nel cuore umano. La realizzazione di questo desiderio dipende in gran parte dal proprio agire che si incontra e, spesso, si scontra con quello degli altri. Come è possibile riuscire a determinare il giusto agire che conduce le singole persone, le comunità, le nazioni intere verso una vita riuscita o, in altre parole, verso la felicità?

Per i cristiani la Sacra Scrittura non è soltanto la fonte della rivelazione, la base della fede, ma anche l'imprescindibile punto di riferimento della morale. I cristiani sono convinti che, nella Bibbia, si possano trovare indicazioni e norme per agire rettamente e per raggiungere la vita piena.

A questa convinzione si oppongono diverse obiezioni. Una prima difficoltà è il rifiuto di norme, obblighi e comandamenti, istintivo nella persona umana e oggi particolarmente vivo. Nella odierna società si presentano come ugualmente forti il desiderio di una piena felicità e il desiderio di una illimitata libertà, ossia di poter agire secondo il proprio arbitrio, svincolati da ogni norma. Per alcuni questa illimitata libertà è addirittura essenziale per raggiungere la piena e vera felicità. Secondo questa mentalità, la dignità della persona umana esigerebbe che essa non debba accettare alcuna norma che le venga imposta dall'esterno, ma che sia essa stessa a determinare liberamente e autonomamente ciò che ritiene giusto e valido. Di conseguen­za, il complesso normativo presente nella Bibbia, lo sviluppo della Tradizione e il Magistero della Chiesa che interpreta e concretizza queste norme, appaiono come ostacoli che si oppongono alla felicità e dai quali è necessario liberarsi.

Una seconda difficoltà è dovuta alla stessa Sacra Scrittura: gli scritti biblici sono stati redatti almeno mille e novecento anni fa; appartengono, dunque, a epoche lontane in cui le condizioni di vita erano molto diverse da quelle di oggi. Moltissime situazioni e problemi attuali sono completamen­te ignorati negli scritti biblici e, pertanto, si ritiene che non si possono trovare in essi risposte appropriate a questi problemi. Di conseguenza, anche quando si riconosce il valore fondamentale della Bibbia come testo ispirato e normativo, in alcuni permane un atteggiamento fortemente scettico poiché si ritiene che la Bibbia non possa servire per trovare le soluzioni ai tanti problemi odierni. L'uomo d'oggi è messo a confronto ogni giorno con problemi morali delicati che lo sviluppo delle scienze umane e la globalizzazione rimettono costantemente sul tappeto, al punto che anche credenti convinti hanno l'impressione che alcune certezze di una volta siano annullate. Si pensi solo ai temi della violenza, del terrorismo, della guerra, dell'immigrazione, della condivisione delle ricchezze, del rispetto delle risorse naturali, della vita, del lavoro, della sessualità, delle ricerche in campo genetico, della famiglia o della vita comunitaria. Di fronte a questa complessa problematica si è tentati di marginalizzare, in tutto o in parte, la Sacra Scrittura. Anche in questo caso, benché con motivazione diversa, si prescinde più o meno dal testo sacro e si cercano con altri mezzi soluzioni per i grandi e urgenti problemi di oggi.

La Pontificia Commissione Biblica già nel 2002, per incarico dell'allora Presidente Card. Joseph Ratzinger, ha voluto perciò affrontare il rapporto Bibbia e morale, ponendosi di fronte alla seguente domanda: qual è il valore e il significato del testo ispirato per la morale nel nostro tempo, nel quale non si possono trascurare le summenzionate difficoltà?

Nella Bibbia si trovano molte norme, comandamenti, leggi, raccolte di codici, ecc. Una attenta lettura fa rilevare, però, che tali norme non sono mai isolate, a sé stanti, bensì appartengono sempre a un determinato contesto. Si può dire che nell'antropologia biblica ciò che è primario e fondamentale è l'agire di Dio, che previene quello dell'uomo, i suoi doni di grazia, il suo invito alla comunione: il complesso normativo è una conseguenza per indicare all'uomo quale sia il modo adeguato di accogliere il dono di Dio e di viverlo. Alla base di questa concezione biblica c'è la visione della persona umana così come è stata creata da Dio: essa non è mai un essere isolato, autonomo, svincolato da tutto e da tutti, ma si trova in un rapporto radicale e essenziale con Dio e con la comunità dei fratelli. Dio ha creato l'uomo secondo la propria immagine: la stessa esistenza dell'uomo è il primo e fondamentale dono che egli ha ricevuto da Dio. Nella prospettiva biblica un discorso sulle norme morali non può essere ristretto ad esse, prese in maniera isolata, ma deve essere sempre inserito nel contesto della visione biblica dell'esistenza umana.

La prima parte del documento si propone di presentare questa caratteristica concezione biblica nella quale antropologia e teologia si compenetrano a vicenda. Seguendo l'ordine canonico della Bibbia, la persona umana dapprima appare come creatura a cui Dio ha donato la stessa vita, poi come membro del popolo eletto con cui Dio ha stipulato una particolare alleanza e, finalmente, come fratello e sorella di Gesù, il Figlio incarnato di Dio.

Nella seconda parte del documento viene messo in evidenza che nella Sacra Scrittura non si possono trovare direttamente soluzioni ai tanti problemi odierni. Nondimeno la Bibbia, sebbene non offra soluzioni preconfezionate, presenta criteri la cui applicazione aiuta a trovare soluzioni valide per l'agire umano. Vengono indicati, anzitutto, due criteri fondamentali: la conformità con la visione biblica dell'essere umano e la conformità con l'esempio di Gesù, e successivamente altri criteri particolari. Dall'insieme della Sacra Scrittura, infatti, si possono dedurre almeno sei linee di forza per giungere a prese di posizione morali solide, che si appoggino sulla rivelazione biblica: 1) un'apertura alle diverse culture e dunque un certo universalismo etico (criterio di convergenza); 2) una presa di posizione ferma contro i valori incompatibili (criterio di contrapposizione); 3) un processo di affinamento della coscienza morale che si trova all'interno di ognuno dei due Testamenti (criterio di progressione); 4) una rettifica della tendenza a relegare le decisioni morali nella sola sfera soggettiva, individuale (criterio della dimensione comunitaria); 5) un'apertura a un avvenire assoluto del mondo e della storia, suscettibile di segnare in profondità l'obiettivo e la motivazione dell'agire morale (criterio della finalità); 6) una determinazione attenta, secondo i casi, del valore relativo o assoluto di principi e precetti morali (criterio del discernimento).

Tutti questi criteri, il cui elenco è rappresentativo ma non esaustivo, sono profondamente radicati nella Bibbia e la loro applicazione potrà aiutare il credente: si tratta di mostrare quali siano i punti che la rivelazione biblica offre per aiutare noi, oggi, nel processo delicato di un giusto discernimento morale.

Esprimo ai membri della Pontifica Commissione Biblica il mio ringraziamento per il loro paziente e impegnativo lavoro. Mi auguro che il presente testo aiuti a scoprire sempre di più i valori affascinanti della vita genuinamente cristiana e a considerare la Bibbia come tesoro inesauribile e sempre attuale per la determinazione del giusto agire dal quale dipende la riuscita e la piena felicità delle singole persone e di tutta la comunità umana.

William Cardinale Levada
Presidente
 

11 maggio 2008
Solennità di Pentecoste

    

Introduzione

1. Da sempre l’uomo è alla ricerca di felicità e di senso. Come dice finemente Sant’Agostino: “egli vuole essere felice anche vivendo in modo da non esserlo“ (De civitate Dei, XIV,4). Questa espressione pone già il problema della tensione tra il desiderio profondo dell’essere umano e le sue opzioni morali più o meno coscienti. Pascal esprime in modo mirabile la stessa tensione: “Se l’uomo non è fatto per Dio, perché è felice solo in Dio? Se l’uomo è fatto per Dio, perché si rivela così opposto a Dio?” (Pensées, II, 169).

Proponendo una riflessione, la più articolata possibile, sul soggetto delicato dei rapporti che intercorrono fra Bibbia e morale, la Commissione Biblica parte intenzionalmente da due presupposti determinanti: 1- Dio è, per ogni credente e per ogni uomo, la risposta ultima a questa ricerca di felicità e di senso, 2- la Sacra Scrittura, una, cioè comprendente ambedue i Testamenti, è un luogo valido e utile di dialogo con l’uomo contemporaneo sulle questioni che toccano la morale.

0.1. Un mondo che cerca risposte

2. Non è possibile, mentre si accosta questo progetto, fare astrazione dalla congiuntura attuale. Nell’era della mondializzazione si osserva in molte delle nostre società una trasformazione rapida di scelte etiche, sotto lo choc degli spostamenti di popolazioni, dei rapporti sociali divenuti più complessi e dei progressi della scienza, specialmente nel campo della psicologia, della genetica e delle tecniche della comunicazione. Tutto ciò esercita un influsso profondo sulla coscienza morale di molte persone e gruppi, al punto che tende a svilupparsi una cultura fondata sul relativismo, la tolleranza e l’apertura alle novità, non sempre approfondita a sufficienza nei suoi fondamenti filosofici e teologici. Anche per un buon numero di cristiani cattolici questa cultura della tolleranza ha come contropartita una accresciuta sfiducia, addirittura una marcata intolleranza di fronte a certi aspetti dell’insegnamento morale della Chiesa solidamente radicati nella Scrittura. Come giungere all’equilibrio?

0.2. I nostri obiettivi

3. Nel presente documento il lettore non troverà né una teologia biblica completa in materia di moralità né, ancor meno, ricette o risposte fatte per i problemi morali, vecchi o nuovi, che vengono discussi ai nostri giorni su tutte le tribune, compresi i mass media. Il nostro lavoro non intende sostituirsi a quello dei filosofi e dei teologi moralisti. Una trattazione adeguata dei problemi concreti posti dalla morale necessiterebbe di un approfondimento razionale e anche di una trattazione delle scienze umane, che esulano nettamente dal campo della nostra competenza. Il nostro obiettivo, più modesto, è duplice.

1- Esso consiste anzitutto nel situare la morale cristiana nell’orizzonte più vasto dell’antropologia e delle teologie bibliche. Ciò aiuterà fin dall’inizio a fare emergere più chiaramente la sua specificità e la sua originalità in rapporto sia alle etiche e alle morali naturali, fondate sull’esperienza umana e sulla ragione, sia alle morali proposte da altre religioni.

2- L’altro obiettivo è, in qualche modo, più pratico. Non è facile utilizzare la Bibbia con proprietà quando vi si cercano lumi per approfondire una riflessione morale o elementi di risposta nei confronti di problematiche o situazioni morali delicate. Pur tuttavia la Bibbia stessa fornisce al lettore alcuni criteri metodologici atti a facilitare questo cammino.

Questo doppio obiettivo comanda e spiega la struttura bipartita del presente documento. In un primo tempo: “una morale rivelata: dono divino e risposta umana”; poi: “alcuni criteri biblici per la riflessione morale”.

Dal punto di vista del metodo, senza accantonare il metodo storico-critico, inevitabile per più motivi, ci è sembrato utile, per i fini della nostra esposizione, privilegiare nettamente l’approccio canonico delle Scritture (cf. Pontificia Commissione Biblica, L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, I, C, 1).

0.3. Linee di fondo per comprendere l’orientamento del documento

0.3.1. Il concetto chiave: «morale rivelata»

4. In un primo tempo, per fedeltà al movimento di fondo della Scrittura nella sua totalità, introdurremo il concetto, forse non abituale, di “morale rivelata”. Per la nostra esposizione è un concetto chiave. Per giungere a parlare di “morale rivelata” occorre liberarci di alcune precomprensioni correnti. Fin che si riduce la morale a un codice di comportamento individuale e collettivo, a un insieme di virtù da praticare o anche agli imperativi di una legge naturale ritenuta universale, non si può percepire a sufficienza tutta la specificità, la bontà e l’attualità permanente della morale biblica.

Ci sia permesso introdurre subito due idee fondamentali, che avremo occasione di sviluppare in seguito: 1- la morale, senza essere secondaria, è seconda. Ciò che è primo e fondante è l’iniziativa di Dio, che noi esprimeremo teologicamente in termini di dono. In prospettiva biblica, la morale si radica nel dono previo della vita, dell’intelligenza e di una volontà libera (creazione) e, soprattutto, nell’offerta totalmente gratuita di una relazione privilegiata, intima, dell’uomo con Dio (alleanza). Essa non è per prima cosa risposta dell’uomo, bensì svelamento del progetto di Dio e dono di Dio. In altri termini, per la Bibbia, la morale viene dopo l’esperienza di Dio, più precisamente dopo l’esperienza che Dio fa fare all’uomo per dono puramente gratuito; 2- a partire di qui, la Legge stessa, parte integrante del processo dell’alleanza, è dono di Dio. Essa non è in partenza una nozione giuridica, impostata su comportamenti e atteggiamenti, ma un concetto teologico, che la Bibbia stessa rende al meglio col termine “cammino” (derek in ebraico, hodos in greco): un cammino proposto.

Nel contesto attuale una tale prospettiva d’accostamento s’impone in modo tutto particolare. L’insegnamento morale, certo, fa parte della missione essenziale della Chiesa, ma in seconda istanza, in rapporto alla valorizzazione del dono di Dio e dell’esperienza spirituale, cosa che gli uomini del nostro tempo talora stentano a percepire e a esaminare adeguatamente.

Il termine «morale rivelata» non è forse classico né abituale. Ciononostante esso si iscrive nell’orizzonte tracciato dal Concilio Vaticano Secondo nella Costituzione dogmatica sulla Divina Rivelazione. Il Dio della Bibbia non svela anzitutto un codice, ma “se stesso” nel suo mistero e “il mistero della sua volontà”. “Questa economia della rivelazione avviene con eventi e parole tra loro intimamente connessi, in modo che le opere, compiute da Dio nella storia della salvezza, manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà significate dalle parole, e le parole proclamano le opere e illuminano il mistero in esse contenuto.” (Dei verbum, I, 2) Pertanto, tutti gli atti con i quali Dio si rivela hanno una dimensione morale per il fatto che richiamano gli esseri umani a conformare il loro pensiero e il loro agire al modello divino: “Siate santi, perché io il SIGNORE Dio vostro, sono santo” (Lv 19,2); “Voi dunque siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5,48).

0.3.2. L’unità dei due Testamenti

5. Tutta la rivelazione – ossia il progetto di Dio che vuole farsi conoscere e aprire a tutti il cammino della salvezza – converge verso Cristo. Nel cuore della Prima Alleanza il “cammino” designa contemporaneamente un percorso di esodo (l’evento liberatore primordiale) e un contenuto didattico, la Torah. Nel cuore della Nuova Alleanza, Gesù dice di se stesso: “Io sono la via, la verità e la vita” (Gv 14,6). Condensa dunque nella sua persona e nella sua missione tutta la dinamica liberatrice di Dio e anche, in un certo senso, tutta la morale, concepita teologicamente come dono di Dio, cioè cammino per accedere alla vita eterna, all’intimità totale con lui. Si percepisce di qui l’unità profonda dei due Testamenti. Ugo di San Vittore esprimeva questa intuizione con una formula incisiva: “Tutta la divina Scrittura è un libro solo e quest’unico libro è Cristo” (De arca Noe, II, 8).

Si avrà cura dunque di non opporre Antico e Nuovo Testamento, in materia di morale come in ogni altro campo. In questo caso il documento precedente della Pontificia Commissione Biblica potrà fornire gavitelli utili, quando segnala i rapporti tra i due Testamenti in termini di continuità, discontinuità e progressione (Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana, nn. 40-42).

0.4. I destinatari del documento

6. Siamo consapevoli che il nostro discorso è recepibile in primo luogo dal credente, a cui è primariamente destinato. Tuttavia ci auguriamo di suscitare un dialogo più ampio tra uomini e donne di buona volontà, di diverse culture e religioni, che cercano, al di là delle vicissitudini del quotidiano, un cammino autentico di felicità e di senso.

 

PRIMA PARTE

 

UNA MORALE RIVELATA: DONO DIVINO E RISPOSTA UMANA

 

7. Il rapporto fra dono divino e risposta umana, fra azione antecedente di Dio e compito dell’uomo, è determinante per la Bibbia e per la morale in essa rivelata. Cominciando dalla creazione cerchiamo di descrivere i doni di Dio, secondo le diverse fasi del suo agire in favore dell’umanità e del popolo eletto, e aggiungiamo sempre i compiti che Dio ha connesso con i suoi doni.

Oltre al rapporto che abbiamo appena descritto, due altri fattori sono fondamentali per la morale biblica. Essa non è caratterizzata da un moralismo rigoroso, anzi il perdono per le persone cadute fa parte del dono di Dio. E come si manifesta chiaramente nel Nuovo Testamento, l’agire terreno si svolge nell’orizzonte ispiratore della vita eterna, che è il compimento dei doni di Dio.

 

1. Il dono della creazione e le sue implicazioni morali

 

1.1. IL DONO DELLA CREAZIONE

8. La Bibbia ci presenta Dio come Creatore di tutto ciò che esiste, specialmente nei primi capitoli della Genesi e in una serie di Salmi.

 

1.1.1. All’inizio della Genesi

Il grande ciclo narrativo che si dispiega nel Pentateuco è introdotto dai due racconti delle origini (Gn 1-2).

Secondo una prospettiva canonica l’atto divino della creazione è il primo nel racconto biblico. Questa creazione iniziale comprende tutto, “il cielo e la terra” (Gn 1,1). Con ciò si afferma che tutto è dovuto alla determinazione di Dio ed è libero dono di Dio Creatore. Per Israele il riconoscimento di Dio come Creatore di tutto non è l’inizio della conoscenza di Dio, ma è un frutto della sua esperienza con Dio e della storia della sua fede.

Il dono specifico del Creatore per l’uomo consiste nel fatto che Dio lo ha creato a sua immagine: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza.” (Gn 1,26). Secondo l’ordine del racconto (Gn 1,1-31) l’uomo appare come la meta della creazione di Dio. In Gn 1,26-28 l’uomo viene descritto come vicario di Dio, in modo che egli si riporta al suo creatore e quest’ultimo – invisibile e senza immagine – rimanda alla sua creatura, all’uomo. Si presenta qui un programma di antropologia teologica nel senso stretto del termine, in quanto può parlare di Dio solo colui che parla dell’uomo, e viceversa, dell’uomo può parlare solo colui che parla di Dio.

Volendo specificare, l’uomo è “immagine” di Dio a causa di almeno sei caratteristiche:

1. la razionalità, cioè la capacità e l’obbligo di conoscere e di comprendere il mondo creato,

2. la libertà, che implica la capacità e il dovere di decidere e la responsabilità per le decisioni prese (Gn 2),

3. una posizione di guida, però in nessun modo assoluta, bensì sotto il dominio di Dio,

4. la capacità di agire in conformità con colui di cui la persona umana è l’immagine, o di imitare Dio,

5. la dignità di essere una persona, un essere ‘relazionale’, capace di avere rapporti personali con Dio e con gli altri esseri umani (Gn 2),

6. la santità della vita umana.

 

1.1.2. In alcuni Salmi 

9. La parte della Bibbia nella quale si parla maggiormente di Dio Creatore è una serie di salmi: per es. 8; 19; 139; 145; 148. I salmi manifestano una comprensione soteriologica della creazione, perché vedono un legame fra l’attività di Dio nella creazione e la sua attività nella storia della salvezza. Essi descrivono la creazione non in un linguaggio scientifico ma simbolico; non presentano neppure riflessioni pre-scientifiche sul mondo, ma esprimono la lode del Creatore da parte d’Israele.

È affermata la trascendenza e la pre-esistenza del Creatore, che esiste prima di tutto il creato: “Prima che nascessero i monti, e la terra e il mondo fossero generati, da sempre e per sempre tu sei, Dio” (Sal 90,2). D’altra parte il mondo è caratterizzato dal tempo e dalla storia, dal cominciare e dal passare. Dio non appartiene al mondo e non fa parte del mondo. Invece il mondo esiste solo perché Dio lo ha creato e continua ad esistere solo perché Dio lo conserva nell’esistenza in ogni momento. Colui che ha creato provvede il necessario per ogni creatura: “Gli occhi di tutti sono rivolti a te in attesa che provveda loro il cibo a suo tempo. Tu apri la tua mano e sazi la fame di ogni vivente” (Sal 145,15-16).

L’universo non è un tutto in sé chiuso, che sostiene se stesso. Al contrario, gli uomini insieme a tutte le altre creature dipendono continuamente e radicalmente dal loro Creatore. È Dio che in una ‘creatio continua’ dà loro la vitalità e li mantiene nell’esistenza. Mentre Gen 1 parla di Dio e dell’opera della creazione, il Sal 104 parla a Dio creatore in una preghiera basata sull’esperienza della bontà meravigliosa della creazione,constatando la dipendenza totale di tutto il creato: “Se nascondi il tuo volto vengono meno; togli loro il sospiro, muoiono e ritornano nella loro polvere. Mandi il tuo spirito, sono creati, e rinnovi la faccia della terra” (104,29-30).

Dallo stesso Dio che ha creato e mantiene tutto Israele attende l’aiuto: “Il nostro aiuto è nel nome del Signore che ha fatto cielo e terra” (Sal 124,8; cfr. 121,2). La potenza di questo Dio però, non è ristretta a Israele ma comprende tutto il mondo, tutti i popoli: “Tema il Signore tutta la terra, tremino davanti a lui gli abitanti del mondo” (Sal 33,8). L’invito alla lode del Creatore si estende a tutto il creato: cielo e terra, sole e luna, mostri marini e fiere, re e popoli, giovani e anziani (Sal 148). Il dominio di Dio comprende tutto ciò che esiste.

Il Creatore ha assegnato una posizione speciale all’uomo. Nonostante la fragilità e caducità umana il salmista afferma con stupore: “Eppure l’hai fatto poco meno degli angeli, di gloria e di onore lo hai coronato: gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi” (Sal 8,6-7). “Gloria” e “onore” sono attributi del re; mediante loro una posizione regale viene assegnato all’uomo nella creazione di Dio. Questo stato rende l’uomo vicino a Dio che da parte sua è caratterizzato da “gloria” e “onore” (cf. Sal 29,1; 104,1), e lo mette sopra il resto del creato. Lo chiama a governare nel mondo creato, ma con responsabilità e in maniera saggia e benevola, caratteristica del regno dello stesso Creatore.

 

1.1.3. Dati fondamentali dell’esistenza umana

10. Essere creatura di Dio, aver ricevuto tutto da Dio, essere essenzialmente e intimamente un dono di Dio, questo è il dato fondamentale dell’esistenza umana e perciò anche dell’agire umano. Questo rapporto con Dio non si aggiunge come elemento secondario o transitorio all’esistenza umana, ma ne costituisce il fondamento permanente e insostituibile. Secondo questa concezione biblica niente di ciò che esiste proviene da se stesso, in una specie di auto-creazione, oppure è causato dal caso, ma è fondamentalmente determinato dalla volontà e potenza creatrice di Dio. Questo Dio è trascendente e non è una parte del mondo. Ma il mondo e l’uomo nel mondo, non sono senza Dio, dipendono radicalmente da Dio. L’uomo non può acquistare una vera e reale comprensione del mondo e di se stesso senza Dio, senza riconoscere questa totale dipendenza da Dio. Tale dono iniziale è quello fondamentale che rimane e che non viene cancellato ma perfezionato dai successivi interventi e doni divini.

Questo dono è determinato dalla volontà creatrice di Dio e perciò l’uomo non può trattarlo o utilizzarlo in modo arbitrario, ma deve scoprire e rispettare le caratteristiche e strutture che il Creatore ha dato alla sua creatura.

 

1.2. L’uomo creato come immagine di Dio e la sua responsabilità morale

11. Quando si sia compreso che tutto il mondo è creato da Dio, è dono intimamente e continuamente dipendente da Dio, occorre poi un impegno serio per scoprire i modi di agire che Dio ha iscritto nell’uomo e in tutta la sua creazione.

 

1.2.1. Secondo i racconti della creazione

Ciascuna delle caratteristiche che rendono l’uomo « immagine » di Dio porta con sé importanti implicazioni morali.

1. La conoscenza e il discernimento fanno parte del dono di Dio. L’uomo è capace e, come creatura, obbligato a indagare il progetto di Dio e a cercare di discernere la volontà di Dio per poter agire giustamente.

2. A causa della libertà che gli è data, l’uomo è chiamato al discernimento morale, alla scelta, alla decisione. In Gn 3,22, dopo il peccato di Adamo e la sua sanzione, Dio dice “Ecco l’uomo è diventato come uno di noi, per la conoscenza del bene e del male.” Il testo è difficile da spiegare. Da una parte tutto indica che l’affermazione ha un senso ironico, perché mediante le proprie forze l’uomo, nonostante il divieto, ha cercato di mettere la mano sul frutto e non ha aspettato che Dio glielo donasse al tempo opportuno. Dall’altra parte, il significato dell’albero della conoscenza totale – così è da comprendere l’espressione biblica ‘bene e male’ – non si limita a una prospettiva morale, ma significa anche la conoscenza delle sorti buone e cattive, cioè del futuro e del destino: esso comprende il dominio del tempo, che è la competenza esclusiva di Dio. Per quanto riguarda la libertà morale data all’uomo, essa non si riduce a un semplice autoregolamento e autodeterminazione, essendo il punto di riferimento né l’io né il tu, ma lo stesso Dio.

3. La posizione di guida affidata all’uomo implica responsabilità, impegno di gestione e amministrazione. Anche all’uomo compete il compito di formare in modo “creativo” il mondo fatto da Dio. Egli deve accettare questa responsabilità, anche perché la creazione non è da conservare in uno stato determinato, ma sta sviluppandosi e l’uomo si trova, come essere che connette in sé natura e cultura, insieme a tutta la creazione.

4. Questa responsabilità deve essere esercitata in una maniera saggia e benevola imitando il dominio di Dio stesso sulla sua creazione. Gli uomini possono conquistare la natura ed esplorare le ampiezze dello spazio. Gli straordinari progressi scientifici e tecnologici del nostro tempo possono essere considerati come realizzazioni del compito dato dal Creatore agli uomini, che devono nondimeno rispettare i limiti fissati dal Creatore. Altrimenti la terra diventa luogo di sfruttamento, che può distruggere il delicato equilibrio e l’armonia della natura. Sarebbe certamente ingenuo pensare che possiamo trovare una soluzione dell’attuale crisi ecologica nel Salmo 8; esso però, inteso nel contesto di tutta la teologia della creazione in Israele, mette in questione prassi odierne ed esige un nuovo senso di responsabilità per la terra. Dio, l’umanità e il mondo creato sono connessi fra di loro e perciò anche teologia, antropologia ed ecologia. Senza il riconoscimento del diritto di Dio nei nostri confronti e in quelli del mondo il dominio degenera facilmente in dominazione sfrenata e in sfruttamento che conducono al disastro ecologico.

5. La dignità che le persone umane possiedono quali esseri relazionali le invita e obbliga a cercare e vivere un giusto rapporto con Dio a cui devono tutto; fondamentale per il rapporto con Dio è la gratitudine (cf. il paragrafo successivo, n. 12, basato sui Salmi). Inoltre ciò comporta fra le persone umane una dinamica dei rapporti di responsabilità comune, di rispetto dell’altro e della continua ricerca di un equilibrio non solo fra i sessi ma anche fra la persona e la comunità (fra valori individuali e sociali).

6. La santità della vita umana ne chiede un rispetto e una tutela onnicomprensive e vieta lo spargimento del sangue dell’uomo “perché ad immagine di Dio egli ha fatto l’uomo” (Gn 9,6).

 

1.2.2. Secondo i Salmi

12. Il riconoscimento di Dio come Creatore conduce alla lode e all’adorazione di Dio, poiché la creazione attesta la divina saggezza, potenza e fedeltà. Lodando, insieme al salmista, Dio per lo splendore, l’ordine e la bellezza della creazione, siamo incitati a un profondo rispetto verso il mondo del quale gli uomini fanno parte. La persona umana costituisce il culmine della creazione perché solamente gli uomini possono avere un rapporto personale con Dio e possono articolare la lode di Dio anche come vicari delle altre creature. Per mezzo degli uomini e mediante il culto della comunità tutta la creazione esprime la lode di Dio creatore (cf. Sal 148). I salmi della creazione conducono anche a una sana e positiva valutazione del mondo attuale, perché la vita in questo mondo è fondamentalmente buona. Nel passato poté accadere che la tradizione cristiana fosse tanto occupata della salvezza eterna degli uomini che essa mancava di dare la giusta attenzione al mondo naturale. La dimensione cosmica della fede nella creazione articolata nei salmi esige che l’attenzione venga rivolta alla natura e alla storia, al mondo umano e sub-umano, coinvolgendo contemporaneamente sia cosmologia sia antropologia e teologia.

Il Salterio si occupa dei temi inevitabili dell’esistenza umana in un mondo di mistero, incertezza e minaccia (cf. salmi di lamentazione). I salmisti mantengono la fiducia in un creatore benevolo che continuamente ha cura delle sue creature. Ciò suscita un continuo inno di lode e di ringraziamento: “Lodate il Signore perché è buono, perché eterna è la sua misericordia” (Sal 136,1).

 

1.2.3. Conclusione: sulle tracce di Gesù

13. Il Nuovo Testamento assume pienamente la teologia della creazione dall’Antico Testamento, conferendole in più una dimensione cristologica determinante (per es. Gv 1,1-18; Col 1,15-20). Ciò comporta evidentemente conseguenze morali. Gesù rende caduche le prescrizioni antiche sul puro e l’impuro (Mc 7,18-19), accettando in tal modo, sulla scia della Genesi, che tutte le cose create sono buone. Paolo va esattamente nello stesso senso (Rm 14,14; cf. 1 Tm 4,4-5). Quanto all’espressione chiave “immagine di Dio”, il corpus paolino la riprende per applicarla non solo a Cristo, “primogenito della creazione” (Col 1,15), ma a ogni uomo (1 Cor 11,7; Col 3,10). Non fa stupire che nelle lettere si ritrovino le caratteristiche antropologiche suggerite da quell’espressione, unite all’aspetto morale: razionalità (“legge scritta nei cuori”, “legge della ragione”: Rm 2,15; 7,23), libertà (1 Cor 3,17; Gal 5,1.13), santità (Rm 6,22; Ef 4,24), ecc. Avremo più tardi (cf. nn. 97.99) occasione di trattare della dimensione relazionale, specialmente riguardo all’istituto matrimoniale (cf. Gn 1,27: “uomo e donna li creò”).

 

2. IL DONO DELL’ALLEANZA NELL’ANTICO TESTAMENTO E LE NORME PER L’AGIRE UMANO

14. La creazione e le sue implicazioni morali sono il dono iniziale e rimangono il dono fondamentale di Dio, ma non sono il suo unico e ultimo dono. Oltre che nella creazione Dio ha manifestato la sua infinita bontà e si è rivolto alle sue creature umane specialmente nell’elezione del popolo d’Israele e nell’alleanza che ha stipulato con questo popolo, rivelando allo stesso tempo il cammino giusto per l’agire umano.

Per presentare la ricchezza del tema biblico dell’alleanza, conviene prenderla in considerazione da due punti di vista: la progressiva percezione di questa realtà nella storia d’Israele, e la presentazione narrativa che si trova nella redazione finale della Bibbia canonica.

 

2.1. La progressiva percezione dell’alleanza (approccio storico)

 

2.1.1. Una prima esperienza fondamentale e fondatrice: un cammino comune verso la libertà

15. Generalmente vi è consenso nell’attribuire al tempo di Mosè la nascita d’Israele come popolo costituito. Più precisamente, in una prospettiva di teologia biblica, si identifica nell’uscita dall’Egitto l’evento storico fondamentale e fondatore.

Solo più tardi, e sulla base dell’evento fondatore, furono recuperate e reinterpretate le tradizioni orali che riguardano gli antenati dell’epoca patriarcale e furono presentate le origini dell’umanità in racconti prevalentemente teologici e simbolici. Grosso modo, dunque, si possono considerare gli eventi raccontati nella Genesi come appartenenti alla preistoria d’Israele come popolo costituito.

 

2.1.2. Una prima intuizione d’interpretazione teologica

16. Se l’uscita dall’Egitto ha permesso l’apparizione d’Israele come popolo costituito, questo fatto si deve a una interpretazione teologica dell’evento, quale si ritiene presente, almeno in modo germinale, sin dalle origini. Tale interpretazione teologica sommaria si riduce a questo: la consapevolezza della presenza e dell’intervento di un Dio che protegge il gruppo che sta uscendo sotto la direzione di Mosè, presenza e intervento percettibili in maniera impressionante nell’evento primordiale e fondatore, il passaggio del mare, che fu sperimentato come un prodigio.

Ciò viene attestato dal nome simbolico che questo Dio protettore si dà e rivela (Es 3,14). La Bibbia ebraica userà questo nome molte volte nella forma YHWH o nella forma abbreviata YH.  Ambedue sono di difficile traduzione ma filologicamente implicano una presenza dinamica e operante di Dio in mezzo al suo popolo. Gli ebrei non pronunciano questo nome, e i traduttori greci del testo ebraico lo hanno reso con la parola ‘Kyrios’, il Signore. Con la tradizione cristiana seguiamo questa usanza e per ricordare la presenza di YHWH nel testo ebraico scriveremo il SIGNORE.

L’intuizione teologica iniziale si concretizza in quattro tratti principali: il Dio d’Israele accompagna, libera, dona e raccoglie.

1. Accompagna: indica il cammino nel deserto, in virtù di una presenza simboleggiata, secondo le tradizioni, dall’angelo guida o dalla nube che evoca il mistero impenetrabile (Es 14,19-20 e passim).

2. Libera dal giogo dell’oppressione e della morte.

3. Dona, doppiamente: da una parte egli dona se stesso in quanto Dio del popolo nascente; dall’altra parte egli dona a questo popolo il “cammino” (‘derek’), cioè il mezzo, per entrare e rimanere in rapporto con Dio, cioè per donarsi a Dio in risposta.

4. Raccoglie il popolo nascente intorno a un progetto comune, un progetto di ‘vivere insieme’ (di formare un ‘qahal’, al quale può corrispondere in greco la parola ‘ekklesia’).

 

2.1.3. Un concetto teologico originale che esprime l’intuizione: l’alleanza

17. Come ha espresso Israele, nella sua letteratura sacra, questo rapporto unico fra se stesso e il Dio che sin dall’inizio l’accompagna, lo libera, si dona a lui e lo raccoglie?

 

a. Dalle alleanze umane all’alleanza teologica

In un dato momento, difficile da determinare esattamente, un concetto interpretativo maggiore (comprensivo) si è imposto ai teologi d’Israele: la nozione dell’alleanza.

Il tema è diventato tanto importante da determinare sin dall’inizio, almeno retrospettivamente, la concezione dei rapporti fra Dio e il suo popolo privilegiato. Infatti nel racconto biblico l’evento storico fondamentale e fondatore è quasi immediatamente seguito da una conclusione di alleanza: “alla terza nuova luna dall’uscita dall’Egitto” (Es 19,1), rispettivamente simbolo di un tempo divino e simbolo di un inizio. Ciò vuol dire: l’evento fondamentale e fondatore include, nella sua portata metastorica, la stipulazione dell’alleanza al Sinai a tal punto che, dalla prospettiva di una teologia biblica diacronica, l’evento primordiale si descriverà nei termini di esodo-e-alleanza.

Inoltre questo concetto interpretativo che viene applicato agli eventi dell’uscita dall’Egitto, si estende retrospettivamente al passato in forma di eziologia. Infatti, si ritrova nella Genesi. L’idea dell’alleanza viene utilizzata per descrivere il rapporto fra il SIGNORE Dio e Abramo, l’antenato (Gn 15; 17), anzi, in un passato ancora più lontano e misterioso, fra il SIGNORE Dio e gli esseri viventi che sono sopravvissuti al diluvio al “tempo” di Noè, il patriarca (Gn 9,8-17).

Nell’Antico Prossimo e Medio Oriente le alleanze fra contraenti umani esistevano in forma di trattati, convenzioni, contratti, matrimoni, persino patti di amicizia. E dèi protettori funzionavano come testimoni e garanti nel processo della stipulazione di queste alleanze umane. Anche la Bibbia riporta alleanze di questo genere.

Però, fino a prova contraria – e nessun documento archeologico finora trovato rende invalida questa constatazione – la trasposizione teologica dell’idea dell’alleanza è una originalità biblica: solamente là si trova il concetto di una alleanza propriamente detta fra un contraente divino e uno o più contraenti umani.

 

b. L’alleanza fra contraenti ineguali

18. È certo che alle origini Israele non poteva neanche sognare di esprimere il suo rapporto privilegiato con Dio, il Tutt’Altro, il Trascendente, l’Onnipotente secondo uno schema di uguaglianza, orizzontale

Dio   ↔   Israele

Nel momento in cui s’è introdotta l’idea teologica dell’alleanza, spontaneamente si può pensare solo alle alleanze fra contraenti disuguali, ben conosciute nella prassi diplomatica e giuridica dell’antico Vicino Oriente extra-biblico: i famosi trattati di vassallaggio.

È difficile escludere completamente l’influsso dell’ideologia politica del vassallaggio come punto concreto di riferimento per la comprensione dell’alleanza teologica. L’intuizione di un contraente divino che prende e preserva l’iniziativa da un termine all’altro del processo dell’alleanza costituisce lo sfondo di quasi tutti i testi maggiori dell’alleanza nell’Antico Testamento.

Dio

Israele

In questo tipo di rapporto fra i contraenti il sovrano si impegna verso il vassallo e impegna il vassallo verso se stesso. In altre parole, egli si obbliga verso il vassallo nello stesso modo in cui obbliga il vassallo da parte sua. Nel processo delle stipulazioni dell’alleanza egli è l’unico che si esprime; il vassallo, in questo stadio, rimane zitto.

Questo doppio movimento si esprime, in campo teologico, attraverso due temi principali: la Grazia (il SIGNORE impegna se stesso) e la Legge (il SIGNORE impegna il popolo che diventa sua “proprietà”: Es 19,5-6). In questa cornice teologica la grazia può essere definita come il dono (incondizionato, in certi testi) che Dio fa di se stesso. E la Legge come il dono che Dio fa all’uomo collettivo, di un mezzo, di una via, di un “cammino” (‘derek’) etico-cultuale che permette all’uomo di entrare e di rimanere “in situazione di alleanza”.

In uno stadio posteriore questa dinamica dell’alleanza sembra essersi concentrata in una espressione stereotipata che normalmente si chiama la “formula dell’alleanza” (Bundesformel) – “io sarò il tuo Dio e tu sarai il mio popolo” o un equivalente –: essa si è diffusa un po’ ovunque nell’uno e nell’altro Testamento, specialmente nel contesto della “nuova alleanza” annunciata da Geremia (31,31-34). Segno abbastanza evidente che si tratta di un tema principale, di una costante di fondo.

Uno schema simile si applica a Davide e alla sua discendenza: “Io sarò per lui un padre ed egli sarà per me un figlio” (2 Sam 7,14).

 

c. Il luogo della libertà umana

19. In questa cornice teologica la libertà morale dell’essere umano non entra come un sì necessario e costitutivo dell’alleanza – in questo caso si tratterebbe di una alleanza paritetica, cioè fra contraenti uguali. La libertà interviene più tardi, come una conseguenza, quando tutto il processo dell’alleanza è compiuto. Tutti i testi biblici pertinenti distinguono, da una parte, il contenuto dell’alleanza, e dall’altra il rito o la cerimonia che segue il dono dell’alleanza. L’impegno del popolo, sotto giuramento, non fa parte delle condizioni o clausole, ma solo degli elementi di garanzia giuridica, nella cornice di una celebrazione cultuale.

In questo modo nasce la morale rivelata, la “morale in situazione di alleanza”: un dono di Dio, totalmente gratuito che, una volta offerto, interpella la libertà dell’essere umano quanto a un sì completo, una accettazione integrale: la minima deroga seria è equivalente a un rifiuto. Questa morale rivelata, espressa in una cornice teologica di alleanza, rappresenta una novità assoluta in relazione ai codici etici e cultuali che reggevano la vita dei popoli circostanti. Essa ha, per essenza, un carattere di risposta, segue la grazia, l’auto-impegno di Dio.

 

d. Conseguenze per la morale

20. Si vede dunque che la morale è molto più che un codice di comportamenti e atteggiamenti. Essa si presenta come un “cammino” (‘derek’) rivelato, regalato: leitmotiv ben sviluppato nel Deuteronomio, presso i profeti, nella letteratura sapienziale e nei salmi didattici.

Due elementi di sintesi sono soprattutto da considerare.

1° Nel senso biblico questo “cammino” deve essere concepito sin dall’inizio e innanzitutto in una maniera globale, secondo il suo senso teologico profondo: esso designa la Legge come un dono di Dio, come frutto dell’iniziativa esclusiva di un Dio sovrano che impegna se stesso in una alleanza e impegna il suo contraente umano. Questa Legge si distingue dalle molte leggi attraverso le quali essa si esprime e si concretizza per iscritto, sulla pietra, sulla pergamena, sul papiro o in altri modi.

2° Questo “cammino” morale non arriva senza preparazione. Nella Bibbia esso appartiene a un cammino storico di salvezza, di liberazione, al quale compete un carattere primordiale, fondatore. Da questa constatazione dobbiamo dedurre una conseguenza estremamente importante: la morale rivelata non occupa il primo posto, essa deriva da una esperienza di Dio, da una “conoscenza” nel senso biblico, rivelata attraverso l’evento primordiale. La morale rivelata continua, per così dire, il processo della liberazione iniziato nell’archetipo dell’esodo: ne assicura, ne garantisce la stabilità. Brevemente: nata da una esperienza dell’accesso alla libertà, la “morale in situazione di alleanza” cerca di preservare e sviluppare questa libertà, sia esteriore sia interiore, nel quotidiano. L’opzione morale del credente presuppone una esperienza personale di Dio, anche innominata e solo più o meno conscia.

 

2.2. Le diverse espressioni dell’alleanza (approccio canonico)

21. Vediamo il tema dell’alleanza, come si presenta nell’ordine canonico della Bibbia.

 

2.2.1. L’alleanza con Noè e con “ogni carne”

 

a. Punizione e alleanza

Le prime ricorrenze della parola “alleanza” nell’A.T. si trovano nel racconto del diluvio (Gn 6,18; 9,8-17). In questa tradizione teologica si sottolinea fortemente la gratuità dell’iniziativa divina e la sua portata incondizionata.

La punizione, cosmica, risponde allo stato di cose che è di ampiezza proporzionale: “La terra era corrotta davanti a Dio e piena di violenza. Dio guardò la terra ed ecco essa era corrotta perché ogni carne aveva corrotto la sua condotta sulla terra. E Dio disse a Noè: La fine di ogni carne è venuta davanti a me” (Gn 6,11-13).

Ma subito interviene il progetto dell’alleanza. Per quanto riguarda i contraenti l’alleanza è stabilita in cerchi concentrici cioè simultaneamente con Noè stesso (6,18), con la sua famiglia e la sua futura discendenza (9,9), con “ogni carne” cioè con tutto ciò che ha una “respirazione vivente” (9,10-17), e persino con “la terra” (9,13). Si può parlare, dunque, di una alleanza cosmica proporzionale allo stato di perversità e alla punizione.

Di questa alleanza Dio dà un “segno”, ovviamente un segno cosmico: “Ho messo il mio arco su una nube…” (9,13-16). C’è l’impressione a prima vista che l’immagine si riferisca semplicemente all’arco baleno come fenomeno meteorologico che accade dopo la pioggia. Ma, secondo ogni probabilità, la connotazione militare non è da escludere, tenendo conto del fatto che Dio dice “il mio arco” e che “arco” (eccetto Ez 1,28) designa sempre l’arma da guerra e non l’arco-baleno. Qui dal punto di vista simbolico, due dettagli meritano di essere considerati. Prima, la stessa forma dell’arco, teso verso il cielo e non più verso la terra, suggerisce l’idea della pace, frutto dell’iniziativa puramente gratuita di Dio: in questa posizione nessuna freccia può più essere diretta verso la terra. D’altronde, toccando il cielo e appoggiato sulla terra come una specie di ponte verticale, l’arco simboleggia il contatto ristabilito fra Dio e l’umanità ri-nata, salvata.

 

b. Conseguenze per la morale

22. Al lettore di oggi si presentano soprattutto tre aspetti con evidenza.

1° Dal punto di vista dell’ecologia: la corruzione e la violenza umana hanno gravi ripercussioni sull’habitat, sull’ambiente (6,13). Esse rischiano di riportare al caos l’opera creatrice di Dio (cf. Os 4,2-3).

2° Dal punto di vista dell’antropologia: anche in un mondo corrotto l’uomo preserva intatta la sua dignità di “immagine di Dio” (9,6; cf. 1,26-27). Si deve mettere una diga contro il male, affinché l’uomo sperimentando la salvezza di Dio, svolga la sua missione di fecondità (9,1.7).

3° Dal punto di vista dell’amministrazione delle risorse: all’uomo viene attribuito un certo potere sulla vita degli animali (si confrontino 9,3 e 1,29). Nondimeno, deve rispettare ogni vita come qualcosa di misterioso (9,4). L’estensione dell’alleanza a tutti gli esseri viventi e a tutta la terra mette in rilievo lo statuto dell’uomo come compagno di tutti gli esseri della creazione. Merita attenzione in questo contesto la modifica dell’esortazione indirizzata a Noè, nuovo Adamo. Al posto di: “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra, soggiogatela, dominate…” (1,28) si trova solo: “Siate fecondi e moltiplicatevi, siate numerosi sulla terra e moltiplicatevi su essa” (9,7). Tutt’al più gli animali sono “dati nelle mani” dell’uomo per servirgli come nutrimento (9,3). L’esperienza concreta del male, della “violenza” sembra aver messo un’ombra sulla missione ideale affidata all’uomo nell’atto iniziale della creazione: il ruolo di amministrazione e di reggenza riguardo all’ambiente si trova un po’ relativizzato. Ma il riferimento esplicito di Gn 9,1-2 a Gn 1,26-27 mostra che l’orizzonte morale di Gn 1 non viene annullato. Rimane il punto di riferimento principale per i lettori del libro della Genesi.

 

2.2.2. L’alleanza con Abramo

 

a. Racconti su Abramo-Isacco e su Giacobbe

23. Il “ciclo di Abramo-Isacco” (Gn 12,1 – 25,18; 26,1-33) è, dal punto di vista letterario, strettamente collegato con il “ciclo di Giacobbe” (Gn 25,19-34; 26,34 – 37,1). I racconti su Abramo-Isacco e quelli su Giacobbe sono simili fin nei particolari. Abramo e Giacobbe percorrono gli stessi itinerari, attraversando il paese da Nord a Sud e seguendo la stessa cresta di monti. Queste indicazioni topografiche fanno da cornice al complesso letterario di Gn 12-36 (cf. Gn 12,6-9 e Gn 33,18–35,27). I fatti letterari invitano a leggere i racconti su Abramo nel contesto più ampio della sequenza che concerne Abramo-Isacco e Giacobbe.

 

b. Alleanza, benedizione e legge

L’alleanza donata dal SIGNORE ha tre corollari: una promessa, una responsabilità e una legge.

1° La promessa è quella della terra (Gn 15,18; 17,8; 28,15) e di una discendenza – promessa indirizzata ad Abramo, poi a Isacco e quindi a Giacobbe (cf. Gn 17,15-19; 26,24; 28,14). Il tema poi si è spiritualizzato (cf. Pontificia Commissione Biblica, Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana, nn. 56-57).

2° La responsabilità che viene affidata ad Abramo riguarda non solo il proprio clan ma, più largamente, tutte le nazioni. L’espressione biblica di questa responsabilità utilizza il vocabolario della benedizione: Abramo deve diventare una nazione grande e potente, e tutte le nazioni della terra saranno benedette [‘brk’] in lui (Gn 18,18). L’intercessione in favore di Sodoma che segue immediatamente nel racconto, illustra questa funzione mediatrice di Abramo. Così, l’alleanza non conduce solo a ereditare il dono di Dio (una discendenza, una terra) ma conferisce allo stesso tempo un incarico.

3° L’impegno di Abramo nell’alleanza passa attraverso l’ubbidienza alla legge: “Infatti io l’ho scelto, perché egli obblighi i suoi figli e la sua famiglia dopo di lui ad osservare la via del SIGNORE e ad agire con giustizia e diritto” (Gn 18,19).

 

c. Conseguenze per la morale

1° Il legame teologico costituito dal ciclo di Abramo fra alleanza e responsabilità universale permette di precisare la vocazione particolare del popolo di Dio: messo a parte mediante un’alleanza specifica, eredita a causa di questo fatto una responsabilità singolare nei confronti delle nazioni, per le quali diventa il mediatore della benedizione divina. Una tale pista teologica sembra feconda per articolare la dimensione particolare e la validità universale della morale biblica.

2° Il ciclo di Abramo e quello di Giacobbe insistono sulla dimensione storica della vita morale. Ambedue, Abramo e Giacobbe, seguono un itinerario di conversione che il racconto cerca di descrivere con precisione. L’alleanza proposta da Dio s’imbatte nelle resistenze umane. Il racconto biblico tiene qui conto della dimensione della temporalità nell’approccio che propone per la fedeltà all’alleanza e per l’ubbidienza a Dio.

 

2.2.3. L’alleanza con Mosè e il popolo d’Israele

24. Esponendo la progressiva concezione dell’alleanza, ne abbiamo messo in rilievo certi tratti essenziali. L’esperienza fondante dell’alleanza si verifica al Sinai. Essa viene presentata in un evento storico fondatore. È completamente dono di Dio, frutto della sua iniziativa totale, e impegna sia Dio (la Grazia) sia gli uomini (la Legge). Conferisce a Israele neonato lo statuto di popolo a diritto pieno. Una volta stipulata, esige la risposta libera dell’uomo, che è da comprendere in un primo passo come l’accettazione di un “cammino di vita” (la Legge, nel senso teologico) e poi, solo in seguito, come la prassi di determinazioni precise (le leggi). Vogliamo presentare tale risposta non nella sua globalità teologica e immutabile (la Legge), ma nella sua espressione plurale e dettagliata e, eventualmente, adattabile alle circostanze (le leggi)

Una serie di norme è connessa con la stipulazione dell’alleanza sinaitica. Fra di esse compete uno statuto speciale al Decalogo. Ci occupiamo dapprima proprio del Decalogo per poi rivolgerci ai codici legislativi e all’insegnamento morale dei profeti.

 

2.2.3.1. Il Decalogo

25. Ogni popolo nuovo deve darsi, anzitutto, una costituzione. Quella d’Israele rispecchia la vita semplice dei clan semi-nomadi che all’origine lo formano. Grosso modo, prescindendo dai ritocchi e dagli sviluppi che furono aggiunti, “le dieci parole” attestano abbastanza bene il contenuto sostanziale della legge fondamentale del Sinai.

La sua posizione redazionale (Es 20,1-17) direttamente davanti al “Codice dell’Alleanza” (Es 20,22–23,19) e la sua ripetizione (Dt 5,6-21), con qualche variante, all’inizio del “Codice deuteronomico” (Dt 4,44–26,19) già indicano la sua importanza preponderante nell’insieme della “Torah”. In ebraico quest’ultima parola vuol dire “istruzione, insegnamento”; ha dunque un senso molto più ampio e profondo della nostra parola “legge”, che viene però utilizzata da quasi tutti i traduttori.

Paradossalmente, nel suo tenore originale, il Decalogo riflette un’etica allo stesso tempo iniziale e potenzialmente molto ricca.

 

a. Una etica iniziale

26. I limiti si constatano da tre punti di vista: l’esteriorità, la portata essenzialmente comunitaria, la formulazione spesso negativa dell’esigenza morale.

1. La maggioranza degli esegeti, cercando il senso letterale, sottolinea che originariamente ogni divieto concerneva azioni esteriori, osservabili e verificabili, ivi compreso il ‘hamad’ (desiderio) che introduce i due comandamenti finali (Es 20,17); esso difatti non esprime un pensiero o un disegno inefficace, totalmente interiore (“desiderare”) ma piuttosto uno stratagemma concreto per realizzare un disegno cattivo (“desiderio che si esprime in azioni”, “mirare a”, “disporsi a”).

2. Inoltre, una volta uscito dall’Egitto, il popolo liberato aveva un bisogno urgente di regole precise per ordinare la sua vita collettiva nel deserto. Il Decalogo risponde in linea di massima a questa esigenza nel modo che in esso si può vedere una legge fondamentale, una primitiva carta nazionale.

3. Otto dei dieci comandamenti sono formulati negativamente, costituiscono dei divieti, un po’ alla maniera di ringhiere di un ponte. Solo due hanno una forma positiva, quella di precetti da adempiere. L’accento è dunque messo sull’astensione da comportamenti socialmente dannosi. Ciò evidentemente non esaurisce tutte le virtualità della morale che in linea di massima ha come fine di chiarire e di stimolare l’agire umano nella realizzazione del bene.

 

b. Un’etica potenzialmente molto ricca

27.  Tre altre caratteristiche, invece, fanno del Decalogo originale il fondamento insostituibile di una morale stimolante e ben adatta alla sensibilità del nostro tempo: la sua portata virtualmente universale, la sua appartenenza a un quadro teologico di alleanza e anche il suo radicamento in un contesto storico di liberazione.

1. Per una considerazione attenta tutti i comandamenti hanno una portata che oltrepassa decisamente i confini di una nazione particolare, anche quelli del popolo eletto di Dio. I valori da essi promossi possono essere applicati a tutta l’umanità di tutte le regioni e di tutti i periodi della storia. Vedremo che persino i due primi divieti, oltre l’apparente particolarità della denominazione “il SIGNORE Dio d’Israele” illustrano un valore universale.

2. L’appartenenza del Decalogo a un quadro teologico di alleanza causa la subordinazione delle dieci leggi, come vengono indicate, alla nozione della stessa Legge compresa come un regalo, come un dono gratuito di Dio, un “cammino” globale, una strada chiaramente tracciata che rende possibile e facilita l’orientamento fondamentale dell’umanità verso Dio, verso l’intimità, la comunicazione con lui, verso la felicità e non la miseria, verso la vita e non la morte (cf. Dt 30,19s).

3. Nell’introduzione al Decalogo il SIGNORE rammenta nell’essenziale la sua azione liberatrice: ha fatto uscire i suoi da una “casa” in cui erano “asserviti” (Es 20,2). Ora, un popolo che vuol liberarsi da un giogo esteriore soffocante e che appena ha fatto questo deve essere attento a non cercare un giogo interno che asservisce e asfissia nello stesso modo. Il Decalogo, difatti, apre largamente la via a una morale di liberazione sociale. Questo apprezzamento della libertà, in Israele, sarà tanto espansivo da toccare persino la terra, il suolo coltivabile: ogni sette anni (anno sabbatico) e ancora di più ogni quarantanove anni (anno giubilare) c’è l’obbligo di lasciare la terra tranquilla, libera da ogni violenza, al sicuro dalle zappe e dai vomeri (cf. Lv 25,1-54).

 

c. Conseguenze per la morale di oggi

28. Praticamente, il Decalogo può servire come base per una teologia e catechesi morale adatta ai bisogni e alle sensibilità dell’umanità odierna?

 

1) Gli apparenti inconvenienti

L’esteriorità, la portata essenzialmente comunitaria, e la formulazione quasi sempre negativa della primitiva etica israelitica fanno sì che il Decalogo, da solo, almeno se viene riprodotto tale quale, diventi meno adatto ad esprimere in modo adeguato l’ideale della vita morale che la Chiesa propone ai suoi contemporanei.

1. L’uomo moderno, segnato dalle scoperte della psicologia, insiste molto sull’origine interna, persino inconscia, dei suoi atti esteriori, in forma di pensieri, desideri, motivi scuri e anche impulsi difficili da controllare.

2. Certo, è consapevole delle esigenze della vita collettiva, ma allo stesso tempo tende a reagire contro gli imperativi di una globalizzazione illimitata, e scopre tanto più la portata dell’individuo, dell’io, delle aspirazioni allo sviluppo personale.

3.  Del resto, in molte società si sviluppa da qualche decennio una specie di allergia contro ogni forma di divieto: tutti i divieti vengono interpretati, anche in modo sbagliato, come limiti e ceppi della libertà.

 

2) I vantaggi reali

29. Dall’altra parte, la portata virtualmente universale della morale biblica, la sua appartenenza a un quadro teologico di alleanza e il suo radicamento nel contesto storico di liberazione possono avere una certa attrattiva nel nostro tempo.

1. Chi non sogna un sistema di valori che supera e connette le nazionalità e le culture?

2. L’insistenza prioritaria su un orientamento di stampo teologico, più che su una grande quantità di comportamenti da evitare o da praticare, potrebbe suscitare un maggiore interesse per i fondamenti della morale biblica presso quelli che sono allergici verso le leggi che sembrano restringere la libertà.

3. La consapevolezza delle circostanze concrete in cui il Decalogo si è formato nella storia mostra ancora di più fino a che punto questo testo fondamentale e fondatore non è limitativo e oppressivo ma al contrario, è al servizio della libertà dell’essere umano, sia individuale sia collettiva.

 

3) La scoperta dei valori attraverso gli obblighi.

30. Di fatto, il Decalogo nasconde in sé tutti gli elementi necessari per fondare una riflessione morale ben equilibrata e adatta al nostro tempo. Tuttavia, non basta tradurlo dall’ebraico originale in una lingua moderna. Nella sua formulazione canonica ha la forma delle leggi apodittiche e appartiene alla linea di una morale degli obblighi (o deontologia).

Niente ci impedisce di tradurre in modo diverso, ma non meno fedele, il contenuto della carta israelitica in termini di una morale dei valori (o assiologia). Ci si rende conto che, trascritto in questo modo, il Decalogo acquista una forza di chiarificazione e di appello molto più grande per il nostro tempo. In realtà, non solamente non si perde niente in questo cambio, ma c’è un guadagno enorme di profondità. Per sé, il divieto si concentra solo sui comportamenti da evitare e incoraggia, al limite, una morale tipo freno di soccorso (per esempio si evita l’adulterio quando ci si astiene dal corteggiare la donna di un altro). Il precetto positivo, da parte sua, può accontentarsi di qualche gesto o atteggiamento per darsi una buona coscienza incoraggiando, al limite, una morale di gesti minimi (per esempio, uno pensa di praticare il sabato quando dedica al culto un’ora per settimana). Al contrario invece, l’impegno per un valore corrisponde a un cantiere sempre aperto ove non si giunge mai al traguardo e ove uno è chiamato sempre a un di più.

Trasposti in una terminologia di valori, i precetti del Decalogo conducono all’elenco seguente: l’Assoluto, la riverenza religiosa, il tempo, la famiglia, la vita, la stabilità della coppia marito e moglie, la libertà (qui il verbo ebraico ‘gnb’ si riferisce probabilmente al rapimento e non al furto di oggetti materiali), la reputazione, la casa e le persone umane che vi appartengono, la casa e i beni materiali.

Ciascuno di questi valori apre un ‘programma’ cioè un compito morale mai compiuto. Le affermazioni seguenti, introdotte da verbi, illustrano la dinamica che viene generata dall’inseguire ciascuno di questi valori.

Tre valori verticali (riguardano le relazioni della persona umana con Dio):

1. rendere un culto a un unico Assoluto

2. rispettare la presenza e la missione di Dio nel mondo (ciò che il “nome” simboleggia)

3. valorizzare la dimensione sacra del tempo

Sette valori orizzontali (riguardano le relazioni fra le persone umane):

4. onorare la famiglia

5. promuovere il diritto alla vita

6. mantenere l’unione della coppia marito e moglie

7. difendere il diritto per ognuno di vedere la propria libertà e dignità rispettata da tutti

8. preservare la reputazione degli altri

9. rispettare le persone (che appartengono a una casa, una famiglia, un’impresa)

10. lasciare all’altro le sue proprietà materiali.

Analizzando i dieci valori presenti nel Decalogo, si nota che essi seguono un ordine di progressione decrescente (dal valore prioritario a quello meno importante), Dio al primo posto e le cose materiali all’ultimo; e, all’interno dei rapporti umani, si trova all’inizio della lista famiglia, vita, matrimonio stabile.

Viene così offerta, per una umanità che affannosamente desidera di aumentare la sua autonomia, una base legale e morale che potrebbe verificarsi feconda e persistente. Essa però è difficile da promuovere nel contesto attuale, dato che la scala dei valori più seguiti nel nostro mondo ha un ordine di priorità opposto a quello della proposta biblica: prima l’uomo, poi Dio; e persino, all’inizio della lista, i beni materiali, cioè, in un certo senso, l’economia. Quando, apertamente o meno, un sistema politico e sociale si fonda su valori supremi falsi (o su una concorrenza fra valori supremi), quando lo scambio dei beni o il consumo è più importante dell’equilibrio fra le persone, questo sistema è rotto sin dall’inizio e destinato presto o tardi alla rovina.

Il Decalogo, invece, apre largamente la via a una morale liberatrice: lasciare il primo posto alla sovranità di Dio sul mondo (valori nr. 1 e 2), dare a ciascuno la possibilità di avere tempo per Dio e di gestire il proprio tempo in un modo costruttivo (nr. 3), favorire lo spazio di vita della famiglia (nr. 4), preservare la vita, anche sofferente e apparentemente non produttiva, dalle decisioni arbitrarie del sistema e dalle manipolazioni sottili dell’opinione pubblica (nr. 5), neutralizzare i germi di divisione che rendono fragile, soprattutto nel nostro tempo, la vita matrimoniale (nr. 6), arrestare tutte le forme di sfruttamento del corpo, del cuore e del pensiero (nr. 7), proteggere la persona contro gli attacchi alla reputazione (nr. 8) e contro tutte le forme di inganno, di sfruttamento, di abuso e di coercizione (nr. 9 e 10).

 

4) Una conseguenza giuridica

31. In una prospettiva prevalente di attualizzazione questi dieci valori che sono alla base del Decalogo offrono un fondamento chiaro per una carta dei diritti e delle libertà, valevole per tutta l’umanità:

1. diritto a un rapporto religioso con Dio,

2. diritto al rispetto delle credenze e simboli religiosi,

3. diritto alla libertà della pratica religiosa e, in secondo luogo, al riposo, al tempo libero, alla qualità di vita,

4. diritto delle famiglie a politiche giuste e favorevoli, diritto dei figli al sostegno da parte dei loro genitori, al primo apprendistato della socializzazione, diritto dei genitori anziani al rispetto e al sostegno da parte dei loro figli,

5. diritto alla vita (a nascere), al rispetto della vita (a crescere e morire in modo naturale), all’educazione,

6. diritto della persona alla libera scelta del coniuge, diritto della coppia al rispetto, all’incoraggiamento e al sostegno da parte dello stato e della società in generale, diritto del figlio alla stabilità (emozionale, affettiva, finanziaria) dei genitori,

7. diritto al rispetto delle libertà civili (integrità corporale, scelta della vita e della carriera, libertà a muoversi e ad esprimersi),

8. diritto alla reputazione e, in secondo luogo, al rispetto della vita privata, a una informazione non deformata,

9. diritto alla sicurezza e alla tranquillità domestica e professionale, e, in secondo luogo, diritto alla libera impresa,

10. diritto alla proprietà privata (ivi compresa una garanzia di protezione civile dei beni materiali).

Ma nell’ottica di una “morale rivelata” questi diritti umani inalienabili sono assolutamente subordinati al diritto divino, cioè alla sovranità universale di Dio. Il decalogo inizia così: “Io sono il SIGNORE, tuo Dio, che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto” (Es 20,2; Dt 5,6). Questa sovranità divina, così come si manifesta già nell’evento fondatore dell’esodo, si esercita non secondo uno schema autoritario e dispotico, che si trova troppo spesso nella gestione umana dei diritti e delle libertà, bensì in un’ottica della liberazione della persona e delle comunità umane. Essa implica, tra l’altro, da parte dell’uomo, un culto esclusivo, un tempo consacrato alla preghiera personale e comunitaria, il riconoscimento del potere ultimo che Dio ha di regolare la vita delle sue creature, di governare le persone e i popoli, di esercitare il giudizio; in fine, il discorso biblico della sovranità divina suggerisce una visione del mondo secondo cui non solamente la Chiesa ma il cosmo, l’ambiente circostante e la totalità dei beni della terra sono, in ultima analisi, proprietà di Dio (cf. Es 19,5).

In breve, basandosi sui valori fondamentali contenuti nel Decalogo, la teologia morale e anche la catechesi che ne deriva, può proporre all’umanità di oggi un ideale equilibrato che da una parte non privilegia mai i diritti a danno degli obblighi o viceversa e che, d’altra parte, evita lo scoglio di una etica puramente secolare che non tenga conto del rapporto dell’uomo con Dio.

 

5) Conclusione: sulle tracce di Gesù

32. Presentando il Decalogo come fondamento perenne di una morale universale, si realizzano tre scopi importanti: aprire il tesoro della Parola, mostrarne il valore, trovare un linguaggio che può toccare le corde sensibili degli uomini e delle donne d’oggi.

Proponendo una lettura assiologica della Legge fondamentale del Sinai, secondo i valori ivi implicati, non facciamo altro che camminare sulle tracce di Gesù. Ecco, alcuni indizi che colpiscono.

1. Nel suo discorso sulla montagna Gesù riprende certi precetti del Decalogo ma ne porta il senso molto più avanti, da un triplice punto di vista: approfondimento, interiorizzazione, superamento di se stesso fino a raggiungere la perfezione quasi divina (Mt 5,17-48).

2. Discutendo su puro e impuro, Gesù segnala che l’uomo diventa veramente impuro mediante ciò che viene dall’interno, dal cuore, e che lo spinge alle azioni che sono contrarie al Decalogo (Mt 15,19).

3. L’episodio del giovane ricco (Mt 19,16-22 e paralleli) fa capire bene questo ‘di più’ esigito da Gesù. Da una morale minima, essenzialmente comunitaria e formulata soprattutto in modo negativo (v. 18-19), si passa a una morale personalizzata, ‘programmatica’, che consiste principalmente nel ‘seguire Gesù’, a una morale del tutto concentrata sul distacco, sulla solidarietà con i poveri e sul dinamismo dell’amore la cui sorgente è nei cieli (v. 21).

4. Interrogato sul ‘più grande comandamento’ Gesù stesso ha messo in rilievo due prescrizioni scritturistiche, che sono fondate su un valore – quello più importante, cioè l’amore – e aprono un programma morale sempre incompiuto (Mt 22,34-40 e paralleli). Attingendo così il miglior succo delle due più grandi tradizioni legali dell’Antico Testamento (deuteronomica e sacerdotale), Gesù sintetizza in modo ammirevole la pluralità delle leggi simboleggiate dallo stesso numero delle “dieci parole”. In campo simbolico ‘tre’ evoca normalmente la totalità nell’ordine del divino, dell’inosservabile, e ‘sette’ nell’ordine dell’osservabile. Il valore “amore di Dio” riassume da solo i tre primi  comandamenti del Decalogo, e “amore del prossimo” gli ultimi sette.

5. Nella scia di Gesù anche Paolo, citando precetti del Decalogo, vede nell’amore del prossimo “il pieno compimento della Legge” (cf. Rm 13,8-10). Pure citando il Decalogo (Rm 2,21-22), Paolo afferma in una vasta discussione che Dio giudica secondo la stessa norma sia giudei, istruiti nella Legge, sia pagani, che “per natura agiscono secondo la Legge” (Rm 2,14).

 

2.2.3.2. I codici legislativi

33. Si considerano di solito come tali il Codice dell’Alleanza (Es 21,1-23,33), la Legge di Santità (Lv 17,1-26,46) e il Codice Deuteronomico (Dt 4,44-26,19). Essi si presentano in stretta connessione con la stipulazione dell’alleanza al Sinai e costituiscono, insieme al Decalogo, una concretizzazione del “cammino di vita” ivi rivelato e offerto. Esponiamo tre temi morali che appaiono come specialmente rilevanti in questi codici.

 

a. I poveri e la giustizia sociale

Le leggi apodittiche del Codice dell’Alleanza, del Codice Deuteronomico e della Legge di Santità concordano nello stabilire misure destinate a evitare la schiavitù dei più poveri, prendendo in considerazione ancora la remissione periodica dei loro debiti. Queste disposizioni hanno talvolta una dimensione utopica, come la legge sull’anno sabbatico (Es 23,10-11), o quella sull’anno giubilare (Lv 25,8-17). Tuttavia, assegnando alla società israelitica l’obiettivo di combattere e di vincere la povertà, rimangono realistiche quanto alla difficoltà di questa lotta (cf. Dt 15,4 e Dt 15,11). La lotta contro la povertà presuppone la realizzazione di una giustizia onesta e imparziale (cf. Es 23,1-8; Dt 16,18-20). Essa si esercita in nome di Dio stesso. Diverse linee teologiche si adoperano per fondarla: le leggi apodittiche del Codice dell’Alleanza riprendono l’intuizione profetica della prossimità di Dio nei confronti dei più poveri. Il Deuteronomio da parte sua insiste sullo statuto particolare della terra affidata da Dio agli Israeliti: Israele, beneficiario della benedizione divina, non è il proprietario assoluto della terra, ma ne è l’usufruttuario (cf. Dt 6,10-11). Perciò, l’attuazione della giustizia sociale appare come la risposta credente d’Israele al dono di Dio (cf. Dt 15,1-11): la legge regola l’uso del dono e ricorda la sovranità di Dio sulla terra.

 

b. Lo straniero

34. La Bibbia ebraica utilizza un vocabolario differenziato per denominare gli stranieri: la parola ‘ger’ designa lo straniero residente che vive durevolmente accanto a Israele. Il termine ‘nokri’ riguarda lo straniero di passaggio, mentre i termini ‘tôshab’ e ‘sakir’ designano, nella Legge di Santità, dei salariati stranieri. La sollecitudine per il ‘ger’ si manifesta costantemente nei testi legislativi della Torah: sollecitudine puramente umanitaria in Es 22,20; 23,9; sollecitudine fondata sulla memoria della schiavitù in Egitto e della liberazione donata da Dio in Dt 16,11-12. È la Legge di Santità che, riguardo allo straniero, formula le regole più audaci: il ‘ger’ non è più “oggetto” della legge, ma ne diventa “soggetto”, che è corresponsabile con gli indigeni del paese della sua santificazione e della sua purità. “Indigeni” e “stranieri” sono così uniti da una responsabilità comune e da un vincolo descritto mediante il vocabolario dell’amore (cf. Lv 19,33-34). La Legge di Santità prevede quindi delle procedure per integrare gli stranieri – o almeno i ‘gerim’ – nella comunità dei figli d’Israele.

 

c. Culto ed etica

35. La letteratura profetica è senz’altro la prima che ha preso in considerazione la correlazione fra il culto reso a Dio e il rispetto del diritto e della giustizia. La predicazione di Amos (cf. Am 5,21) e quella di Isaia (cf. Is 1,10-20) sono particolarmente rappresentative di questa intuizione teologica.

Il Codice Deuteronomico da una parte giustappone leggi cultuali e prescrizioni di etica sociale: le leggi che concernono l’unicità del santuario dedicato a Dio e il divieto dell’idolatria (cf. Dt 12-13) precedono le leggi sociali di Dt 14,22–15,18; dall’altra parte unisce intimamente imperativi cultuali e imperativi etici. Così la decima triennale, imposta originariamente cultuale, riceve una nuova funzione dal fatto della centralizzazione del culto a Gerusalemme: provvedere cioè al sostentamento delle vedove, degli orfani, degli stranieri e dei leviti (cf. Dt 14,28-29; 26,12-15). Infine, le feste di pellegrinaggio richiedono la partecipazione dei più poveri (Dt 16,11-12.14): il culto reso a Dio al tempio di Gerusalemme non acquista la sua validità se non integrando una sollecitudine etica fondata sulla memoria della schiavitù in Egitto, della liberazione d’Israele e del dono del paese da parte di Dio. Le leggi della Torah attirano dunque l’attenzione del loro lettore sulle implicazioni etiche di ogni celebrazione cultuale, come sulla dimensione teologale dell’etica sociale.

I temi esposti in questo paragrafo sugli ‘insegnamenti morali’ mostrano che i codici legislativi della Torah sono particolarmente attenti alla morale sociale. La comprensione che Israele ha del suo Dio, conduce a una attenzione particolare ai più poveri, agli stranieri, alla giustizia. Così culto ed etica sono strettamente associati: offrire un culto a Dio e avere la sollecitudine per il prossimo sono le due espressioni inseparabili della stessa confessione di fede.

 

2.2.3.3. L’insegnamento morale dei Profeti

36. Il giusto comportamento morale è un tema fondamentale presso tutti i profeti, ma non lo trattano mai per sé stesso e in un modo sistematico. Essi si occupano dell’etica sempre in relazione al fatto che Dio conduce Israele attraverso la storia. Ciò funziona in modo retrospettivo: tenendo conto cioè del fatto che Dio ha liberato Israele dalla schiavitù nell’Egitto e lo ha condotto al proprio paese, gli Israeliti devono vivere secondo i comandamenti che Dio ha dato a Mosè al Monte Sinai (cf. la cornice dei dieci comandamenti in Dt 5,1-6.28-33). Tuttavia, perché non facevano questo e adottavano le abitudini delle nazioni, Dio si accingeva a mobilitare contro di loro invasori stranieri per devastare la loro terra e portare il popolo all’esilio (Os 2; Ger 2,1-3,5). Funziona pure in modo prospettico: Dio salverà un resto del popolo dalla dispersione fra le nazioni e lo farà tornare al loro paese ove vivranno, finalmente, come una comunità fedele intorno al tempio e ubbidienti agli antichi comandamenti (Is 4; 43). Questa connessione fondamentale fra etica e storia, sia passata sia futura, è elaborata in Ez 20, che costituisce la magna carta dell’Israele ri-nato.

Sulla base della presenza di Dio nella storia d’Israele i profeti hanno confrontato il popolo con il suo effettivo modo di vivere che era in pieno contrasto con la “Legge” di Dio (Is 1,10; 42,24; Ger 2,8; 6,19; Ez 22,26; Os 4,6; Am 2,4; Sof 3,4; Zc 7,12). Questa regola divina per la condotta d’Israele conteneva ogni sorta di norme e abitudini, provenienti dalla giurisdizione tribale e locale, dalle tradizioni familiari, dall’insegnamento sacerdotale e dall’istruzione sapienziale. La predicazione morale dei profeti mette l’accento sul concetto sociale di “giustizia” (mishpath, tsedaqah) (Is 1,27; 5,7; 28,17; 58,2; Ger 5,1; 22,3; 33,15; Ez 18,5; Os 5,1; Am 5,7). I profeti hanno messo la società israelitica a confronto con questo modello umano e divino in tutti gli aspetti: i diversi ruoli nel processo legale dal re al giudice e dal testimone all’accusato (Is 59,1-15; Ger 5,26-31; 21,11-22,19; Am 5,7-17), la corruzione delle classi dirigenti (Ez 34; Os 4; Mal 1,6-2,9), i diritti delle classi sociali e degli individui, specialmente degli emarginati (Is 58; Ger 34), la crescente spaccatura economica fra i latifondisti e i lavoratori agricoli impoveriti (Is 5,8.12; Am 8; Mic 2), l’inconseguenza fra servizio cultuale e comportamento comune (Is 1,1-20; Ger 7), e persino il degrado della moralità pubblica (Is 32,1-8; Ger 9,1-9).

Infine, per comprendere in modo adeguato l’etica degli scritti profetici si deve tener conto del fatto che la morale, sia pubblica sia privata, deriva ultimamente da Dio stesso, dalla sua rettitudine (Is 30,18; 45,8; Ger 9,24; Sof 3,5) e dalla sua santità (Es 15,11; Is 6,3; 63,10-11; Ez 37,28; Os 11,9).

 

2.2.4. L’alleanza con Davide

37. Questa alleanza in modo speciale è puro dono di Dio, in quanto non dipende dall’atteggiamento umano, dura per sempre e trova il suo compimento nella missione messianica di Gesù (cf. Lc 1,32-33).

Originariamente questa alleanza è nata, quando il popolo chiese a Dio un re, senza comprendere che Dio stesso era il suo vero re. Dio concesse l’istituto monarchico (1 Sam 8; Dt 33,5); il re però non è posto fuori dell’alleanza stipulata da Dio con il suo popolo, bensì vi è coinvolto e quindi deve comportarsi secondo le leggi stabilite da Dio. Il regno di Davide veniva concesso in modo da realizzare un rapporto diverso con il Signore (1 Sam 16,1-13; 2 Sam 5,1-3; cf. Dt 17,14-20). Nel racconto della fondazione di questa dinastia non ricorre il termine “alleanza”. L’oracolo di Natan non contiene condizioni esplicite e costituisce una forte promessa. L’impegno del Signore è assoluto (2 Sam 7,1-17). Nel caso di un fallimento dei successori di Davide, che difatti cominciava già con Salomone, Dio li castigherà, non tanto per punirli ma per correggerli. Il suo atteggiamento paterno verso la discendenza di Davide non cesserà mai (2 Sam 7,14-15; cf. Sal 2,6-7). Per conseguenza il regno di questo eletto di Dio durerà per sempre (2 Sam 7,13-16) perché secondo il salmista Dio ha giurato in modo chiaro: “Non romperò mai la mia alleanza” (Sal 89,35).

 

2.2.5. La “nuova alleanza” secondo Geremia

38. Il testo di Ger 31,31-34 è l’unico che parla esplicitamente di una “nuova alleanza”:

“Verranno giorni…nei quali…concluderò una alleanza nuova. Non come l’alleanza che ho concluso con i loro padri … che essi hanno violato ... Questa sarà l’alleanza che io concluderò … Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore.

Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo.

Non dovranno più istruirsi gli uni gli altri …. Perché tutti mi conosceranno ... Poiché io perdonerò la loro iniquità e non mi ricorderò più del loro peccato.”

Sono da notare i punti seguenti:

1. All’inizio e alla fine si trovano due affermazioni sull’intervento del SIGNORE riguardo all’alleanza: questa cornice includente elabora la novità dell’alleanza per quanto riguarda lo stesso Dio in termini di perdono e di non ricordarsi più. Israele stesso semplicemente non fa nulla: nessuna confessione o espiazione della colpa, nessuna iniziativa di tornare a Dio. Spetta completamente al SIGNORE creare un atteggiamento positivo da parte d’Israele.

2. Si aggiungono due caratteristiche della nuova alleanza. Ormai la Torah è “data nell’ animo” e “scritta nel cuore” (cf. Ez 36,26-27). Di conseguenza, “tutti conosceranno” Dio, cioè avranno con lui una relazione intima, secondo il senso forte del verbo ebraico, che include la prassi della giustizia (cf. Ger 22,15-16).

3. Due antitesi sottolineano il carattere specifico dell’alleanza nuova riguardo a quella conclusa coi padri nel deserto. Questa, scritta sulla pietra, venne violata da loro e dalle generazioni successive; l’altra è assolutamente nuova in quanto sarà scritta nei cuori. Inoltre, l’insegnante sarà il SIGNORE stesso, e non più mediatori umani.

4. Nel centro del brano emerge la formula dell’alleanza, che afferma l’appartenenza reciproca del SIGNORE e del suo popolo. Questa formula non è cambiata, è ancora valida e costituisce il cuore del passo.

5. Tutto sommato, la nuova alleanza non è diversa dall’antica per quanto riguarda i partner, l’obbligazione a osservare la Torah e il rapporto con il SIGNORE. L’esegesi precedente conduce alla conclusione che c’è solo un impegno del SIGNORE nei confronti d’Israele, mentre questo popolo attraversa i secoli, benché sia vero che la sua forma effettiva, l’alleanza, subisce modifiche nelle diverse epoche della storia d’Israele fino alla sua riforma fondamentale durante l’esilio. La stessa concezione dell’alleanza, che è caratterizzata dall’incondizionata fedeltà di Dio, si può trovare anche in altri testi (Lv 26,44-45; Ez 16,59-60) oppure nella storia del vitello d’oro (Es 32-34) come in un parallelo narrativo (in particolare Es 34,1-10).

6. Il concetto della nuova alleanza non implica una opposizione tra il Nuovo Testamento e l’Antico e neanche tra i cristiani e i giudei (cf. “Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana” nn. 39-42). Comporta invece un rinnovamento fondamentale nella storia dell’alleanza stessa, in quanto il SIGNORE dona al suo popolo l’abilità connaturale di vivere secondo la Torah sulla base del perdono della loro iniquità e del dono dello Spirito santo. Questo per i cristiani si è realizzato nella morte salvifica di Gesù per la remissione dei peccati (Mt 26,28).

 

2.2.6. L’insegnamento morale dei sapienti

39. Scopo dei libri sapienziali è insegnare il giusto comportamento agli uomini. Perciò costituiscono una manifestazione importante dell’etica biblica. Alcuni sono più determinati dall’esperienza umana (per esempio il libro dei Proverbi) e dalla riflessione sulla condizione umana e costituiscono un nesso prezioso con la saggezza di altri popoli, altri si trovano in un collegamento più stretto con l’Alleanza e con la Torah. Al primo gruppo appartiene il libro del Qoelet, al secondo il libro del Siracide. Di questi due libri ci occupiamo a titolo di esempio.

a. Il libro di Qoelet

Qoelet fa parte del movimento della sapienza, ma è caratterizzato dal suo approccio critico. Inizia con la constatazione: “Vanità delle vanità, dice Qoelet, vanità delle vanità, tutto è vanità” (1,2) e la ripete nella parte conclusiva (12,8).

Il termine “vanità” (hebel) significa letteralmente: respiro, vapore, soffio, e viene riferito a tutto ciò che è effimero, fugace, instabile, incomprensibile, enigmatico. Qoelet caratterizza con esso tutti i fenomeni della vita umana. Gli uomini vivono in un mondo del quale non hanno nessun controllo, in un mondo pieno di inconsistenze, anzi di contraddizioni. Niente di ciò che si ottiene in questo mondo ha un valore durevole: sapienza, ricchezza, piacere, fatica, giovinezza, la stessa vita. La gente può o non può ricevere ciò che merita. Tutto è sottoposto allo spettro della morte, l’unico fattore nella vita che è inevitabile e al quale nessuno scampa. Nonostante le inconsistenze e le vicissitudini della vita, gli uomini devono accettare il loro posto nel rapporto con Dio. Questo è il significato dell’ammonizione di Qoelet: “Abbi il timor di Dio” (5,6).

Contro i vari tentativi e sforzi umani di dominare e comprendere la vita Qoelet pone come unica alternativa realistica di accettare il fatto che un controllo non è possibile, e di lasciar andare le vicende. Solo così si verifica la possibilità di trovare gioia e soddisfazione in tutto ciò che si fa. Sette volte Qoelet esplicitamente esorta gli uomini a rallegrarsi sempre quando si presenti loro un’opportunità (2,24-26; 3,12-13.22; 5,18-20; 8,15; 9,7-10; 11,7-12,1), perché questa è la sorte data loro da Dio come rimedio per le miserie della vita. Ma in nessuna parte si raccomanda uno stile di vita edonistico.

Anche se l’etica di Qoelet non richiede un cambio radicale delle strutture, essa comporta interessanti elementi di critica politica e sociale. Il sapiente fustiga certi scandali e abusi inerenti al sistema della monarchia: il caso del re che invecchia e diventa testardo e autocrate (4,13), l’usurpazione del potere da parte di un criminale o di un arrivista (4,14-16), la corruzione dei funzionari a spese dei poveri e dei contadini (3,16; 4,1; 5,7-8), l’inutile moltiplicarsi di amministratori pubblici, se manca loro la sapienza (7,19), l’attribuzione di promozioni e responsabilità a incapaci (10,5-7), la continua festa alla corte del re bambino (10,16). Dal punto di vista sociale egli denuncia i seguenti comportamenti: la gelosia e la competizione (4,4), l’oziosità e la pigrizia (4,5), lo strapazzo e l’attivismo (4,6), l’individualismo e la sete del guadagno (4,7-12). In breve, in questo scritto sapienziale, per certi aspetti quasi moderno, si trova una miniera di riflessioni utilissime per ispirare una vita equilibrata, sul piano sia personale sia collettivo.

 

b. Il libro del Siracide

40. Siracide vede la sapienza non solo associata all’esperienza umana e derivante da Dio ma anche fermamente attaccata alla storia della salvezza e alla Torah di Mosè (24,23). Nel Siracide ambedue le realtà, rivelazione ed esperienza, sono congiunte e integrate senza eliminare né l’una né l’altra. Corrispondentemente, il Siracide può presentare gli eroi d’Israele (44-50) come esempi della sapienza e insistere sull’osservanza della Torah e allo stesso tempo apprezzare la bellezza e armonia della creazione (42,15–43,33), prendere insegnamenti dalla natura e accettare le osservazioni e le massime dei saggi che l’hanno preceduto.

Il libro, in gran parte, è una collezione di diverse istruzioni, esortazioni e massime che riguardano tutta la gamma di temi riferiti alla vita virtuosa e alla condotta etica. Ci sono doveri verso Dio, doveri domestici, obblighi e responsabilità sociali, virtù da praticare e vizi da evitare per la formazione del carattere morale. Il libro costituisce una specie di manuale per il comportamento morale. Esalta la singolare eredità d’Israele, in particolare insiste nella richiesta che il popolo di Dio partecipi alla sapienza di Dio in un modo singolare, perché dispone di un’altra fonte di sapienza nella Torah.

L’inizio e la corona, la perfezione e la radice della saggezza è “il timore del Signore” (1,14.16.18.20). Per Siracide, sapienza e timore del Signore sono praticamente sinonimi e si manifestano nell’ubbidienza alla legge di Mosè (24,22).

La sapienza è pure attiva nello sviluppo dei rapporti all’interno della famiglia: doveri dei figli verso i genitori (3,1-16; 7,27-28); doveri dei genitori verso i figli (7,23-25; 16,1-14); relazioni con donne: la moglie (7,19; 23,22-26; 25,12–26,18), le figlie (7,24-26; 22,4-5), le donne in genere (9,1-9).

La sapienza è riferita anche a diversi aspetti della vita sociale: distinzione di veri e falsi amici (6,5-17; 12,8-18); cautela con estranei (11,29-34); atteggiamenti verso la ricchezza (10,30-31; 13,18-26); moderazione e riflessione negli affari (11,7-11; 26,29–27,3) e tanti altri argomenti.

Per la sapienza non c’è un’area della vita che non sia degna di attenzione. La vita di ogni giorno comprende innumerevoli situazioni che esigono determinati atteggiamenti, decisioni e azioni non regolate dalle grandi leggi. Di questo campo si occupa la sapienza tradizionale. Nella convinzione che tutta la vita è sotto il controllo di Dio, Israele incontra il suo Creatore anche nella vita quotidiana. Siracide combina esperienza personale e sapienza tradizionale con la rivelazione divina nella Torah, la prassi liturgica e la devozione personale.

I saggi si occupano del mondo che Dio ha creato e nella cui bellezza, ordine e armonia si rivela qualcosa del suo Creatore. Mediante la sapienza Israele incontra il suo Signore in una relazione vitale che è aperta anche agli altri popoli. L’apertura della sapienza israelitica alle nazioni e il carattere chiaramente internazionale del movimento dei sapienti può provvedere una base biblica per un dialogo con le altre religioni e per la ricerca di un’etica globale. Il Dio Salvatore di giudei e cristiani è pure il Creatore che si rivela nel mondo da lui creato.

 

3. LA NUOVA ALLEANZA IN GESÙ CRISTO COME ULTIMO DONO DI DIO E LE SUE IMPLICAZIONI MORALI

41. Come abbiamo visto nelle esposizioni sull’Antico Testamento, la categoria di ‘alleanza’ è dominante per concepire e descrivere il rapporto specifico fra Dio e il popolo d’Israele. Nel Nuovo Testamento questo termine non è molto frequente: si trova trentatré volte, di cui sei con la specificazione di ‘nuova alleanza’. Determinante e fondamentale per il rapporto fra Dio e il popolo d’Israele e tutti gli uomini è nel Nuovo Testamento la persona di Gesù, la sua opera e il suo destino. Vediamo come nei principali scritti del Nuovo Testamento si manifesta questo dono che Dio ha fatto nel suo Figlio Gesù Cristo, e quali sono gli orientamenti per la vita morale che ne derivano e concludiamo con i testi sull’eucaristia, nei quali Gesù stabilisce un intimo rapporto tra la sua persona e il suo cammino e la nuova alleanza.

 

3.1. La venuta del Regno di Dio e le sue implicazioni morali

 

3.1.1. Il Regno di Dio: tema principale della predicazione di Gesù nei sinottici

42. Gesù fece del termine ‘regno di Dio’ una metafora centrale del suo ministero terrestre e gli diede un significato e una forza nuova, espressa mediante le qualità del suo insegnamento e della sua missione. Compreso quale equivalente della presenza sovrana di Dio stesso che viene per vincere il male e trasformare il mondo, il regno di Dio è pura grazia – scoperta come tesoro nascosto in un campo o come perla di grande valore che spinge ad essere acquistata (cf. Mt 13,44-46) ; quindi non si tratta di un diritto naturale e neanche viene meritato.

 

a. L’espressione “il regno di Dio

Alla radice dell’espressione c’è il convincimento fondamentale della fede biblica che Dio è il signore sovrano, un’idea che viene acclamata nei Salmi e in altri libri biblici (cf. Sal 93,1-2; 96,10; 97,1; 99,1; 103,19; 145,13; Is 52,7).

Benché non fosse un tema comune o prevalente, l’ardente desiderio del regno di Dio che viene, era presente nell’Israele post-esilico ed era equivalente al desiderio della venuta di Dio, che allontana le minacce e ingiustizie sperimentate dal popolo. La nozione del regno di Dio ha un carattere essenzialmente comunitario (derivato da un concetto politico che riguardava la comunità intera d’Israele), escatologico (come una esperienza definitiva della presenza di Dio, che supera qualsiasi altra esperienza di sovranità) e soteriologico (per la convinzione che Dio vincerà il male e trasformerà la vita d’Israele). Mentre il termine si trova solo in modo marginale e sporadico nell’Antico Testamento e nella letteratura giudaica, esso diventa un motivo centrale nell’insegnamento e nella missione di Gesù.

 

b. La dimensione presente e futura del regno di Dio

43. Gli interpreti del Nuovo Testamento da molto tempo hanno notato che l’insegnamento di Gesù sul regno di Dio ha un carattere sia futuro sia presente. Alcuni detti e parabole di Gesù descrivono il regno di Dio come un evento futuro non ancora realizzato. Questo si esprime, per esempio, nella richiesta della preghiera del Signore: “venga il tuo regno” e si trova anche nel testo-chiave di Mc 1,14-15 (Mt 4,17) che descrive il regno di Dio come “vicino” o “avvicinato” ma non ancora presente. Le beatitudini stesse, con la loro promessa di futura benedizione e giustificazione, presentano il regno di Dio come un evento ancora futuro.

Allo stesso tempo ci sono detti di Gesù che parlano del regno di Dio come di una cosa in un certo modo già presente. Un detto chiave, sia in Matteo sia in Luca, collega l’esperienza del regno di Dio con le guarigioni e gli esorcismi di Gesù: “Ma se io scaccio i demoni con il dito di Dio (Mt: spirito di Dio) è dunque giunto per voi il regno di Dio” (Mt 12,28; Lc 11,20). Il detto famoso di Lc 17,20-21 “Il regno di Dio non viene in modo da attirare l’attenzione, e nessuno dirà: Eccolo qui, o eccolo là. Perché il regno di Dio è in mezzo a voi!” ribadisce anche il carattere presente e inatteso del regno di Dio.

Si manifesta qui una dinamica importante con implicazioni per la vita morale cristiana. La futura realtà del regno di Dio invade (e determina) la situazione presente. Il vero e definitivo destino dell’umanità con Dio, quando il male sarà vinto, la giustizia ristabilita e l’anelito umano di vita e di pace pienamente realizzato, rimane una esperienza futura, ma i contorni di questo futuro – un futuro che rivela l’intento pieno della volontà di Dio per l’umanità – aiutano a definire che cosa dovrebbe essere la vita umana già nel presente. Quindi valori e virtù, che ci rendono conformi alla volontà di Dio e che vengono pienamente affermati e rivelati nel futuro regno di Dio, devono essere praticati adesso nella misura in cui è possibile nelle circostanze peccaminose e imperfette della vita nel tempo attuale, come insegnano le parabole della rete e della raccolta (cf. Mt 13,24-30.36-43.47-50). Questo rappresenta la dimensione essenzialmente escatologica della vita e dell’etica cristiana.

Gesù non solo proclama la vicinanza del regno di Dio (Mt 4,17) ma insegna anche a pregare “venga il tuo regno” e “sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra” (Mt 6,10). Tale anelito che Dio venga e che la realtà umana sia formata dalla volontà di Dio manifesta anche la base strettamente teologica dell’etica cristiana, dimensione che risuona di tutta la tradizione biblica (“Siate santi, perché io, il SIGNORE, Dio vostro, sono santo.” Lv 19,2).

c. Il regno di Dio, la nuova alleanza e la persona di Gesù

44. Il regno di Dio non viene nelle manifestazioni abituali di regalità, ma può essere scoperto solo mediante l’attenzione a Gesù e alla sua missione e mediante le virtù caratteristiche di cui egli offre l’esempio nel suo ministero. Sono le azioni di Gesù, che nei detti riportati poco fa (Mt 12,28; Lc 11,20) vengono connesse con l’attuale esperienza del regno di Dio. I suoi esorcismi e le sue guarigioni operano una genuina sconfitta del male e del potere del Maligno sul corpo e sulla persona umana e generano una esperienza di liberazione collegata con il regno di Dio. Il ministero di Gesù esprime anche la sua compassione per le folle di ammalati che vengono da lui (cf. Mt 9,35-36) e la loro accoglienza nel regno di Dio (Mt 4,23-25; 15,29-31); ambedue le prospettive sono presentate come tipiche nell’insegnamento di Gesù sul regno di Dio (cf. per es. le parabole sulla misericordia in Lc 15 e sul banchetto in Lc 14).

Benché il termine ‘nuova alleanza’ sia raro nei sinottici, essa si trova connessa con il regno di Dio. Nell’istituzione dell’eucaristia Gesù dice: “Questo è il mio sangue dell’alleanza versato per molti in remissione dei peccati” e aggiunge subito: “Io vi dico che da ora non berrò più di questo frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo con voi nel regno del Padre mio” (Mt 26,28-29).  Nel banchetto del regno, nella perfetta comunione con Gesù e con il  Padre, la nuova alleanza raggiunge la sua pienezza ed è interamente realizzata la promessa: “Io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo” (Ger 31,33b; cf. Ap 21,3).

Mediante Gesù Dio realizza anche due altri tratti caratteristici della ‘nuova alleanza’, senza che il termine si trovi esplicitamente. Si tratta del perdono dei peccati (iniquità) e della conoscenza di Dio (cf. Ger 31,34).

In un episodio riferito da tutti e tre i sinottici, Gesù presenta la missione ai peccatori come parte essenziale del compito che Dio gli ha affidato (Mt 9,2-13 parr.). Gesù perdona i peccati a un paralitico che con grande fede e sforzo viene portato da lui, e causa lo sdegno profondo di alcuni scribi. Solo in un secondo momento guarisce il paralitico con la sua parola e interpreta la guarigione stessa come conferma della sua autorità di poter perdonare i peccati. Ribadisce poi il fatto che questa autorità non è ristretta a un singolo caso ma fonda una sua missione universale, mediante il detto: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Andate dunque e imparate che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrificio. Infatti non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori” (Mt 9,12-13). Per la volontà di Dio Gesù è venuto ed è Dio che vuole misericordia. Mediante Gesù è Dio che manifesta la sua misericordia e concede il perdono dei peccati, realizzando una caratteristica fondamentale della nuova alleanza (cf. Ger 31,34b).

L’altra promessa “Tutti mi conosceranno” (Ger 31,34a) è realizzata in Gesù in modo eminente. Del suo rapporto con Dio egli dice: “Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare” (Mt 11,27; Lc 10,22; cf. Ger 22,16). Gesù come Figlio di Dio è abilitato dal Padre a una esclusiva conoscenza di Dio come Padre; ha pure ricevuto l’esclusivo compito di rivelare, di far conoscere cioè, Dio come Padre agli uomini. Così la promessa di Ger 31,34a viene precisata e concretizzata: attraverso Gesù, Figlio di Dio e perfetto conoscitore del Padre, si ottiene l’accesso all’intima e perfetta conoscenza di Dio. Questa conoscenza è anche necessaria per una adeguata comprensione del ‘regno di Dio’, che costituisce il contenuto centrale dell’annuncio di Gesù e che Gesù talvolta chiama anche ‘il regno del loro (o ‘mio’) Padre’ (Mt 13,43; 26,29).

Il perdono dei peccati oppure la riconciliazione con Dio, poi la conoscenza di Dio e la comunione con Dio, appaiono come gli impegni principali dell’attività di Gesù secondo la presentazione sinottica. Sono inseriti nell’annuncio del regno di Dio ma corrispondono anche ai tratti caratteristici della nuova alleanza di Ger 31,31-34. Gesù come Figlio conosce il Padre in un modo completo ed esclusivo e vive nella più intima unione con Dio. Questo suo singolare rapporto con Dio è la base dei suoi principali compiti. La sua attività manifesta pure in quale modo concreto Dio comunica il suo definitivo dono ed adempie la sua promessa della nuova alleanza: attraverso il mediatore Gesù che dispone di tali qualità.

La posizione centrale di Gesù per il rapporto dell’uomo con Dio ha come conseguenza la sua posizione centrale per la vita morale. Egli rappresenta nella sua persona non solo il regno di Dio e la nuova alleanza ma anche la Legge, perché egli viene condotto nel modo più perfetto dalla volontà di suo Padre (cf. Mt 26,39.42), fino alla manifestazione massima del suo amore, al versamento del suo sangue. Si deve quindi agire nel suo Spirito e seguire il suo esempio per camminare sulla via di Dio.

 

3.1.2. L’annuncio del regno di Dio e le sue implicazioni morali

45. Gesù annuncia il vangelo di Dio e dice: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino” e aggiunge subito l’esortazione per il nostro agire: “Convertitevi e credete nel vangelo!” (Mc 1,15). Annuncia la vicinanza del regno di Dio, affinché esso venga ascoltato e accolto in conversione e fede. Occorre un cambiamento di mentalità, un nuovo pensare e vedere, determinato dal regno di Dio, che in una fede consapevole viene riconosciuto nella sua piena realtà.

Compito principale della missione di Gesù è rivelare Dio, il Padre (Mt 11,27), e il suo regno, il suo modo di agire. Questa rivelazione si verifica attraverso tutta la missione di Gesù, mediante il suo annuncio, le sue opere di potenza, la sua passione e la sua risurrezione.

Ciò facendo, Gesù allo stesso tempo rivela le norme del giusto agire umano. Afferma questa connessione in modo esplicito ed esemplare quando dice: “Voi dunque siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli” (Mt 5,48); conchiude e fonda così il suo insegnamento sull’amore dei nemici (Mt 5,43-48) e tutta la sezione delle antitesi (Mt 5,21-48). Ne presentiamo alcuni aspetti.

 

a. Gesù come guida

46. Gesù manifesta la sua autorità di mostrare il giusto cammino per l’agire umano in modo specifico nella chiamata di discepoli. Tutti e quattro i vangeli riferiscono la chiamata all’inizio del ministero di Gesù (Mt 4,18-22; Mc 1,16-20; Lc 5,1-11; Gv 1,35-51). Con l’invito-comando “Seguitemi!” (Mc 1,17) egli si presenta come guida che conosce sia la meta sia il cammino per giungervi e offre ai chiamati la comunione di vita con sé e l’esempio del cammino da lui tracciato. Concretizza così il comando precedente “Convertitevi e credete!” (1,15), e i suoi discepoli vivono la conversione e la fede accettando il suo invito e affidandosi alla sua guida.

Il cammino tracciato da Gesù non si presenta come una norma autoritaria imposta dall’esterno: Gesù stesso percorre questo cammino e non chiede altro al discepolo che di seguire il suo esempio. Il suo rapporto con i discepoli, inoltre, non consiste in un ammaestramento asettico e disinteressato: li chiama “figlioli” (Gv 13,33; 21,6), “amici” (Gv 15,14-15), “fratelli” (Mt 12,50; 28,10: Gv 20,17); e non solo loro, perché invita tutti gli uomini e tutte le donne a venire da lui e a entrare in una stretta e cordiale comunione di vita con lui (Mt 11,28-30). In questa comunione di vita essi imparano il giusto comportamento da Gesù, partecipano al suo Spirito, camminano insieme a lui.

Il rapporto Gesù-discepoli non è una vicenda a termine, bensì il modello per tutte le generazioni. Quando Gesù manda gli undici discepoli alla missione universale, si riferisce alla sua autorità onnicomprensiva e dice loro: “A me è stato dato pieno potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco io sono con voi tutti i giorni, fino a quando questo tempo sarà compiuto” (Mt 28,18-20). Tutti i membri di tutti i popoli fino alla fine dei tempi sono destinati a diventare discepoli di Gesù. Il rapporto e l’esperienza con la persona di Gesù che i primi discepoli hanno vissuto, e l’insegnamento che Gesù ha impartito a loro, sono validi ed esemplari per tutti i tempi.

 

b. Le beatitudini (atteggiamenti particolarmente sottolineati)

47. Una serie di virtù o di atteggiamenti fondamentali si trovano nelle beatitudini. Matteo ne enumera otto e Luca quattro all’inizio del primo e più lungo discorso di Gesù (cf. Mt 5,3-10; Lc 6,20-22), presentandole come una specie di sintesi del suo insegnamento. Le beatitudini sono una forma letteraria utilizzata nell’Antico Testamento e anche in altre parti del Nuovo Testamento. In esse gioia e felicità vengono attribuite a certe persone e atteggiamenti, spesso in connessione con una promessa di futura benedizione. In ambedue i vangeli la prima beatitudine riguarda i poveri e l’ultima i perseguitati: Gesù li dichiara proprietari del regno di Dio, creando così una stretta connessione fra il tema centrale del suo annuncio e gli atteggiamenti da lui rilevati.

In Matteo (5,3-10) le beatitudini menzionano i poveri in spirito, quelli cioè che vivono in una situazione precaria e, sopratutto, sanno e riconoscono di non aver niente da se stessi e di dipendere per tutto da Dio; poi gli afflitti che non si chiudono in se stessi ma partecipano, in compassione, alle necessità e sofferenze altrui. Seguono i miti che non usano violenza ma rispettano il prossimo così com’è. Coloro che hanno fame e sete della giustizia desiderano intensamente di agire secondo la volontà di Dio in attesa del regno. I misericordiosi aiutano attivamente i bisognosi (cf. Mt 25,31-46) e sono pronti al perdono (Mt 18,33). I puri di cuore cercano la volontà di Dio con un impegno integro e indiviso. Gli operatori di pace fanno di tutto per mantenere e per ristabilire fra gli uomini la convivenza ispirata all’amore. I perseguitati a causa della giustizia rimangono fedeli alla volontà di Dio nonostante le gravi difficoltà che questo atteggiamento porta con sé.

Tali virtù e atteggiamenti corrispondono all’insegnamento di Gesù in tutti i vangeli e rispecchiano pure il comportamento dello stesso Gesù. Perciò la fedele sequela di Gesù porta a una vita animata da queste virtù.

Abbiamo già ricordato la stretta connessione fra l’atteggiamento umano e l’agire di Dio (regno di Dio) nella prima beatitudine e nell’ultima. Ma questo collegamento si trova in tutte le beatitudini; ciascuna parla, talvolta un po’ velatamente, nella parte finale, del ‘futuro agire’ di Dio: Dio li consolerà, Dio fa loro ereditare la terra, Dio li sazierà, Dio avrà misericordia di loro, Dio li ammetterà alla sua visione, Dio li riconoscerà come i suoi figli. Nelle beatitudini Gesù non stabilisce un codice di norme e obblighi astratti che riguardano l’agire giusto umano: mostrando l’agire giusto degli uomini, egli rivela allo stesso tempo il futuro agire di Dio. Perciò le beatitudini sono una delle più dense ed esplicite rivelazioni su Dio che si trovino nei vangeli. Esse presentano il futuro agire di Dio non solo come ricompensa dell’agire giusto umano, ma anche come base e motivo che rende possibile e ragionevole l’agire umano richiesto. Essere poveri in spirito o essere fedeli nella persecuzione non sono obblighi a se stanti: chi accetta con fede la rivelazione di Gesù sull’agire di Dio, condensata nell’annuncio del regno di Dio, viene reso capace di non chiudersi nella propria autonomia bensì di riconoscere la sua completa dipendenza da Dio, e di non voler salvare la sua vita ad ogni costo ma di subire la persecuzione.

Non possiamo menzionare tutti gli atteggiamenti giusti che si manifestano nel comportamento e insegnamento di Gesù. Ricordiamo solo la forte insistenza di Gesù sul perdono nei confronti di coloro che sono diventati i nostri debitori (Mt 6,11.14-15; 18,21-35); la sollecitudine per i bambini (Mc 9,35-37; 10,13-16) e la premura per le persone semplici (Mt 18,10-14). La sequela di Gesù si manifesta, in modo particolare, nell’atteggiamento di non voler essere serviti ma di essere pronti a servire. Gesù fonda questa richiesta esplicitamente sull’esempio dato da lui stesso: “Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire, e dare la propria vita in riscatto per molti” (Mc 10,45). Il servizio di Gesù è senza limite e include il sacrificio della vita. La morte di Gesù in croce per tutta l’umanità è l’espressione più alta del suo amore. Perciò l’invito al discepolato non significa solo seguire Gesù nel suo agire, nel suo stile di vita, nel suo ministero, ma include l’invito a partecipare alle sue sofferenze e alla sua croce, ad accettare persecuzioni e persino una morte violenta. Il che si manifesta anche nella richiesta che Gesù rivolge a tutti, ai discepoli e alla folla: “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Mc 8,34).

 

3.2. Il dono del Figlio e le sue implicazioni morali, secondo Giovanni

 

3.2.1. Il dono del Figlio, espressione dell’amore salvatore di Dio

48. Il Figlio è venuto e viene perché è mandato dal Padre: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16). Il Figlio è venuto e continua a venire, come ci spiega continuamente lo Spirito che annuncia “ciò che viene” (16,13). Fin dalla sua prima venuta egli è mosso dal desiderio di affiancarsi all’uomo per fargli superare la solitudine. L’uomo ha bisogno di lui, anche se non lo sa. L’accettazione della sua venuta porta salvezza.

 

a. La venuta di Gesù

L’intervento di Gesù introduce un ordine nuovo nel modo di vivere dell’uomo. Il manifesto di questa trasformazione è visibile nel dialogo con Nicodemo (Gv 3,1-21) e il vocabolario preferenziale è costituito, nel vangelo, dalle espressioni sulla nuova vita o nuova nascita e, nella prima lettera, da quelle sulla situazione di figli di Dio, nati da Dio; in ambedue, dal vocabolario del “rimanere” (a partire dalla similitudine della vite e dei tralci), ma anche dalla contrapposizione tra l’ordine della carne e quello dello spirito. La novità che Gesù porta è frutto di dono gratuito, che chiede di essere accettato, e chi lo rifiuta è colpevole e si pone fuori dell’ordine della salvezza. Che se poi ci domandiamo perché possa avvenire tale rifiuto, il riferimento è ancora a colui che ha portato tale novità: in ultima istanza, è il rifiuto della sovranità amorosa di Dio manifestata nell’intervento del suo inviato.

 

b. I segni e i discorsi rivelatori di Gesù

49. Un particolare modo dimostrativo dell’intervento di Gesù produttore di novità è il ‘segno’ (in greco ‘semeion’), dotato della particolare forza manifestata nel miracolo. La struttura stessa del miracolo offre indicazioni particolarmente efficaci: da un punto di partenza di bisogno, paura e pericolo, o più spesso di sofferenza, avviene il passaggio a una situazione di superamento di quelle forme di carenza. Gesù fa passare dalla festa di nozze alla quale manca il vino (la gioia) a nozze che dispongono di vino in abbondanza (2,1-11), dalla malattia pericolosa (4,46-54) o di lunga durata (5,1-9) alla salute completa, dalla fame della grande folla alla sua sazietà (6,1-15), dalla cecità alla luce (9,1-7) e dalla tomba di morte alla vita riacquistata (11,1-44). Il significato di questi passaggi viene dettagliatamente esposto in discorsi di Gesù per quanto riguarda la moltiplicazione dei pani (6,22-70), la guarigione del cieco (9,8-41) e la risurrezione di Lazzaro (11,1-44). Esso viene sintetizzato da Gesù nei singolari detti sulla sua persona: “Io sono il pane della vita, chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete” (6,35). “Io sono la luce del mondo, chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita” (8,12). “Io sono la porta: se uno entra attraverso di me sarà salvo; entrerà e uscirà e troverà pascolo” (10,9). “Io sono il buon pastore. Il buon pastore offre la vita per le pecore” (10,11; cf. 10,14-15). “Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore vivrà; chiunque vive e crede in me non morrà in eterno” (11,25-26). “Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me” (14,6). “Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete fare nulla” (15,5).

In questi detti Gesù esprime che cosa Dio Padre ha dato all’umanità nella persona del Figlio. Gesù è pane, luce, porta, pastore, risurrezione e vita, via, verità e vita, e vite. Allo stesso tempo dice che cosa gli uomini devono fare per poter usufruire dei beni della sua presenza: venire da lui, credere in lui, seguirlo, rimanere in lui. Rivela pure quali sono i beni da lui comunicati: la vita, l’uscita dalle tenebre e l’orientamento completo, il superamento della morte mediante la risurrezione, la conoscenza del Padre e la piena comunione con lui. Benché i termini siano un po’ diversi, troviamo i doni della nuova alleanza, cioè la conoscenza di Dio (luce, verità) e la legge (porta, pastore, via) e, come frutto e conseguenza, la vita. Tutto questo è presente nella persona di Gesù e viene comunicato da lui in una maniera interna e organica, simboleggiata dal rapporto fra la vite e i tralci.

 

3.2.2. Il comportamento del Figlio e le sue implicazioni morali

50. Dinanzi alla comparsa del Figlio di Dio nella storia l’uomo è invitato ad esprimere la totale accettazione e ad aprirsi alla salvezza. L’accettazione si manifesta come adesione della vita, in ogni suo atteggiamento.

 

a. Seguire l’esempio del Figlio

Modello per questo atteggiamento è il comportamento del Figlio stesso, che fa coincidere la sua volontà con la volontà del Padre, nell’accettazione e nell’espletamento della sua missione: suo cibo è fare la volontà del Padre (4,34), egli fa sempre le cose che gli sono gradite, osserva la sua parola (8,29.55), dice le cose che il Padre gli ha dato comando di dire (12,49). E da parte di Gesù ogni suo insegnamento suggerisce un comportamento. Fino a queste conseguenze giunge l’impegno degli “adoratori in spirito e verità” (4,24).

Contemporaneamente a quanto egli dice, è normativo tutto ciò che egli fa, per la forza esemplare di quanto egli compie. In particolare l’applicazione avviene per il suo atteggiamento di servizio (si ricordi la lavanda dei piedi: “Vi ho dato esempio” 13,15) e per la vita che egli dà (15,13: “dare la vita per i propri amici”; l’enunciato è contenuto in una sentenza generica ma in appoggio al comando precedente, “che vi amiate…come io vi ho amati”). A causa dell’autorità di Gesù diventa fondante di obbligo morale il suo comportamento, criterio di scelta: è il “come” dell’imitazione. Altrettanto fondante è il suo comandamento, che offre la piattaforma per la verifica dell’amore autentico del discepolo (“chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi mi ama” 14,21). Il culmine dell’imitazione si verifica nella missione che il discepolo realizza “come” si è realizzata quella di Gesù (20,21), a controprova dell’amore che il discepolo nutre per il suo Signore (21,19).

La parentesi giovannea pone Gesù come riferimento di comportamento, in continuazione con l’insegnamento di Gesù stesso. “Chi dice di dimorare in Cristo deve comportarsi come lui si è comportato” (1 Gv 2,6).

 

b. Fede in Gesù e amore ai fratelli

51. La venuta di Gesù ha portato novità; la novità antropologica e soteriologica rende possibile e richiede novità di comportamento. La fede è la grande ‘novità’ di atteggiamento richiesta all’uomo: fede è lasciare se stessi e ‘venire’ a Gesù, abbandonare l’illusione della propria autosufficienza e riconoscersi ciechi, bisognosi di Gesù luce, mutare l’atteggiamento abituale di “giudicare secondo le apparenze”, azzerare di fronte all’inviato divino la propria autonomia, per ottenere la sua libertà (di figlio) e vincere il peccato.

Con la fede, l’amore ai fratelli. È, anche questo, concreto inserimento nel mistero di Gesù, originato dall’amore del Padre. Il Padre ama Gesù, Gesù ama i discepoli, i discepoli devono amarsi a vicenda. Realtà ‘nuova’, ha la forza di diventare segno (Gv 13,36) e di fare superare la morte (1 Gv 3,14). L’amore è il ‘frutto’ della fede (Gv 15,8).

Chi crede in Gesù e ama i fratelli, “non pecca”, cioè non vive in peccato (1 Gv 3,6), benché tutti abbiamo delle mancanze e in questo senso siamo tutti peccatori, però “il Sangue di Gesù, il Figlio di Dio, ci purifica da ogni peccato” (1 Gv 1,7).

Chi crede in Gesù e ama i fratelli “conosce Dio” veramente, perché soltanto conosce Dio “chi osserva i suoi comandamenti” (1 Gv 2,3), chi fa quello che fece Gesù: “Ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli” (1 Gv 3,16). Al contrario “chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore” (1 Gv 4,8).

Chi crede in Gesù e ama i fratelli ha capito veramente che “Dio è amore” (1 Gv 4,16), verità somma che sarà riconosciuta da tutti soltanto nella misura in cui i credenti si ameranno gli uni gli altri, con la preferenza verso i bisognosi, “non soltanto in parole ma in opere”. D’altra parte, “colui che al fratello in necessità chiude il cuore, come rimane in lui l’amore di Dio?” (1 Gv 3,17-18).

Questa dimensione antropologica della fede in Gesù coincide con la critica profetica alla falsa religione, critica che troviamo sintetizzata in Osea 6,6: “Voglio l’amore (il ‘hesed’, stabilità e lealtà) e non il sacrificio; la conoscenza di Dio (quella conoscenza che porta alla giustizia: cf. Ger 22,15-16), più degli olocausti.”

Così l’etica giovannea è l’etica fondamentale dell’Amore, che ha per modello il dono della vita di Gesù, e che comincia nella casa della Fede – la fede cristologica, come testimonio per tutti. Amore che è comandamento, istruzione, Torah, come tutta l’etica biblica. Amore che è il progetto di Dio per i suoi figli, progetto che deve essere decisamente assunto, in lotta contro il potere maligno che ci porta nella direzione contraria. E questo Amore e questa Fede “vincono il mondo” (cf. 1 Gv 5,4).

c. La responsabilità per il mondo

52. La costante attenzione alla risposta che l’individuo è chiamato a dare all’offerta di Dio in Cristo ha potuto far pensare a una dimensione esclusivamente individuale dell’impegno morale richiesto dall’insegnamento giovanneo. La presenza della comunità corregge tale impressione: il male ha dimensione collettiva (basti pensare alla categoria “mondo”) e ugualmente il bene ha sia una provenienza sia una destinazione anche collettiva. È chiaramente individuabile la comunità dei credenti, ma lo è pure quella del “mondo” a cui è destinata un’opera di salvezza che coinvolge, insieme all’intervento di Gesù, anche la partecipazione dei suoi. Se l’amore vicendevole “comandato” da Gesù (Gv 13,34; 15,12-17; 1 Gv 2,10-11; 3,11.23; 4,7-12) è più immediatamente orientato ai fratelli nella fede, la consapevolezza della missione universale è decisiva per un atteggiamento di responsabilità favorevole, e non di condanna, verso il mondo.

Ciò mette in luce anche l’importanza che ha per Giovanni la prassi dell’amore in relazione alla salvezza del mondo: la chiesa e il cristiano sono continuamente inviati al mondo perché il mondo creda e questa fede nasce proprio da una prassi dell’amore (“da questo riconosceranno…” 13,35). Non solo il singolo cristiano ma anche la comunità ha una nuova, misteriosa (come il vento, che “non sai donde viene e dove va” 3,8) prassi che attira su di sé l’attenzione del mondo in ordine a portare alla fede e quindi a questa stessa prassi dell’amore.

 

3.3. Il dono del Figlio e le sue implicazioni morali, secondo le epistole paoline e altre

 

3.3.1. Il dono di Dio secondo Paolo

53. Per l’apostolo Paolo la vita morale non si comprende se non come una risposta generosa all’amore e al dono di Dio per noi. Infatti Dio, volendo fare di noi i suoi figli, ha inviato il suo Figlio e ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abba, Padre (Gal 4,6; cf. Ef 1,3-14), affinché non camminiamo più prigionieri del peccato, ma ‘secondo lo Spirito’ (Rm 8,5); “Poiché se viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito” (Gal 5,25).

I credenti sono perciò invitati a rendere grazie costantemente a Dio (1 Ts 5,18; cf. Ef 5,20; Col 3,15). Quando Paolo li esorta a vivere una vita degna della loro chiamata, lo fa sempre mettendo di fronte ai loro occhi il dono immenso di Dio per loro, perché la vita morale non trova il suo vero e pieno senso se non è vissuta come una offerta di se stessi per rispondere al dono di Dio (Rm 12,1).

 

3.3.2. L’insegnamento morale di Paolo

54. Nei suoi scritti Paolo insiste sul fatto che l’agire morale del credente è un effetto della grazia di Dio che lo ha reso giusto e che lo fa perseverare. Perché Dio ha perdonato a noi e ci ha resi giusti, egli gradisce il nostro agire morale che dà testimonianza della salvezza operante in noi.

 

a. L’esperienza dell’amore di Dio come base della morale

55. Ciò che fa nascere la morale cristiana non è una norma esterna bensì l’esperienza dell’amore di Dio per ciascuno, una esperienza che l’apostolo vuol ricordare nelle sue lettere affinché le sue esortazioni possano essere comprese e accolte. Egli fonda i suoi consigli ed esortazioni sull’esperienza fatta in Cristo e nello Spirito senza imporre nulla dall’esterno. Se i credenti devono lasciarsi illuminare e guidare dall’interno e se le esortazioni e i consigli non possono far altro che chiedere loro di non dimenticare l’amore e il perdono ricevuti, la ragione consiste nel fatto che essi hanno sperimentato la  misericordia di Dio nei loro confronti, in Cristo, e che essi sono intimamente uniti a Cristo e hanno ricevuto il suo Spirito. Si potrebbe formulare il principio che guida le esortazioni di Paolo: quanto più i credenti sono guidati dallo Spirito tanto meno c’è bisogno di dare loro regole per l’agire.

Una conferma del procedimento di Paolo si presenta nel fatto che egli non inizia le sue lettere con esortazioni morali e non risponde direttamente ai problemi dei suoi destinatari. Mette sempre una distanza fra i problemi e le sue risposte. Riprende le grandi linee del suo Vangelo (per es. Rm 1-8) e mostra come i suoi destinatari devono sviluppare il loro modo di comprendere il Vangelo e poi arriva progressivamente a formulare i suoi consigli per le diverse difficoltà delle giovani chiese (per es. Rom 12-15).

È possibile domandarsi se Paolo anche oggi scriverebbe in questa maniera, se è vero che una maggioranza dei cristiani forse non ha mai fatto l’esperienza della generosità infinita di Dio nei loro confronti e si trovano piuttosto nella situazione di un cristianesimo puramente ‘sociologico’.

In questo contesto si pone pure un’altra domanda: se, cioè, nel passare dei secoli si sia creato un distacco troppo grande fra gli imperativi morali, presentati ai credenti, e le loro radici evangeliche. In ogni caso, è oggi importante formulare di nuovo il rapporto fra le norme e le loro motivazioni evangeliche, per far meglio comprendere come la presentazione delle norme morali dipende dalla presentazione del Vangelo.

 

b. Il rapporto con Cristo come fondamento dell’agire del credente

56. Ciò che determina per Paolo l’agire morale non è una concezione antropologica, cioè una certa idea dell’uomo e della sua dignità, bensì il rapporto con Cristo. Se Dio giustifica ogni persona umana mediante la fede sola, senza le opere della Legge, ciò non avviene affinché tutti continuino a vivere nel peccato: “Noi, che già siamo morti al peccato, come potremo ancora vivere in esso?” (Rm 6,2). Ma la morte al peccato è una morte con Cristo. Troviamo qui una prima formulazione del fondamento cristologico dell’agire morale dei credenti, fondamento espresso come unione che implica una separazione: uniti a Cristo, i credenti sono ormai separati dal peccato. Importante è l’assimilazione dell’itinerario dei credenti a quello di Cristo. In altre parole: i principi dell’agire morale non sono astratti ma vengono piuttosto da un rapporto con Cristo che ci ha fatti morire insieme con lui al peccato: l’agire morale è direttamente fondato sulla unione con Cristo e sull’inabitazione dello Spirito, dal quale esso viene e di cui è espressione. Così, questo agire non è, fondamentalmente, dettato da norme esteriori, ma proviene dal forte rapporto che nello Spirito connette i credenti a Cristo e a Dio.

Paolo trae anche implicazioni morali dalla sua affermazione unica e caratteristica che la Chiesa è il “corpo di Cristo”. Per l’apostolo questo è più che una semplice metafora e raggiunge uno status quasi-metafisico. Siccome il cristiano è membro del corpo di Cristo, commettere fornicazione è attaccare il corpo della prostituta al corpo di Cristo (1 Cor 6,15-17); siccome i cristiani formano l’unico corpo di Cristo, la varietà dei doni dei membri deve essere usata in armonia e con mutuo rispetto e amore, dando speciale attenzione alle membra più vulnerabili (1 Cor 12-13); celebrando l’Eucaristia, i cristiani non debbono violare o trascurare il corpo di Cristo, arrecando offesa ai membri più poveri (1 Cor 11,17-34; cf. sotto, le implicazioni morali dell’Eucaristia, nn. 77-79).

 

c. Comportamenti principali verso Cristo Signore

57. Dato che il rapporto con Cristo è tanto fondamentale per l’agire morale dei credenti, Paolo chiarisce quali sono i giusti comportamenti nei confronti del Signore.

Non frequentemente, ma in due testi conclusivi degli scritti paolini si dice che bisogna amare il Signore Gesù Cristo: “Se qualcuno non ama il Signore, sia maledetto!” (1 Cor 16,22) e “La grazia sia con tutti quelli che amano il nostro Signore Gesù Cristo con amore incorruttibile” (Ef 6,24).

È chiaro che questo amore non è un sentimento inoperante, bensì deve concretizzarsi in azioni. La concretizzazione può venire dal titolo più frequente di Cristo, quello di ‘Signore’. La denominazione ‘signore’ è opposta a quella di ‘schiavo’, al quale compete il servire. Sappiamo pure che ‘Signore’ è un titolo divino passato a Cristo. Difatti i cristiani sono chiamati a servire il Signore (Rm 12,11; 14,18; 16,18). Questo rapporto dei credenti con Cristo Signore influisce fortemente nei loro vicendevoli rapporti. Non è giusto comportarsi da giudice di un servo che appartiene a questo Signore (Rm 14,4.6-9). I rapporti fra quelli che, nella società antica, sono schiavi e sono signori, vengono relativizzati (1 Cor 7,22-23; Fm; cf. Col 4,1; Ef 6,5-9). A uno che è servo del Signore conviene, per amore di Gesù, servire quelli che appartengono a questo Signore (2 Cor 4,5).

Dato che con ‘Signore’ è passato un titolo divino a Cristo, possiamo osservare che gli atteggiamenti del credente anticotestamentario nei confronti di Dio passano pure a Cristo: in lui si crede (Rm 3,22.26; 10,14; Gal 2,16.20; 3,22.26; cf. Col 2,5-7; Ef 1,15); in lui si spera (Rm 15,12; 1 Cor 15,19); lui viene amato (1 Cor 16,22; cf. Ef 6,24); a lui si ubbidisce (2 Cor 10,5).

L’agire giusto che corrisponde a questi atteggiamenti nei confronti del Signore, si può desumere dalla sua volontà che si manifesta nelle sue parole ma specialmente nel suo esempio.

 

d. L’esempio del Signore

58. Le istruzioni morali di Paolo sono di diverso genere. Egli dice con grande chiarezza e forza quali comportamenti sono perniciosi ed escludono dal regno di Dio (cf. Rm 1,18-32; 1 Cor 5,11; 6,9-10; Gal 5,14); si riferisce raramente alla legge mosaica come modello di comportamento (cf. Rm 13,8-10; Gal 5,14); non ignora i modelli morali degli stoici – ciò che gli uomini del suo tempo hanno considerato come buono e cattivo; inoltre trasmette alcune disposizioni di Cristo su problemi concreti (1 Cor 7,10; 9,14; 14,37); e si riferisce pure alla “legge di Cristo” che dice: “Portate i pesi gli uni degli altri!” (Gal 6,2).

Più frequenti sono i riferimenti all’esempio di Cristo che è da imitare e da seguire. In modo generale Paolo dice: “Diventate i miei imitatori come io lo sono di Cristo” (1 Cor 11,1). Esortando all’umiltà e a non cercare solo il proprio interesse (2,4), ammonisce i Filippesi: “Abbiate fra di voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù!” (2,5) e descrive l’intero cammino dell’abbassamento e della glorificazione di Cristo (2,6-11). Presenta pure come esemplare la generosità di Cristo, che si fece povero per renderci ricchi (2 Cor 8,9), e la sua dolcezza e mansuetudine (2 Cor 10,1).

Paolo mette specialmente in rilievo la forza impegnativa dell’amore di Cristo, che raggiunge il suo compimento nella passione. “Poiché l’amore del Cristo ci sospinge, al pensiero che uno è morto per tutti e quindi tutti sono morti. Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risorto per loro” (2 Cor 5,14-15). Seguendo Gesù non è più possibile una “vita propria” secondo i propri progetti e desideri ma solo una vita in unione con Gesù. Paolo afferma per se stesso una tale vita: “Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me. Questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me” (Gal 2,20). Questo atteggiamento si trova anche nell’esortazione della lettera agli Efesini: “Camminate nella carità, nel modo in cui anche Cristo ci ha amati e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio a lui gradito” (Ef 5,2; cf. Ef 3,17; 4,15-16).

 

e. Il discernimento della coscienza guidato dallo Spirito

59. Anche se Paolo chiede poche volte ai credenti di discernere, lo fa in modo tale da far capire loro che tutte le decisioni devono essere prese con discernimento, come  dimostra l’inizio della parte esortativa della lettera ai Romani (Rm 12,2). I cristiani devono discernere, perché spesso le decisioni da prendere non sono affatto evidenti e palesi. Il discernimento consiste nell’esaminare, sotto la guida dello Spirito, ciò che è migliore e perfetto in ogni circostanza (cf. 1 Ts 5,21; Fil 1,10; Ef 5,10). Chiedendo ai credenti di discernere, l’apostolo li rende responsabili e sensibili alla voce discreta dello Spirito in loro. Paolo è convinto che lo Spirito che si manifesta nell’esempio di Cristo e che è vivo nei cristiani (cf. Gal 5,25; Rm 8,14), darà loro la capacità di decidere che cosa sia conveniente in ogni occasione.

 

3.3.3. La sequela di Cristo secondo le lettere di Giacomo e Pietro

60. Queste lettere appartengono alle cosiddette lettere cattoliche che non sono indirizzate a una singola comunità ma si rivolgono a un pubblico più ampio.

 

a. La lettera di Giacomo

Presupponendo l’opera salvatrice di Gesù, Giacomo si interessa specialmente alla vita morale dei membri della comunità cristiana. La lettera mette al centro la vera sapienza che viene da Dio (1,5) e la contrappone alla sapienza falsa, descrivendo i due atteggiamenti: “Non è questa la sapienza che viene dall’alto: è terrestre, materiale, diabolica; perché dove c’è gelosia e spirito di contesa, c’è disordine e ogni sorta di cattive azioni. Invece la sapienza che viene dall’alto anzitutto è pura; poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale e sincera” (3,15-17).

La sapienza dall’alto, l’insegnamento morale rivelato dall’alto, non è opera dell’uomo ma di Dio. L’uomo può soltanto analizzarlo, approfondirlo e metterlo in pratica. Si tratta di una morale oggettiva. Invece, la sapienza “terrestre, materiale e diabolica” (Gc 3,15) serve spesso a giustificare comportamenti amorali. La sapienza terrestre costituisce una tentazione permanente dell’uomo in quanto vuol decidere che cosa sia bene e che cosa sia male.

La lettera è pure un manifesto per la giustizia sociale, per cui è fondamentale la stima della dignità di ogni uomo, specialmente dell’uomo povero, che in modo particolare è esposto alle umiliazioni e ai disprezzi da parte dei ricchi e potenti. Si continua la difesa dei poveri già intrapresa da parte dei profeti, innanzitutto di Amos e Michea, ma c’è anche una dimensione cristologica. L’autore si richiama alla “fede nel Signore nostro Gesù Cristo, Signore della gloria” (2,1). La dignità di Cristo glorioso è garanzia della dignità di ogni cristiano redento con il sangue di Cristo ed esclude i favoritismi.

Giacomo insiste molto sul frenare la lingua (1,26; 3,1-12), fino ad affermare: “Se uno non pecca nel parlare, costui è un uomo perfetto, capace di tenere a freno anche tutto il corpo” (3,2). Nella Chiesa hanno una particolare responsabilità i maestri (cf. 3,1), che possono creare tanti dissensi e divisioni nella comunità cristiana attraverso il loro insegnamento (o i loro scritti). Simile è la responsabilità di tutti coloro che hanno un forte e determinante influsso sull’opinione pubblica.

 

b. La prima lettera di Pietro

61. Lo scritto parla ampiamente di Gesù Cristo, della sua passione e risurrezione e della sua futura venuta in gloria e deriva dal suo cammino la giusta impostazione della vita cristiana. Il primo tema è il battesimo (1,3-5), segno di conversione e rigenerazione. La morte al peccato deve essere totale come poi è totale la rinascita alla nuova vita. I cristiani sono rigenerati “per mezzo della parola di Dio” (1,23) e come “pietre vive” costituiscono un “edificio spirituale, per un sacerdozio santo e per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, mediante Gesù Cristo” (2,5). Tali “sacrifici spirituali” coincidono con tutta la vita cristiana vissuta in quanto animata e guidata dallo Spirito.

I credenti non devono accomodarsi alla società pagana in cui vivono e nella quale sono “stranieri e pellegrini” (2,11). Devono astenersi “dai cattivi desideri della carne” (2,11), dal modo di vivere pagano (cf. 4,3) e condurre i pagani, mediante le loro opere buone, al punto che “diano gloria a Dio nel giorno della sua manifestazione” (2,12). Nonostante la loro diversità, essi sono chiamati a inserirsi nella società in cui vivono e a sottomettersi “ad ogni umana autorità per amore del Signore” (2,13). Questa sollecita partecipazione alla vita sociale si manifesta pure nelle regole per i diversi rapporti (stato, famiglia, matrimonio) in cui si vive (2,13 – 3,12).

Se vengono perseguitati e devono soffrire per la giustizia, sono incoraggiati e sostenuti considerando la morte violenta di Cristo (3,13; 4,1). Anche in queste circostanze non devono chiudersi: Siate “pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto” (3,15– 16). In quanto partecipano alle sofferenze di Cristo vengono esortati: “Rallegratevi perché anche nella rivelazione della sua gloria possiate rallegrarvi ed esultare” (4,13).

Accanto a queste norme per la condotta in un ambiente pagano ci sono le esortazioni per la vita comunitaria, che deve essere segnata dalla preghiera, carità, ospitalità e dall’uso di ogni carisma in favore della comunità. Tutto si faccia così “perché in tutto sia glorificato Dio per mezzo di Gesù Cristo” (4,11).

 

3.4. La nuova alleanza e le sue implicazioni morali, secondo la lettera agli Ebrei

 

3.4.1. Cristo mediatore della nuova alleanza

62. Delle trentatre ricorrenze di ‘alleanza’ nel Nuovo Testamento diciassette si trovano nella lettera agli Ebrei. Essa presenta esplicitamente l’alleanza mosaica (9,19-21), cita integralmente la profezia di Geremia (8,8-12), menziona Gesù come mediatore della nuova alleanza (8,6; 9,15; 12,24) e parla dell’alleanza ‘nuova’ (8,8; 9,15; 12,24), ‘migliore’ (7,22; 8,6) ed ‘eterna’ (13,20). Nella sua lettera l’autore descrive l’intervento di Dio mediante il suo Figlio Gesù per la realizzazione della nuova alleanza.

 

a. Il mediatore perfetto, nuovo Mosé

Per introdurci in un intimo rapporto con sé, Dio ha scelto il  proprio Figlio come mediatore perfetto, ultimo e definitivo. Già nel prologo si trova l’affermazione centrale: “Dio ha parlato a noi per mezzo del Figlio” (1,2).

L’autore dà fin dall’inizio una sintesi della storia della salvezza: descrive l’azione divina per stabilire l’alleanza e indica i due aspetti del mistero pasquale: “dopo aver compiuto la purificazione dei peccati, si è assiso alla destra della maestà nell’alto dei cieli” (1,3). Il Figlio ha superato l’ostacolo che impediva il rapporto di alleanza e stabilì definitivamente l’alleanza fra Dio e noi.

Cristo, Figlio di Dio (1,5-14) e fratello degli uomini (2,5-18) è mediatore dell’alleanza nella costituzione stessa del suo essere. Riceve il titolo di “sommo sacerdote” (2,17), a cui  compete la fondamentale funzione di esercitare la mediazione fra Dio e gli uomini. A questo titolo sono aggiunti due aggettivi: “degno di fede” e “misericordioso”, che designano due qualità, essenziali e necessarie per stabilire e mantenere una alleanza. ‘Degno di fede’ si riferisce alla capacità di mettere il popolo in rapporto con Dio, ‘misericordioso’ esprime la capacità di comprensione e aiuto fraterno per gli uomini. Il mistero di Cristo comprende l’adesione a Dio e la solidarietà fraterna, due aspetti di una unica disposizione di alleanza.

 

b. La “nuova alleanza”, fondata nel sacrificio di Cristo

63. Quando Geremia annunciava la nuova alleanza non spiegava in che forma sarebbe stata istituita e quale ne sarebbe stato l’atto fondatore. L’autore della lettera agli Ebrei proclama con tono determinato, nella frase centrale di tutta la lettera: “Cristo venuto come sommo sacerdote dei beni futuri, attraverso una tenda più grande e più perfetta non costruita da mano d’uomo, cioè non appartenente a questa creazione, entrò una volta per sempre nel santuario non mediante il sangue di capri e di vitelli, ma in virtù del proprio sangue, ottenendo così una redenzione eterna” (9,11-12). Cristo entrò nel vero santuario, fu introdotto nell’intimità con Dio, aprì il cammino verso Dio, stabilì la comunicazione dell’uomo con Dio, realizzò l’alleanza definitiva. Con quali mezzi? “In virtù del proprio sangue”, cioè per mezzo della sua morte violenta trasformata in offerta; per mezzo dell’offerta della propria vita, trasformata in mezzo di unione perfetta con Dio e di solidarietà estrema con gli uomini. Così Cristo “ha ottenuto una redenzione eterna” per molti, la liberazione dai peccati, che è la condizione fondamentale per l’istituzione della nuova alleanza.

L’autore descrive in 10,1-18 l’effetto, il valore salvifico, del sacrificio di Cristo e lo presenta come l’intervento decisivo che ha cambiato radicalmente la situazione degli uomini nei confronti di Dio. Insiste sulla soppressione delle colpe: i peccati non sono più ricordati (10,17), sono perdonati (10,18). Le due frasi più significative che definiscono questa efficacia salvifica lo fanno dal punto di vista positivo del dono della santità (10,10) e della perfezione (10,14).

Dunque l’offerta unica di Cristo ha un doppio effetto: conferisce la perfezione a Cristo e la conferisce a noi. Nella sua passione e risurrezione Cristo era passivo e attivo: ha ricevuto e realizzato la perfezione, il rapporto cioè perfetto con Dio, e contemporaneamente l’ha comunicata a noi; o meglio, ha ricevuto la perfezione per comunicarla a noi. Così ha stabilito la nuova alleanza.

3.4.2. Le esigenze del dono della nuova alleanza

64. Coloro che a causa dell’offerta di Cristo hanno ricevuto il perdono dei peccati e sono santificati, e così sono passati alla nuova alleanza, si trovano in una nuova situazione che da parte loro chiede un nuovo comportamento. L’autore ne circoscrive i tratti caratteristici e le esigenze in 10,19-25. Il testo comprende due parti: la prima di natura descrittiva (vv. 19-21) e la seconda di natura esortativa (vv. 22-25). La parte descrittiva definisce la nuova situazione creata dall’intervento di Cristo. Presenta quindi la nuova alleanza soprattutto come il dono meraviglioso che Dio ci ha fatto in Cristo, e mostra che possediamo tre realtà: un diritto all’ingresso, un cammino e una guida (indicativo). La parte esortativa esprime le esigenze ed invita ad assumere i tre atteggiamenti di fede, speranza e carità; bisogna che l’uomo accolga attivamente il dono di Dio (imperativo). Il testo presenta in modo esemplare la connessione strettissima fra dono antecedente divino e compito consecutivo umano, fra indicativo e imperativo.

 

a. Progredire nel rapporto con Dio

65. Noi tutti siamo invitati ad accostarci a Dio, a entrare in un intimo contatto con lui. Innanzitutto è richiesta un’adesione personale a Dio. Essa si verifica praticando le virtù teologali che hanno un rapporto stretto e diretto con la nuova alleanza.

La prima condizione per accostarsi a Dio è l’adesione di fede a Dio per mezzo della mediazione sacerdotale di Cristo. L’invito alla “pienezza della fede” (10,22) è fondato sull’efficacia perfetta del sacrificio e sacerdozio di Cristo che introducono gli uomini realmente nella comunione con Dio. La pienezza della fede si ottiene “con i cuori purificati da ogni cattiva coscienza e il corpo lavato con acqua pura” (10,22). Questo si riferisce al sacramento del battesimo quanto al rito esterno e alla efficacia interna. Con queste parole l’autore indica il cambiamento radicale fra antica e nuova alleanza, il passaggio a una alleanza più interiorizzata. L’aspersione con il sangue di Cristo raggiunge l’uomo nel suo cuore (cf. Ger 31,33; Ez 36,25), lo libera dalle sue disposizioni cattive, lo trasforma e rinnova.

Il secondo atteggiamento è la speranza (10,23), strettamente connessa con la fede (cf. 11,1); esso esprime l’aspetto dinamico della fede, perché il messaggio che riceviamo non è rivelazione di una verità astratta ma di una persona che è cammino e causa di salvezza. Abbiamo la speranza di ottenere l’eredità eterna, di entrare per sempre nel riposo di Dio.

L’autore esorta, in fine, alla carità (10,24-25). La relazione fra alleanza e carità è molto stretta. La carità comprende sempre le due dimensioni: l’unione con Dio e l’unione con i fratelli, che sono le dimensioni fondamentali della nuova alleanza. Questi versetti invitano ad essere attenti gli uni agli altri per progredire nella carità effettiva che produce opere buone e sottolineano particolarmente l’esigenza di essere fedeli alle riunioni della comunità.

 

b. Sacrificio di lode a Dio e di servizio per i fratelli

66. In diverse esortazioni l’autore indica quale è il comportamento giusto di coloro che con Gesù si sono accostati a Dio: devono sopportare persecuzioni e sofferenze, rimanere costanti nella fede e pazienti nella speranza (10,32-39) e sono chiamati a cercare la pace con tutti e ad impegnarsi per la santificazione (12,14-17).

Dopo altre esortazioni al giusto comportamento (13,1-14) segue una sintesi della vita morale cristiana in stretta connessione con il sacrificio di Cristo e con la sua mediazione: “Per mezzo di lui offriamo a Dio continuamente un sacrificio di lode: questo è frutto di labbra che lodano il suo nome. Non dimenticate di fare del bene e di condividere i vostri beni, perché di tali sacrifici il Signore si compiace” (13,15-16).

Il culto cristiano si realizza principalmente nella vita cristiana. Esso è veramente cristiano perché viene mediato da Cristo: “per mezzo di lui” (13,15), e consiste nell’unire la propria esistenza al sacrificio di Cristo per farla salire a Dio. Questo avviene in due modi che sono ambedue necessari e che corrispondono ai due aspetti del sacrificio di Cristo: con il suo sacrificio Cristo ha glorificato Dio e ha salvato i suoi fratelli. Allo stesso modo il cristiano deve lodare Dio e servire ai suoi fratelli. Cristo ha mostrato una perfetta adesione alla volontà di Dio (cf. 5,8; 10,7-10) e una generosa solidarietà con gli uomini (cf. 2,17-18; 4,15). Per mezzo di lui e con lui tutta la vita dei cristiani deve consistere nella trasformazione della loro esistenza a vivere ubbidienti a Dio e generosi nel donarsi ai fratelli.

 

3.5. Alleanza e impegno dei cristiani: la prospettiva dell’Apocalisse

 

3.5.1. Un’alleanza che si muove nella storia

67. Il punto di partenza dell’alleanza come la intende l’Apocalisse è costituito dall’alleanza sinaitica e davidica, intesa e rivissuta nella prospettiva della nuova alleanza proposta da Geremia (Ger 31,33; cf. Ez 36,26-28).

L’autore dell’Apocalisse, passando senza soluzione di continuità dall’Antico Testamento al Nuovo e viceversa, reinterpreta l’alleanza come l’impegno da parte di Dio di realizzare  con gli uomini, tramite Cristo e in rapporto a Cristo, una reciprocità altissima di appartenenza espressa nella formula tipica: “Voi siete il mio popolo e io sono il vostro Dio” (Ger 31,32; Ez 36,28). Il primo riferimento esplicito all’alleanza che incontriamo nell’Apocalisse - quando “si aprì il tempio di Dio che è nel cielo e fu fatta vedere l’arca della sua alleanza nel suo tempio” (Ap 11,19) – è posto a conclusione della grande celebrazione dossologica (Ap 11,15-18) che ha per oggetto un evento fondamentale: "Divenne il regno del mondo del Signore nostro e del suo Cristo" (Ap 11,15). La realizzazione del regno nel mondo degli uomini sbocca nell’alleanza attuata, che viene solennemente visualizzata con l’ostensione  dell’arca.

Nell’ultimo riferimento conclusivo all’alleanza, l’autore riprende la formula di Geremia e di Ezechiele e la vede realizzata nella Gerusalemme nuova, la città-sposa: “Vidi la Gerusalemme nuova discendere dal cielo, fatta da Dio, come una fidanzata adornata per il suo sposo" (Ap 21,2). Ne dà subito una spiegazione che la illustra: “E udii una voce potente dal trono che diceva: ‘Ecco la tenda di Dio con gli uomini! E metterà la sua tenda insieme a loro ed essi saranno i suoi popoli ed Egli – Iddio  con loro – sarà il loro Dio’ ” (Ap 21,3).

L’antica formula dell’alleanza qui si trova sorprendentemente allargata. Il riferimento base a Cristo-agnello come sposo e a Gerusalemme come fidanzata – ripreso in Ap 21,9 – illumina i vari dettagli in questa prospettiva: la presenza della tenda e il fatto che Dio "metterà la sua tenda con gli uomini" richiama e riprende Gv 1,14: "E la Parola si fece carne e mise la tua tenda in mezzo a noi". Solo grazie all’azione di Cristo-agnello (Ap 5,9) si ha il passaggio da un solo popolo nell’antica formula a una pluralità di popoli nella nuova: "saranno i suoi popoli". Soprattutto è tramite Cristo e tutta la sua azione, che Iddio dell’antica alleanza, fatto "Iddio con noi", diventa nella nuova "il loro Dio".

 

3.5.2. L’impegno dei cristiani

68. L’alleanza e il regno costituiscono un dono di Dio e di Cristo, dono, però, che si realizza,  nei due aspetti, mediante la cooperazione dei cristiani. Troviamo, proprio all’inizio dell’Apocalisse, un’acclamazione a Cristo che lo esprime: “A Colui che ci ama e ci sciolse dai nostri peccati  nel suo sangue – e fece noi regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre - a lui la gloria e la forza per i secoli. Amen” (1,5-6). Risalta anzitutto la dimensione dell’amore da parte di Cristo di cui l’assemblea si sente oggetto. Risalta anche un primo risultato dell’azione redentrice di Gesù: sono gli uomini costituiti da lui “un regno e sacerdoti” (cf. anche 5,9-10). L’amore da parte di Cristo e la  redenzione si situano sul versante della reciprocità dell’alleanza, mentre gli altri due termini – regno e sacerdoti – sono riferibili al contesto del regno. Cominciamo da questi due.

 

a. I cristiani “fatti regno”

69. A partire dal battesimo i cristiani, sciolti dai loro peccati, appartengono esclusivamente a Cristo che li costituisce suo regno (cf. 1,5-6). Si tratta di un regno in divenire, che comporta come tale un’appartenenza a Cristo sempre maggiore. A questo perfezionamento è indirizzata la prospettiva penitenziale della prima parte dell’Apocalisse (capp. 1-3). Come poi vedremo meglio in dettaglio, Cristo risorto, parlando in prima persona, rivolge alla sua Chiesa degli imperativi che tendono a cambiarla in meglio, a consolidarla, a convertirla. Ciò che Cristo risorto chiede alle singole chiese dell’Asia Minore, vale – più in generale – per la Chiesa di ogni tempo. C’è , ravvisabile in ciascuna delle Lettere alle Chiese, una dialettica tra la chiesa locale  da cui si parte e la Chiesa universale – “le chiese” – con cui si termina. Nella misura in cui la Chiesa accoglie questo messaggio sviluppa la sua appartenenza a Cristo, divenendo sempre più regno, sempre più capace di seguire Cristo agnello (14,4) e di agire in conseguenza.

 

b. I cristiani resi “sacerdoti” e “vincitori”

70. I cristiani, fatti regno, sono qualificati, in parallelo, come sacerdoti (cf. 1,5; 5,10). La celebrazione in 5,10 è indirizzata a Cristo come agnello che, nella formulazione propria dell’Apocalisse (cf. Ap 5,6), indica il Cristo morto e risorto, dotato di tutta la forza messianica e che invia agli uomini la pienezza del suo Spirito. È Cristo come agnello che costituisce i cristiani sacerdoti. Con questa qualifica insolita (cf. ancora 1Pt 2,1-10) viene indicato – oltre alla purezza richiesta dai cristiani e alla dignità nella quale la situazione di regno li colloca – anche un loro ruolo di mediazione tra quello che è il progetto di alleanza di Dio e la sua realizzazione nella storia che porterà all’attuazione definitiva del regno. Infatti i cristiani proprio come sacerdoti “stanno regnando sulla terra” (5,10), non nel senso di godere un regno già fatto, ma come impegno attivo a instaurare il regno, di Dio e di Cristo, che va realizzandosi.

L’impegno attivo di mediazione dei cristiani si attua nella concretezza della storia dove si svolge il confronto dialettico tra bene e male,  tra il sistema di Cristo e il sistema terrestre anti-regno e anti-alleanza, messo in atto dall’influsso del Demoniaco. Associata com’è alla vittoria che Cristo, presente e attivo nella storia dell’uomo, sta riportando, l’azione propria del cristiano comporterà un superamento del male, una vittoria. Il cristiano esclude dal quadro della sua esistenza quelle scelte negative che smentirebbero o addirittura rischierebbero di distruggere la sua situazione iniziale di regno. La tensione morale per divenire completamente regno, con lo stato di conversione permanente che comporta, salvaguarda il cristiano da qualunque regressione.

Il suo impegno di vincitore, nel senso di una sua collaborazione alla vittoria che Cristo sta riportando sul sistema terrestre contrario all’alleanza, comporterà poi per il cristiano una serie di iniziative.

La prima di esse è la preghiera, alla quale l’Apocalisse attribuisce un ruolo determinante nella costruzione del regno di Dio. Unite a quelle dei martiri (cf. 6,9-11), le preghiere dei cristiani sulla terra salgono al cospetto di Dio e Dio risponde con i suoi interventi nella storia (8,1-5). La preghiera, che per l’Apocalisse è lode individuale e celebrazione corale,  assume spesso la forma di una richiesta appassionata, propria del cristiano che, attento allo sviluppo della storia, nota le lacune – morali e di regno – che vi si realizzano.

Accanto alla preghiera un altro impegno attivo del cristiano è la sua testimonianza. Portatore permanente dei “comandamenti di Dio” e della “testimonianza di Gesù” (12,17; 19,10), il cristiano si pone con questi valori di fronte al sistema anti-regno e anti-alleanza che trova nella storia. Ne sarà vincitore insieme a Cristo e in forza di Cristo. Lo farà con la parola, lo farà soprattutto con la vita, pronto anche a farne dono (cf. Ap 12,11). Per l’Apocalisse il cristiano è sempre un martire potenziale.

Quando poi lo Spirito glielo suggerisce, il cristiano potrà assumere, rispetto al sistema anti-alleanza con cui si confronta in continuità, anche il tono di denuncia proprio della profezia. L’Apocalisse tratteggia le caratteristiche salienti del profeta (cf. 11,1-13): dovrà anzitutto accentuare la sua preghiera e poi, con la forza dello Spirito, denuncerà l’atteggiamento aggressivo, anti-regno e anti-alleanza, del sistema terrestre e lo farà con la forza irresistibile della parola di Dio, come gli antichi profeti. Gli si potrà richiedere addirittura di seguire Cristo fino in fondo, facendo propria la sua vicenda pasquale. Potrà anche essere ucciso, ma eserciterà, anche dopo la morte, un influsso decisivo nella storia.

 

c. “Gli atti di giustizia dei santi” (Ap 19,8)

71. C’è da notare, infine, nel quadro di queste attività svolte dal cristiano, una qualifica tipica che le attraversa tutte in diagonale e ne rappresenta un comune denominatore: l’autore la denomina “gli atti di giustizia dei santi” (19,8). Si tratta di quelle impronte di giustizia, di rettitudine impiantata, che i santi, con ciascuna delle attività indicate, immettono nella storia. Le attività a cui si riferiscono gli “atti di giustizia” contribuiscono tutte allo sviluppo del regno ma, nello stesso tempo, si spostano decisamente anche sul versante dell’alleanza . Sono interpretate esplicitamente dall’autore come “il lino” (19,8) che la Chiesa, tuttora fidanzata, userà per il suo abito nuziale, quando, nella fase escatologica, diventerà la sposa.

 

d. La lettura sapienziale della storia

72. La sequela attiva alla quale il cristiano è chiamato, ci appare strettamente legata agli eventi della storia. Perché la sua preghiera, la sua profezia, la testimonianza e qualunque altra sua azione sia davvero un contributo aderente di giustizia, si richiede da parte del cristiano un’interpretazione tempestiva del segmento di storia in cui vive. Fin dalla prima parte dell’Apocalisse c’è stata – accanto all’insistenza sul “divenire regno” – una pressione martellante in favore di una lettura interpretativa della storia. È un punto cruciale per tutta la vita cristiana come la vede l’Apocalisse. Si tratta di leggere la storia, con un occhio ai principi e valori religiosi che Dio ha rivelato e rivela e con un occhio agli eventi concreti. Collocando gli eventi concreti nel quadro dei valori e principi religiosi e lasciandoli illuminare da essi, se ne ottiene un’interpretazione di tipo sapienziale. L’Apocalisse infatti chiama sapienza da una parte la saggezza con cui Dio e Cristo-agnello conducono avanti lo sviluppo della storia (cf. 5,12 e 7,12), dall’altra la capacità del cristiano di cogliere questa saggezza trascendente nella concretezza della sua ora operando una sintesi tra i principi e i fatti concreti, con le proposte operative che poi ne derivano. A questo mira l’imperativo ripetuto sette volte da Cristo risorto: “Chi ha orecchio ascolti ciò che lo Spirito dice alle chiese” (2,7.11.17.29; 3,6.13.22). A questo mirano pure i quadri simbolici contenenti i grandi principi religiosi rivelati, destinati ad accogliere e illuminare le situazioni storiche più svariate. La loro interpretazione e applicazione permetterà una lettura sapienziale della storia aderente e aggiornata.

Immettendo nella storia in maniera orientata e aderente ai fatti la sua preghiera, la sua testimonianza, la sua profezia e le altre iniziative che la lettura sapienziale dei fatti gli suggerirà volta per volta, il cristiano coopererà alla realizzazione ulteriore del regno e crescerà nella sua reciprocità di amore verso Cristo tipica dell’alleanza.

e. Conclusione

73. L’alleanza per l’Apocalisse rappresenta un dono di Dio che si ramifica nelle vicende dell’uomo. E’ passando attraverso la storia per mezzo Cristo, che Dio realizza progressivamente quel massimo di reciprocità tipico della Gerusalemme nuova, che richiede, per attuarsi, il pieno sviluppo del regno. Alleanza e regno si richiamano a vicenda: si muovono in parallelo nella storia e, quando giungono alla conclusione, coincidono. Visto al suo punto di arrivo, il regno rappresenta la realizzazione piena del sistema dei valori di Cristo in una situazione in cui tutto è omogeneo a lui e al Padre. L’espressione di questa situazione in termini interpersonali è la reciprocità dell’alleanza realizzata, avvertita come amore. Il dono dell’alleanza da parte di Dio appare, così, nell’Apocalisse, come una forza motrice soggiacente che porta avanti tutto lo sviluppo della storia della salvezza e lo conclude.

 

3.6. L’eucaristia, sintesi della nuova alleanza

 

3.6.1. Il dono dell’eucaristia

74. Come già menzionato, la prospettiva di una nuova alleanza affiora nel profeta Geremia (31,31-34 cf. Ez 36,26-28). L’intervento decisivo di Dio “Porrò la mia legge nel loro animo” (31,33) avrà come effetto che “tutti mi conosceranno” (31,34). Geremia, però, non indica il mezzo con cui Dio effettua questa trasformazione interiore.

 

a. La morte di Gesù fonda l’alleanza definitiva

Nei sinottici e in Paolo troviamo la determinazione concreta del mezzo che Dio utilizza in questa operazione interna annunciata da Geremia ed Ezechiele. Gesù, il Servo sofferente di Dio (Lc 22,27; Gv 13,4-5.13-17), anticipando con segni eloquenti il dono supremo che sta per fare, nell’offrire il calice con il suo sangue, lo designa come “il mio sangue dell’alleanza” (Mt 26,28; Mc 14,24 ; cf. Es 24,8) oppure - nella formulazione di Paolo e Luca -: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue” (Lc 22,20; 1 Cor 11,25).

Nel dare l’eucaristia alla Chiesa, Gesù ha consegnato se stesso, fissando così il significato della sua passione e risurrezione. Ha trasfigurato la morte, l’atto umano che significa ed effettua la disgregazione totale, in un mezzo potentissimo di unione. Normalmente il decesso di una persona crea una rottura irrimediabile fra colui che se ne va e quelli che rimangono, e ciò avviene ancor più quando si tratta di un condannato alla pena capitale. Però, nell’Ultima Cena, Gesù diede alla sua morte di condannato un senso completamente opposto, facendola occasione e causa di un amore estremo, strumento di comunione con Dio e con i fratelli, mezzo per fondare l’alleanza definitiva.

Le parole di istituzione “Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue dell’alleanza” rivelano e effettuano questa trasformazione del senso della morte. Viene offerto, come sostanza nutritiva che dà vita, “il sangue versato” oppure la stessa morte, non considerata come una sciagura fatale ma come “memoria”, cioè presenza permanente, di un giustiziato che “tornerà” perché, incominciando dalla “notte in cui fu consegnato” (1 Cor 11,23), colui che fu giudicato è stato costituito come colui che ci giudica ”per non essere condannati insieme con il mondo” (1 Cor 11,32).

 

b. L’efficacia comunitaria degli elementi eucaristici

75. Il gesto sacramentale esprime in modo speciale l’efficacia comunitaria del sacrificio. Gesù si trasforma in cibo e bevanda per tutti gli uomini (cf. Gv 6,53-58). Perciò non solo il suo sacrificio lo rende gradevole a Dio ma la forma in cui questo viene significato e realizzato manifesta anche il beneficio in nostro favore, in quanto ci mette in stretta comunione con Gesù e per mezzo di lui con Dio. Il banchetto della “Nuova Alleanza” nel quale Gesù stesso diventa cibo realizza l’aspetto sottolineato da Geremia: l’attività di Dio che trasformerà gli uomini “dal di dentro”. Mediante il “si deve mangiare la carne di Gesù” e “si deve bere il suo sangue” si insiste sulla completa assimilazione e si manifesta nel modo migliore possibile l’azione interiore di Dio prevista da Geremia e da Ezechiele. Questa operazione divina non è ristretta a un gruppo privilegiato ma mette tutti i convocati in una comunione reciproca. Si tratta di un pasto condiviso senza escludere nessuno, dato che il corpo “viene consegnato per voi” e il sangue “viene versato per voi”. Già ogni ‘sim-posio’ porta con sé il dinamismo di comunicazione reciproca fra le persone, di accettazione mutua, di relazioni amichevoli e fraterne. Tanto più il banchetto eucaristico che non è il risultato di mere convergenze orizzontali ma prende la sua origine dalla convocazione di Cristo che versa il suo sangue per tutti e ottiene ciò che nessuno, neanche tutti insieme, potrebbe aver ottenuto: “il perdono dei peccati” (Ger 31,34; Mt 26,28).

Questa realtà profonda della Cena del Signore era così impressionante per la fede che Paolo stesso, che sempre rispetta la dualità degli elementi eucaristici (1 Cor 10,16), affascinato dalla realtà tanto compatta che crea il sacramento, in un certo momento passa a concentrarsi su uno solo di essi: “Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane” (1 Cor 10,17). Questo unico corpo è la Chiesa.

Mentre il Signore disse del pane eucaristico: “Questo è il mio corpo” (1 Cor 11,24), Paolo dichiara a proposito dei Corinzi: “Voi siete il corpo di Cristo” (1 Cor 12,27). Una cosa non va senza l’altra e separarle “non è un mangiare la cena del Signore” (1 Cor 11,20).

 

c. L’eucaristia, il dono

76. L’eucaristia è completamente dono, il dono per antonomasia. In essa Gesù dà se stesso, la propria persona. Dà però il suo corpo consegnato e il suo sangue versato; ciò significa che egli dà se stesso nell’atto supremo della sua vita, proprio nella consegna della sua vita in una perfetta dedizione a Dio e in un completo impegno per l’umanità. Gesù si dà nel pane e nel vino, come cibo e come bevanda, il che significa il cambiamento interno che è caratteristico della nuova alleanza (cf. Ger 31,33). Mediante questa unione eucaristica si entra allo stesso tempo nella più stretta comunione con Dio e con gli uomini. Non si può essere in questa interna e vitale unione con Gesù e poi comportarsi in modi evidentemente contrastanti al comportamento di Gesù verso Dio e verso gli uomini.

 

3.6.2. Le implicazioni comunitarie dell’eucaristia

77. Paolo, dinnanzi al comportamento sbagliato dei Corinzi proprio durante la celebrazione eucaristica, riflette sulla natura e sul significato della stessa eucaristia e sviluppa i criteri della condotta giusta. Il cammino tracciato non è più legge e lettera, ma persona, azione, spirito – tutto realizzato e presente in Gesù. È incoerente e contraddittorio accogliere nel sacramento il dono totale di Cristo ed unirsi intimamente con la sua persona e con il suo corpo, cioè con tutti gli altri membri della comunità cristiana, e poi separarsi da questi altri disprezzandoli e non condividendo con essi la vita di comunità e i beni.

 

a. Eucaristia e comunione vissuta

La celebrazione della nuova alleanza deve essere fatta in piena coerenza con la vita per non diventare una farsa. Essa possiede una dimensione morale che riguarda la realtà quotidiana.

Perciò si deve distinguere bene la causa della colpevolezza dei Corinzi. Non hanno abusato dell’eucaristia nel senso di una profanazione non trattandola come una realtà sacra. La loro responsabilità consiste nel fatto che non tenevano conto delle implicazioni comunitarie dell’eucaristia e della comunione personale con il Signore: non può dire di stimare il Signore chi disprezza il prossimo misteriosamente unito a Lui.

I Corinzi praticamente toglievano all’alleanza offerta dal Signore la sua “novità”, soffocandola nelle rigide categorie economiche e sociali del paganesimo.

 

b. Non pasto dei perfetti ma rimedio contro i difetti

78. Paolo critica le divisioni fra i Corinzi come incompatibili con la Cena del Signore, ma non proclama uno “sciopero dell’eucaristia”. Chi volesse sospendere l’eucaristia finché le comunità ecclesiali si trovino in piena unità e libere dal peccato, non potrebbe mai rinnovare il comandamento di Cristo: “Fate questo in memoria di me” (1 Cor 11,24.25). Lo stesso Paolo connette le due realtà: “È necessario infatti che avvengano divisioni tra voi, perché in mezzo a voi si manifestino i veri credenti” (1 Cor 11,19). Attraverso il legame che stabilisce tra Eucaristia e impegno morale, il testo paolino si situa in continuità con numerosi scritti dell’Antico Testamento che insistono sulla relazione tra culto ed etica (cf. sopra nn. 35-36).

L’eucaristia a causa dei difetti che si trovano nelle comunità, sarà costantemente un richiamo, uno stimolo a non accontentarsi di questa situazione. Perciò Paolo la vede anche come una occasione affinché “ciascuno esamini se stesso” (1 Cor 11,28). Il frutto sarà: “Quando poi siamo giudicati dal Signore, siamo da lui ammoniti per non essere condannati insieme con il mondo” (11,32). Inoltre, nella prima celebrazione eucaristica, svolta dallo stesso Gesù, egli si vede costretto a rimproverare i difetti dei suoi. “E nacque tra di loro anche una discussione: chi di essi fosse da considerare più grande” (Lc 22,24). I due viandanti di Emmaus sono irretiti nei sogni del messianismo politico (Lc 24,21), ma ciò non impedisce a Gesù di spiegare loro le Scritture e di farsi conoscere da loro “nello spezzare il pane” (24,35).

Per Paolo gli avvenimenti deplorabili di Corinto non hanno come risultato una rinuncia fatalista agli incontri eucaristici, ma si presentano come valide opportunità per esaminare la coscienza, sia individuale sia comunitaria, per formulare “l’imperativo” dei cambiamenti necessari e per permettere all’ “indicativo” della forza divina, attiva nella nuova alleanza, di dispiegare la sua opera unitiva nel corpo di Cristo.

Prescindendo da un’ostinata chiusura individualista o di gruppo, la partecipazione all’eucaristia sarà sempre il più forte richiamo alla conversione e il modo migliore di dare nuova vitalità all’alleanza che rinnova la vita e i comportamenti nella Chiesa e, partendo da essa, nel mondo.

 

c. La dinamica dello Spirito di Cristo

79. Nell’eucaristia Gesù dà se stesso alla comunità dei partecipanti proprio nel suo atto supremo, nella sua totale dedizione a Dio Padre e nel suo sconfinato impegno per gli uomini peccatori. Dando se stesso, Gesù comunica il suo Spirito, lo Spirito di Cristo (Rm 8,9; Fil 1,19). Questo dono chiede in esseri liberi una accoglienza attiva, un adeguarsi allo Spirito di Gesù, un agire nel suo Spirito. Paolo giunge perciò a questa conclusione: “Se viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito” (Gal 5,25).

Non si tratta di un imperativo imposto dall’esterno e da realizzare con le proprie forze ma di un imperativo interno, dato con lo stesso Spirito di Gesù. Rimane un compito continuo di aprirsi allo Spirito di Gesù, lasciarlo determinare le proprie azioni, seguirlo. Lo Spirito, vivo in Gesù e comunicato da Gesù specialmente attraverso il dono dell’eucaristia, diventa una realtà dinamica all’interno dei cuori dei cristiani, se essi non si oppongono al suo operare.

Per Paolo dal comportamento dei Corinzi viene messo in pericolo l’elemento centrale della fede cristiana, la presenza e l’attività dello Spirito di Cristo nei cuori dei fedeli. Allo Spirito di Cristo, che è uno Spirito di amore e solidarietà, hanno preferito i vecchi privilegi e divisioni di classe, finendo nel disprezzo verso coloro che non hanno niente (1 Cor 11,22). Perciò giunge vigorosa la reazione dell’apostolo, determinata dalla stessa preoccupazione che esprime nei confronti dei Galati: “Dopo aver cominciato nel segno dello Spirito, ora volete finire nel segno della carne?” (3,3).

La presenza e la dinamica interna dello Spirito non dispensa i cristiani dai decisi e duri sforzi propri. Lo stesso Gesù, possessore e datore dello Spirito, non fu esonerato da una lotta ardua per compiere la sua opera di redenzione. Il comportamento di Gesù deve ispirare coloro che nel suo sangue diventano partecipi alla nuova alleanza.

 

4. DAL DONO AL PERDONO 

80. Fondamentale è il dono di Dio che comincia con la creazione, si manifesta nelle diverse espressioni dell’alleanza e va fino all’invio del Figlio, alla rivelazione di Dio come Padre, Figlio e Spirito Santo (Mt 28,19) e all’offerta di una comunione di vita perfetta e interminabile con Dio. Il dono è allo stesso tempo invito all’accoglienza, indica implicitamente il giusto modo di accoglierlo e abilita a una risposta adeguata. Esponendo la morale rivelata ci siamo impegnati a mostrare come Dio accompagna i suoi doni con la rivelazione del giusto cammino, del modo adeguato di accoglierli.

Ma secondo la testimonianza della Bibbia, gli uomini, sin dall’inizio, non accolgono giustamente il dono di Dio, non vogliono accettare il cammino che Dio mostra loro, e preferiscono le proprie vie sbagliate. Ciò si verifica in tutta la storia umana, in ogni generazione fino alla crocifissione del Figlio di Dio, al rifiuto dei suoi missionari, alla persecuzione dei suoi fedeli. La Bibbia è il racconto delle iniziative di Dio ma simultaneamente il racconto delle malvagità, debolezze, fallimenti umani. Si pone urgentemente la domanda: quale è la reazione di Dio a queste risposte umane? Dio fa la sua offerta solo un’unica volta? Chi non la accoglie subito giustamente la perde per sempre e perisce, inesorabilmente, nella sua ribellione, separato da Dio fonte di vita?

In questa situazione i libri biblici ci mostrano come al dono si aggiunge il perdono. Dio non agisce da giudice e vendicatore implacabile ma si impietosisce delle sue creature cadute, le invita al pentimento e alla conversione e perdona le loro colpe. È un dato fondamentale e decisivo della morale rivelata che essa non costituisce un moralismo rigido e inflessibile ma che il suo garante è il Dio pieno di misericordia che non vuole la morte del peccatore ma che egli si converta e viva (cf. Ez 18,23.32).

Presentiamo i dati principali di questa situazione propizia e salvifica, in cui al dono si aggiunge il perdono e che è l’unica speranza dell’uomo peccatore. L’Antico Testamento attesta ampiamente la disposizione di Dio al perdono, che poi raggiunge il suo compimento nella missione di Gesù.

 

4.1. Il perdono di Dio secondo l’Antico Testamento

81. Peccato e colpa, penitenza ed espiazione hanno un ruolo importante nella vita quotidiana del popolo di Dio. Ciò si manifesta nei racconti fondamentali biblici sull’origine del male nel mondo (Gn 2-4; 6-9) e sulla ribellione d’Israele (Ger 31; Ez 36) e sul riconoscimento del dominio di Dio da parte di tutta la terra (Is 45,18-25). Un ricco vocabolario di espressioni per tutto il campo di peccato e perdono e un sistema raffinato di rituali di espiazione mostrano lo stesso fatto. Non è facile, tuttavia, capire la dinamica del processo con cui il rapporto fra Dio e il suo popolo viene restaurato, secondo le sue dimensioni antropologiche e teologiche. Esse, difatti, sono molto differenti dei nostri concetti moderni.

 

a. Due presupposti fondamentali

Segnaliamo due importanti concetti iniziali. Prima di tutto: colpa e perdono non sono materia di imputazione giuridica e di condono di debiti. Si tratta, al contrario, di realtà di fatto. Le azioni cattive producono una distorsione del cosmo. Sono contro l’ordine della creazione e possono essere controbilanciate solo mediante azioni che restaurano l’ordine del mondo. In secondo luogo, questo concetto di una connessione naturale fra causa ed effetto è indicativo del ruolo di Dio quanto al perdono: egli non è il creditore severo che mette in ordine dei debiti ma il Creatore benevolo che riporta gli esseri umani alla loro condizione di esseri amati da lui e che ripara i danni che hanno causato al mondo. Queste due premesse sono in contrasto con la comprensione giuridica di peccato e perdono nella nostra cultura. Si deve, però, tenerne conto, altrimenti si perde una chiave di accesso alla proclamazione della misericordia di Dio. La comprensione ontologica dell’espiazione si rispecchia in alcune espressioni metaforiche, come: Dio “getta in fondo al mare i peccati” (Mi 7,19), “lava il penitente dal peccato” (Sal 51,4), “redime dalla colpa” (Sal 130,8).

 

b. La tradizione sacerdotale

Una teologia dettagliata del perdono è stata sviluppata negli ambienti sacerdotali, specialmente nella forma che si trova nei libri del Levitico e di Ezechiele, e specialmente mediante l’espressione “coprire (‘kapper’) i peccati”. Il libro del Levitico presenta la legislazione per il culto riguardante le varie offerte, che corrispondono alle varie categorie di peccato e impurità (Lv 4-7). Il grande rito è quello del giorno di espiazione, quando il capro per il SIGNORE viene immolato come sacrificio per i peccati del popolo e il capro per Azazel viene mandato al deserto e porta con sé le iniquità d’Israele (Lv 16). La legge che riguarda questa cerimonia si trova esattamente al centro dei cinque libri di Mosè e regola la principale attività cultuale istituita per rendere possibile la presenza permanente del Signore in mezzo al suo popolo nella tenda del deserto (cf. Es 40).

È fondamentale per la tradizione sacerdotale che i riti di espiazione non vengono presentati come mezzi che ottengono la misericordia di Dio, nel senso che una attività umana possa disporre della sua volontà di perdonare o persino possa obbligarlo al perdono. Questi riti rappresentano invece il segno oggettivo del perdono del Signore (sangue come pegno di vita: cf. Gn 9,4).

La riconciliazione stessa, tuttavia, è pura iniziativa della benevolenza trascendente del Signore nei confronti del peccatore penitente, come spiega il Levitico: “Poiché in quel giorno si compirà il rito espiatorio per voi, al fine di purificarvi; voi sarete purificati da tutti i vostri peccati davanti al SIGNORE” (Lv 16,30).

 

c. Caratteristiche della riconciliazione

Sullo sfondo di questo insegnamento sacerdotale si devono comprendere molte affermazioni che si trovano qua e là e riguardano la riconciliazione degli esseri umani con Dio. È esclusivamente il Signore che perdona peccati (Sal 130,8). La sua misericordia riguarda tutto Israele (Ez 32,14), anche la generazione iniqua del deserto (Es 34,6-7), la sua città Gerusalemme (Is 54,5-8) e anche le altre nazioni (Gio 3,10). Il perdono è sempre immeritato, ma proviene dalla santità di Dio, la qualità che distingue il Signore da tutti gli esseri terreni (Gn 8,21; Os 11,9). Il perdono di Dio causa il rinnovamento creativo (Sal 51,12-14; Ez 36,26-27) e porta con sé vita (Ez 18,21-23). Esso è sempre offerto a Israele (Is 65,1-12) e può essere vanificato solo dal rifiuto del popolo di tornare al Signore (Ger 18,8; Am 4,6-13). Secondo il decalogo la pazienza di Dio nei confronti dei peccatori è talmente stupenda che giunge fino alla terza e quarta generazione, attendendo che lascino le vie della malvagità (Es 20,5-6; Nm 14,18). Infine, il suo perdono porta a termine ogni castigo (Is 40,1-20; Gio 3,10), che non ha un altro traguardo che far tornare a lui i peccatori: “Forse che io ho piacere della morte del malvagio o non piuttosto che desista dalla sua condotta e viva?” (Ez 18,23; cf. Is 4).

 

4.2. Il perdono di Dio secondo il Nuovo Testamento

82. Gli scritti del Nuovo Testamento affermano concordemente come verità centrale che Dio ha realizzato il perdono attraverso la persona e l’opera di Gesù. Esponiamo questo messaggio in un modo alquanto esplicito per il vangelo di Matteo e poi, più brevemente, per alcuni altri scritti del Nuovo Testamento.

 

a. Gesù salvatore dai peccati (Matteo)

L’evangelista Matteo ribadisce in modo particolare che la missione di Gesù consiste nel compito di salvare il suo popolo dai suoi peccati (1,21), di chiamare i peccatori (9,13) e di ottenere il perdono dei peccati (26,28).

Giuseppe che, prima della nascita di Gesù, viene informato dall’angelo del Signore sulla situazione di Maria e sul proprio ruolo, riceve l’incarico: “Tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati” (Mt 1,21). In una maniera fondamentale e programmatica, mediante lo stesso nome del bambino, viene espressa la sua principale missione. Al nome ‘Gesù’ (in ebraico: ‘Jeshua’ o ‘Jehoshua’) viene di solito attribuito il significato ‘Il Signore salva’. Qui il dono della salvezza si specifica come perdono dei peccati. Nel Sal 130,8 colui che prega, confessa: “Egli (Dio) redimerà Israele da tutte le sue colpe.” D’ora in poi Dio agisce e perdona i peccati attraverso la persona di Gesù. La venuta e la missione di Gesù è incentrata sul perdono e attesta in modo inconfutabile che Dio perdona. Nei due versetti che seguono, Matteo riferisce l’adempimento della Scrittura che dice: “Egli sarà chiamato Emmanuele, che significa ‘Dio con noi’” (1,22-23). Gesù libera dai peccati, toglie ciò che separa gli uomini da Dio e allo stesso tempo effettua la rinnovata comunione con lui.

Nell’incontro con un paralitico Gesù esplicitamente realizza questo suo compito. Non guarisce subito il malato ma gli dice, con accondiscendenza e tenerezza: “Coraggio, figlio, ti sono perdonati i peccati” (Mt 9,2). Alcuni scribi, lì presenti, sono consapevoli della gravità dell’accaduto e accusano Gesù, internamente, di aver bestemmiato, di essersi arrogato una prerogativa divina. Nei loro confronti Gesù insiste sulla sua autorità e presenta come conferma la stessa guarigione: “Perché sappiate che il Figlio dell’uomo ha il potere sulla terra di perdonare i peccati ...” (Mt 9,6). Con questo incontro sono collegate la chiamata del pubblicano Matteo (9,9) e il banchetto di Gesù e dei suoi discepoli con molti pubblicani e peccatori. Contro la protesta dei farisei Gesù si presenta come medico e come espressione della misericordia voluta da Dio, e definisce la missione affidatagli da Dio così: “Non sono venuto infatti a chiamare i giusti, ma i peccatori” (Mt 9,13). Anche qui il fine del perdono, come Gesù lo esprime nella parola familiare rivolta al peccatore malato, nella chiamata alla sequela e nel banchetto comune, è la comunione.

Durante l’ultima cena, in fine, dando il calice ai discepoli, Gesù dice: “Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue dell’alleanza che è versato per molti per il perdono dei peccati” (Mt 26,28). Così rivela in quale modo egli ottiene la salvezza del suo popolo dai suoi peccati. Versando il suo sangue, immolando cioè la propria vita, sancisce la nuova e definitiva alleanza e consegue il perdono dei peccati (cf. Eb 9,14). Le azioni che Gesù chiede ai suoi discepoli, mangiare cioè il suo corpo e bere il suo sangue, sono pegni della loro unione con lui e attraverso di lui con Dio – unione che diventa perfetta e imperitura con il banchetto nel regno del Padre (Mt 26,29).

 

b. La missione redentrice di Gesù in altri scritti del Nuovo Testamento

83. Accenniamo brevemente al vangelo di Giovanni, alla lettera ai Romani, alla lettera agli Ebrei e all’Apocalisse. Può stupire il fatto che quasi sempre all’inizio di questi scritti si mette in rilievo la missione di Gesù che riguarda il perdono dei peccati.

Alla prima comparsa di Gesù Giovanni Battista lo presenta così: “Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo!” (Gv 1,29) Il mondo, l’intera umanità è impregnata dal peccato; Dio ha mandato Gesù affinché liberi il mondo dal peccato. Il motivo che ha causato l’invio del Figlio da parte del Padre è il suo amore per il mondo peccatore: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio, l’unico, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui” (Gv 3,16-17). Anche all’inizio della sua prima lettera Giovanni constata: “Il sangue di Gesù, il Figlio suo, ci purifica da ogni peccato” (1 Gv 1,7) e continua: “Se confessiamo i nostri peccati egli, che è fedele e giusto, ci perdonerà i peccati e ci purificherà da ogni iniquità. Se diciamo di non aver peccato facciamo di lui un bugiardo e la sua parola non è in noi” (1 Gv 1,9-10).

Paolo si occupa specialmente nella lettera ai Romani del perdono concesso da Dio e realizzato da Gesù: “Tutti infatti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, giustificati gratuitamente per la sua grazia per mezzo della redenzione che è in Cristo Gesù. Dio lo ha prestabilito come strumento di espiazione per mezzo della fede, nel suo sangue ...” (Rm 3,23-25). Per tutti la fede in Gesù costituisce l’accesso al perdono dei loro peccati (cf. Rm 3,26) e alla riconciliazione con Dio (cf. Rm 5,11). Anche secondo Paolo l’amore di Dio per i peccatori è il motivo del dono del suo Figlio: “Dio ci mostra il suo amore verso di noi perché mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi” (Rm 5,8).

L’inizio della lettera agli Ebrei descrive la posizione del Figlio attraverso il quale Dio ha ultimamente parlato (Eb 1,1-4) e menziona l’azione decisiva della sua missione: egli ha compiuto “la purificazione dei peccati” (Eb 1,3). In questo modo viene rilevato sin dall’inizio ciò che costituisce il tema principale della lettera.

Nella parte iniziale dell’Apocalisse Gesù Cristo viene acclamato come “colui che ci ama e ci ha liberato dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre” (Ap 1,5-6). Ciò si ripete nella grande, solenne, festosa e universale celebrazione dedicata all’Agnello, e si esprime nel canto nuovo: “Tu sei degno di prendere il libro e di aprirne i sigilli, perché sei stato immolato e hai riscattato per Dio, con il tuo sangue, uomini di ogni tribù, lingua, popolo e nazione e hai fatto di loro, per il nostro Dio, un regno e sacerdoti e regneranno sopra la terra” (Ap 5,9-10). La singolare festa e gioia è causata dal fatto che il sacrificio di Gesù-Agnello è l’atto redentore e salvatore per antonomasia che riconcilia l’umanità perduta con Dio, la conduce dalla morte alla vita e la porta dalle tenebre della disperazione a un futuro felice e luminoso nell’unione con Gesù e con Dio.

Ricordiamo, infine, l’esperienza dei due principali apostoli, Pietro e Paolo. Ambedue hanno sperimentato un serio fallimento: Pietro negando tre volte di conoscere Gesù e di essere il suo discepolo (Mt 26,69-75 parr), Paolo come persecutore dei primi credenti in Gesù (1 Cor 15,9; Gal 1,13; Fil 3,5-6); ambedue erano profondamente consapevoli della loro colpa. A Pietro (1 Cor 15,5; Lc 24,34; Gv 21,15-19) e a Paolo (1 Cor 9,1; 15,8) si è manifestato il Cristo risorto. Ambedue sono peccatori graziati. Ambedue hanno sperimentato il significato decisivo e vitale del perdono per il peccatore. Il loro successivo annuncio del perdono di Dio mediante il Signore Gesù, crocifisso e risorto, non è una teoria o parola gratuita, ma è la testimonianza della propria esperienza. Conoscendo il pericolo della perdizione hanno ricevuto la riconciliazione e sono diventati i principali testimoni del perdono divino nella persona di Gesù.

 

c. La mediazione ecclesiale per la comunicazione del perdono divino

84. Nel quadro più ampio del potere affidato a Pietro (Mt 16,19) e agli altri discepoli responsabili nella Chiesa (Mt 18,18) si inserisce la missione di “rimettere i peccati”; essa viene presentata nel contesto dell’effusione dello Spirito Santo simboleggiata da un gesto impressionante del Signore risorto che alitò sui discepoli (Gv 20,22-23). Lì, al centro dell’evento pasquale, nasce ciò che Paolo chiama “il ministero della riconciliazione” e che egli commenta: “È stato Dio infatti a riconciliare a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione” (2 Cor 5,19). Tre sacramenti sono esplicitamente al servizio della remissione dei peccati: il battesimo (At 2,38; 22,16; Rm 6,1-11; Col 2,12-14), il ministero del perdono (Gv 20,23) e, per gli ammalati, l’unzione affidata ai “presbiteri” (Gc 5,13-19).

 

5. LA META ESCATOLOGICA, ORIZZONTE ISPIRATIVO DELL’AGIRE MORALE

85. La meta escatologica è presentata, nel Nuovo Testamento, come l’ultimo grado di unione con Dio che l’uomo è chiamato a raggiungere. Costituisce, da parte di Dio, un dono che implica la sua trascendenza e si realizza per mezzo di Cristo. Richiede nell’uomo che ne è oggetto la disponibilità ad accettarlo e ad impostare l’intero suo agire morale nell’attuale vita terrestre entro l’orizzonte della futura pienezza di vita nell’unione perfetta con Dio.

Ne troviamo tracce un po’ dappertutto nell’ambito del Nuovo Testamento. Ma l’unione escatologica con Dio come pure la sua accoglienza da parte dell’uomo risaltano soprattutto in Paolo e nell’Apocalisse.

 

5.1. Il regno realizzato e Dio tutto in tutti: il messaggio di Paolo.

86. Paolo, come appare tenendo conto sincronicamente di tutte le Lettere che gli vengono attribuite, vede la meta ultima dell’uomo come l’esito di un dinamismo di vita che, avviato con la prima accoglienza del Vangelo e col battesimo, si conclude con l’essere con Cristo.

 

a. Il dono della vita eterna

Fin dalla sua prima impiantazione, la vita eterna donata è messa da Paolo in rapporto con Cristo: “il dono di Dio è la vita eterna in Cristo Gesù nostro Signore” (Rm 6,4). Il rapporto con Cristo viene precisato come un aggancio – di dipendenza e di partecipazione – con la resurrezione: “… come Cristo è risuscitato dai morti tramite la gloria del Padre, così anche noi camminiamo in una novità di vita” (Rm 6,23).

La partecipazione alla vita risorta si realizza già adesso: segue il cristiano, costantemente in crescendo, nello sviluppo della sua esistenza attuale e raggiunge la pienezza nella fase escatologica.

A proposito di questa vita che anima il cristiano c’è un altro aspetto da sottolineare: la dipendenza dallo Spirito. Lo Spirito impianta nel cristiano la nuova vita di Cristo, la fa sviluppare, la porta alla sua completezza. Come ci possiamo configurare questa completezza? Paolo ci offre in proposito diversi spunti significativi.

Parla, ad esempio, di una vita nell’incorruttibilità, nella gloria, nella potenza, di un corpo spirituale al posto della nostra situazione pre-escatologica presente (1 Cor 15,42-44). Sottolinea che, risorti, porteremo “l’immagine dell’Adamo celeste” (1 Cor 15,49).

Un altro testo di Paolo che ci sposta dal presente al futuro escatologico è la conclusione della “via dell’amore” (1 Cor 12,31b-14,1a) che troviamo in 1 Cor 13,8-13. L’amore con cui amiamo adesso “non cade mai” (1 Cor 13,8). A livello escatologico cadranno la fede e la speranza, ma l’amore, debitamente maggiorato, rimarrà e darà il tono a tutta la vita escatologica.

Ma c’è – a proposito di vita divina come partecipazione alla resurrezione di Cristo – un brano particolarmente sintetico e significativo: si tratta di 1 Cor 15,20-28. Dopo aver illustrato nei versetti precedenti l’abbinamento irrinunciabile tra la resurrezione di Cristo e quella dei cristiani, in base al quale esiste un’unica grande resurrezione, quella di Cristo che si estende e ramifica in forma di vita e vitalità nei singoli cristiani, Paolo si premura ora di precisarne alcuni dettagli. C’è anzitutto, nella condivisione della resurrezione, un ordine nella realizzazione: prima Cristo, che, già risorto, costituisce come la primizia di un raccolto che sta ancora maturando. Ma, infallibilmente, dopo Cristo verranno “coloro che gli appartengono” (1 Cor 15,23).

La partecipazione piena alla resurrezione da parte dei cristiani avrà luogo “nella sua parusia” (1 Cor 15,23), al momento del ritorno conclusivo. Paolo, guardando ad esso dal suo presente, indica – usando uno stile apocalittico – ciò che accadrà nel tratto di tempo intermedio. Ci sarà un’azione propria di Cristo tesa a stabilire il suo regno nella storia. Ciò comporterà, da una parte il superamento di tutti gli elementi anti-regno, eterogenei e ostili, che si saranno concretizzati nella storia, fino all’ “ultimo nemico… la morte” (1 Cor 15,26). Dopo questo, Cristo risorto presenterà “a Dio e Padre” (1 Cor 15,24) il regno realizzato, costituito, insieme, da lui e da tutti gli uomini che parteciperanno pienamente alla sua resurrezione. Si raggiungerà allora il punto di arrivo di tutta la storia della salvezza: Dio “tutto in tutti” gli uomini (1 Cor 15,28), perfettamente omogeneo con loro, come è, già fin da adesso, tutto presente e omogeneo con Cristo risorto.

 

b. I risvolti morali

87. Questa meta altissima ha i suoi risvolti morali, che si riflettono sull’agire cristiano.

Guardando ad essa  il cristiano dovrà, anzitutto, prendere atto di essere, già fin da adesso, portatore di quella vita che poi avrà questa fioritura. Cristo, mediante la vita nuova che gli comunica, già fin da adesso sta resuscitando in lui.

Lo Spirito che possiede gliela dona e gliela organizza. Costituisce “la caparra della nostra eredità” (Ef 1,14), quella che avremo una volta raggiunta la meta. Ogni aumento di vita, ogni  crescita di amore costituiscono un passo in questa direzione.

Il cristiano, di conseguenza, dovrà guardare al suo futuro ultimo come a un punto di riferimento ispirativo. C’è, tra il suo presente e la sua meta ultima, una continuità di vita in crescendo.

La vita di Cristo in sviluppo comporterà nel cristiano scelte precise e Paolo non si stanca di ribadirlo: “calcolate voi stessi come morti al peccato, ma viventi a Dio in Gesù Cristo” (Rom 6,11). E lo sviluppo tende tutto al regno futuro che Cristo consegnerà al Padre e di cui Cristo stesso farà parte. Ma la partecipazione al regno futuro, lungi dall’essere scontata, ha fin da adesso le sue esigenze. Dopo aver enumerato le “opere della carne” (Gal 5,19-21), Paolo soggiunge: “Riguardo a tutto questo vi dico in anticipo, come già vi dissi, che coloro che fanno queste cose non possederanno il regno di Dio” (Gal 5,21). Ne consegue che, guardando al suo futuro escatologico, il cristiano crescerà ogni giorno nella vita e nell’amore, ma dovrà, nello stesso tempo, guardarsi da tutti gli elementi anti-regno che lo possono insidiare nel cammino.

 

5.2. Il punto di arrivo dell’Apocalisse: la reciprocità con Cristo e con Dio

88. Nell’Apocalisse l’insegnamento sulla pienezza escatologica, particolarmente accentuato, viene presentato in modo originale. Quello che in Paolo è il regno realizzato e “Dio tutto in tutti”, viene descritto in termini antropologici: una città che diviene la sposa. E la città è la Gerusalemme nuova. Due sono le tappe di questo suo divenire.

 

a. Fidanzata e sposa – la Gerusalemme nuova

Nella prima tappa la città, ancora fidanzata, varca la soglia della nuzialità (Ap 21,1-8). In un contesto tutto rinnovato dai valori di Cristo – “un cielo nuovo e una terra nuova” – Gerusalemme “scende dal cielo, da Dio, preparata come una fidanzata adornata per il suo uomo” (Ap 21,1-2).

La preparazione della fidanzata, ormai ultimata, ha comportato una crescita graduale del suo “primo amore” (Ap 2,4), crescita che la fidanzata ha realizzato sia accogliendo gli imperativi di Cristo che la qualificano sempre più come regno (Ap 2,2-3), sia lasciando le “impronte di giustizia” (Ap 19,8) che ha saputo realizzare nella storia.

Varcata la soglia della nuzialità, la fidanzata diventa la “donna”. È la seconda tappa. L’autore dell’Apocalisse esprime ed inculca, con le risorse migliori del suo simbolismo, la situazione nuova che così si determina (Ap 21,9-22,5). Da una parte la fidanzata divenuta sposa è vista, sentita e fatta sentire come capace di un amore paritetico nei riguardi di Cristo. Preparata a contatto con la  trascendenza di Dio nel cielo da cui discende, portante addirittura il  tocco di Dio che è amore, la Gerusalemme nuova appare tutta rapportata a Cristo, pervasa com’è della sua novità. Dall’altra, Cristo stesso è come impegnato a donare alla sua sposa quanto di meglio egli possiede: la inonda di luce e le comunica, lui il suo “datore di luce che corrisponde a una pietra preziosissima come una pietra di diaspro che riflette la luce” (Ap 21,11), la gloria di Dio. Ne fa una città aperta a tutti i popoli, con sulle dodici porte “dodici angeli e i nomi delle dodici tribù di Israele” mentre i suoi fondamenti sono “i dodici apostoli dell’agnello” (Ap 21,14). Le dà stabilità, la costruisce tutta secondo le dimensioni del suo amore (cf. Ap 21,16 e Ef 3,18-19). Soprattutto la mette in contatto diretto con Dio (Ap 21,18), un contatto vivo e palpitante, simboleggiato dall’ abbondanza delle pietre preziose (Ap 21,19). La inonda di “un fiume di acqua della vita, brillante come cristallo, proveniente dal trono di Dio e dell’agnello” (22,1). Sia Cristo agnello sia la sua sposa non potrebbero farsi un dono reciproco maggiore.

 

b. Il regno di Dio attuato

89. Ma c’è un altro aspetto. Con la Gerusalemme nuova “sposa dell’agnello” (Ap 21,9) si realizza pienamente “il regno di Dio e del suo Cristo” (Ap 11,15). L’abbinamento tra nuzialità e regno entusiasma l’autore dell’Apocalisse, che lo esprime in una delle celebrazioni dossologiche più solenni del libro (19,6-8):

“Alleluia, poiché regnò il Signore, il nostro Dio

L’onnipotente!

Gioiamo ed esultiamo e diamogli gloria

Poiché giunsero le nozze dell’agnello

e la sua sposa si preparò

e le fu dato di rivestirsi di un lino

luminoso e puro!”

Il regno abbinato alle nozze escatologiche di Cristo-agnello è un regno ormai realizzato – non più in divenire – ed è posseduto in un faccia a faccia ineffabile con Dio: “E vedranno il suo volto e il suo nome sarà scritto sulle loro fronti… il Signore Dio farà splendere la sua luce su di loro e regneranno per i secoli dei secoli” (Ap 22,4-5). Esso comporta la piena realizzazione della reciprocità dell’alleanza che passa tutta attraverso Cristo e si attua raggiungendo il livello della pariteticità nuziale. In questo contesto, Cristo dona alla sua sposa un’esperienza diretta di Dio vissuta nella piena reciprocità. Nella Gerusalemme nuova non c’è bisogno di un tempio che la faciliti: “il suo tempio è il Signore Dio onnipotente e l’agnello” (Ap 21,22).

 

c. La cooperazione responsabile

90. L’autore dell’Apocalisse, come abbiamo visto, insiste sulla cooperazione responsabile del cristiano perché questi possa ricevere il dono escatologico. Per ben otto volte ha messo in rapporto la vittoria, che il cristiano deve riportare collaborando insieme a Cristo, con il premio che Cristo stesso gli darà “alla fine” (cf. Ap 2,26; cf. 2,7.11.17.28; 3,5.12.21). A nome dello Spirito vengono proclamati beati coloro che muoiono nel Signore perché “le loro opere li seguiranno dopo di loro” (Ap 14,13). E ancora, prima di mostrarci la Gerusalemme nuova, sottolinea, con una messa in scena impressionante, la valutazione giudiziale che avrà luogo per tutti gli uomini “secondo le loro opere” (Ap 20,13).

Per aver parte alla Gerusalemme celeste, si richiede di “vincere” – “il vincitore avrà queste cose in eredità” ( Ap 21,7) –, superando le difficoltà personali e soprattutto cooperando alla vittoria che Cristo risorto sta riportando nella storia sul sistema anti-regno e anti-alleanza.

Sempre in rapporto esplicito con l’ingresso nella Gerusalemme nuova, vengono sottolineate, nel dialogo liturgico conclusivo (Ap 22,6-22), da una parte l’esigenza per il cristiano di una purificazione continua: “Beati coloro che lavano le proprie vesti” (Ap 22,14), dall’altra la pena dell’esclusione inflitta ai malvagi (Ap 22,15).

 

5.3. Conclusione

91. Le due concezioni – di Paolo e dell’Apocalisse – finiscono per coincidere presentando entrambe al cristiano una prospettiva bipolare. Da una parte spostano con insistenza lo sguardo del cristiano dal presente al futuro, alla pienezza di vita che l’attende. Dall’altra richiamano incessantemente l’attenzione al presente e all’impegno costante richiesto perché si realizzi, in futuro, quella pienezza di vita.

 

SECONDA PARTE

ALCUNI CRITERI BIBLICI PER LA RIFLESSIONE MORALE

 

Introduzione

92. La prima parte di questo documento si proponeva di individuare i principali assi antropologici e teologici che nella Scrittura fondano la riflessione morale e di mostrare le principali conseguenze morali che ne derivano.

La seconda parte procede da una problematica attuale. L’uomo d’oggi, considerato sia individualmente sia collettivamente, è messo a confronto ogni giorno con problemi morali delicati che lo sviluppo delle scienze umane, da una parte, e la mondializzazione delle comunicazioni, dall’altra parte, rimettono costantemente sul tappeto, al punto che anche credenti convinti hanno l’impressione che alcune certezze di una volta siano annullate. Si pensi solo ai modi diversi di abbordare l’etica della violenza, del terrorismo, della guerra, dell’immigrazione, della condivisione delle ricchezze, del rispetto delle risorse naturali, della vita, del lavoro, della sessualità, delle ricerche in campo genetico, della famiglia o della vita comunitaria. Di fronte a questa complessa problematica, negli ultimi decenni s’è potuto essere tentati, in teologia morale, di marginalizzare, in tutto o in parte, la Scrittura. Che fare quando la Bibbia non dà risposte complete? E come integrare i dati biblici, quando per elaborare un discorso morale su tali questioni bisogna ricorrere ai lumi della riflessione teologica, della ragione e della scienza? Questo sarà ora il nostro progetto.

Un progetto delicato, per il fatto che il canone della Scrittura si presenta come un insieme complesso di testi ispirati: una collezione di libri provenienti da autori ed epoche molto diversificate, esprimenti insistenze teologiche molteplici, che affrontano o espongono le questioni morali in modi molto differenti, a volte nei quadri di testi legislativi o di discorsi prescrittivi, a volte nel quadro di racconti che hanno per oggetto la rivelazione del mistero della salvezza o presentano esempi concreti di vita morale, sia negativi sia positivi. Nel corso del tempo inoltre si assiste a una diversa evoluzione e affinamento della sensibilità e delle motivazioni morali.

Tutto ciò mostra la necessità di definire criteri metodologici che permettano di fare riferimento alla Sacra Scrittura in materia morale, tenendo conto contemporaneamente dei contenuti teologici, della complessità della sua composizione letteraria e in fine della sua dimensione canonica. A questo proposito si terrà conto in modo tutto particolare della rilettura che il Nuovo Testamento ha fatto dell’Antico, applicando quanto più rigorosamente possibile le categorie di continuità, discontinuità e progressione che segnano le relazioni fra i due Testamenti.

93. Nell’esposizione, per rischiarare quanto si può, a partire dalla Scrittura, le scelte morali difficili, distingueremo due criteri fondamentali (conformità alla visione biblica dell’essere umano e conformità all’esempio di Gesù) e sei altri criteri più specifici (convergenza, contrapposizione, progressione, dimensione comunitaria, finalità, discernimento). In ognuno dei casi enunciamo il criterio e mostriamo, sulla base di testi o temi, come il criterio si fondi sull’uno e sull’altro Testamento e suggerisca orientamenti per l’oggi.

I due criteri fondamentali svolgono un doppio ruolo essenziale. Anzitutto servono come ponte fra la prima parte (assi fondamentali) e la seconda (piste metodologiche) e dunque assicurano la coerenza globale dell’argomentazione. Poi, introducono e inglobano in qualche modo i sei criteri specifici. Dall’insieme della Scrittura infatti si possono dedurre almeno sei linee di forza per giungere a prese di posizione morali solide, che si appoggiano sulla rivelazione biblica: 1. un’apertura alle diverse culture e dunque un certo universalismo etico (convergenza); 2. una presa di posizione ferma contro i valori incompatibili (contrapposizione); 3. un processo di affinamento della coscienza morale che si trova all’interno di ognuno dei due Testamenti e soprattutto dall’uno all’altro (progressione); 4. una rettifica della tendenza, in buon numero delle culture attuali, a relegare le decisioni morali nella sola sfera soggettiva, individuale (dimensione comunitaria); 5. un’apertura a un avvenire assoluto del mondo e della storia, suscettibile di segnare in profondità l’obiettivo e la motivazione dell’agire morale (finalità); 6. e finalmente una determinazione attenta, secondo i casi, del valore relativo o assoluto dei principi e precetti morali della Scrittura (discernimento).

Il lettore avrà certamente capito che non deve attendersi che siano affrontate e trattate tutte le questioni morali che fanno problema. Abbiamo scelto un certo numero di punti che, senza essere esaustivi, esemplificano il modo o i modi più fecondi per chiarire una riflessione morale fondandosi sulla Scrittura. Si tratta in somma di mostrare quali siano i punti che la rivelazione biblica offre per aiutare noi, oggi, nel processo delicato di un giusto discernimento morale.

1. Criteri fondamentali

94. Per illustrare i due criteri generali ci serviamo dei due testi base messi in evidenza all’inizio del nostro documento, il decalogo e le beatitudini, in ragione precisamente del loro carattere di fondamento, sia a livello letterario sia a livello teologico.

1.1.  Primo criterio fondamentale: Conformità alla visione biblica dell’essere umano

95. Per il fatto che una buona parte dei contenuti etici della Scrittura può essere rinvenuta in altre culture e che i credenti non hanno il monopolio delle buone azioni, si è affermato che la morale biblica non è veramente originale e che i principali lumi utili in questo campo vanno ricercati sul versante della ragione.

1.1.1. Spiegazione del criterio

Il ragionamento non tiene. A dir vero, secondo il Card. Joseph Ratzinger “l’originalità della Sacra Scrittura in ambito morale non consiste nell’esclusività dei contenuti proposti, bensì nella purificazione, nel discernimento e nella maturazione di quanto la cultura circostante proponeva.” Il suo apporto specifico è doppio: 1. “Il discernimento critico di ciò che è veramente umano, perché ci assimila a Dio, e la sua purificazione da quanto è disumanizzante”; 2. “il suo inserimento in un nuovo contesto di senso, quello dell’Alleanza”. In altre parole, la sua novità “consiste nell’assimilare il contributo umano, ma trasfigurandolo nella luce divina della Rivelazione, che culmina in Cristo, offrendoci così il cammino autentico della vita.” Originalità, dunque, e anche pertinenza per il nostro tempo, dove la complessità dei problemi e il vacillare di talune certezze richiedono un nuovo approfondimento delle fonti della fede. “Senza Dio infatti non si può costruire nessuna etica. Anche il Decalogo, che è senza dubbio l’asse morale della Sacra Scrittura, e che è così importante nel dibattito interculturale, non va inteso innanzitutto come legge, ma piuttosto come dono: è Evangelo, e si può comprendere pienamente nella prospettiva che culmina in Cristo; non è quindi una realtà di precetti definiti in se stessi ma una dinamica aperta ad un approfondimento sempre più grande.” (Il rinnovamento della teologia morale: prospettive del Vaticano II e di Veritatis splendor, in: Camminare nella luce: Prospettive della teologia morale a partire da Veritatis splendor (ed. L. Melina e J. Noriega), Roma, PUL, 2004, 39-40 e 44-45).

Effettivamente, la Bibbia offre un orizzonte prezioso per chiarire tutte le questioni morali, anche quelle che non vi trovano una risposta diretta e completa. Più in particolare, quando si tratta di portare un giudizio morale, devono essere poste anzitutto due domande: Una determinata posizione morale: 1. è conforme alla teologia della creazione, cioè alla visione dell’essere umano in tutta la sua dignità, in quanto “immagine di Dio” (Gn 1,26) in Cristo, che è lui stesso, in un senso infinitamente più forte, “icona del Dio invisibile” (Col 1,15)? 2. è conforme alla teologia dell’alleanza, cioè alla visione dell’essere umano chiamato, sia collettivamente sia individualmente, a una comunione intima con Dio e a una collaborazione efficace nella costruzione di una umanità nuova, che trova il suo compimento in Cristo?

1.1.2. Dati biblici

96. Come applicare, più concretamente, questo criterio generale? Il decalogo, una specie di fondamento della prima Legge, ci servirà da campione. Già nella prima parte abbiamo proposto lo schizzo di una lettura “assiologica” di questo testo fondatore (cioè in termini di valori positivi). Ora vi preleviamo due esempi per mostrare in quale senso la Legge del Sinai apre un orizzonte morale potenzialmente ricco, capace di sostenere una riflessione adattata all’ampiezza di una problematica morale contemporanea. I due valori scelti sono la vita e la coppia.

 

a. La vita

“Tu non ucciderai” (Es 20,13; Dt 5,17). A partire dalla sua formulazione negativa, l’interdetto implica un non-agire: non portare grave attentato alla vita (qui, nel contesto, la vita umana). Gesù amplierà e affinerà il campo dell’astensione: non ferire il “proprio fratello” con la collera o parole ingiuriose (Mt 5,21-22). Si può dunque, in un certo senso, uccidere quanto c’è di più prezioso nell’uomo senza fucile né bombe né arsenico! La lingua può divenire un’arma mortale (Gc 3,8-10). E pure l’odio (1 Gv 3,15).

 

b. La coppia

97. “Tu non sarai adultero” (Es 20,14; Dt 5,18). Il comandamento originale mirava principalmente a un obiettivo sociale: assicurare la stabilità del clan e della famiglia. Obiettivo che - occorre precisarlo? - non ha perso nulla della sua attualità e urgenza. Anche in questo caso Gesù allarga la portata dell’interdetto, fino a escludere ogni desiderio, anche inefficace, di infedeltà coniugale, e a rendere quasi inoperante l’ordinamento mosaico relativo al divorzio (Mt 5,27-32).

1.1.3. Orientamenti per l’oggi

 

a. La vita

98. La trasposizione del precetto in un registro assiologico lo apre a prospettive più larghe.

1) Anzitutto - lo si vede già nel discorso di Gesù - essa obbliga ad affinare il concetto stesso di “rispetto della vita”. Il valore in questione non riguarda solo il corpo; esso si applica anche, nella sua apertura programmatica, a tutto ciò che tocca la dignità umana, l’integrazione sociale e la crescita spirituale.

2) Ma anche se ci si riferisce al piano biologico, essa premunisce l’uomo da ogni tentazione di arrogarsi un potere sulla vita, sia la propria sia quella degli altri. Per questo la Chiesa comprende il “non ucciderai” della Scrittura come l’appello assoluto a non provocare volontariamente la morte di un essere umano, chiunque esso sia, embrione o feto, persona handicappata, malato in fase terminale, individuo considerato socialmente o economicamente meno redditizio. Nella stessa linea si spiegano le riserve serie che essa oppone alle manipolazioni genetiche.

3) Con il corso della storia e lo sviluppo delle civiltà, la Chiesa ha pure affinato le proprie posizioni morali riguardanti la pena di morte e la guerra in nome di un culto della vita umana che essa nutre senza cessa meditando la Scrittura e che prende sempre più colore di un assoluto. Ciò che sottende queste posizioni apparentemente radicali è sempre la stessa nozione antropologica di base: la dignità fondamentale dell’uomo creato a immagine di Dio.

4) Di fronte alla problematica globale dell’ecologia del pianeta l’orizzonte morale aperto dal valore “rispetto alla vita” potrebbe facilmente oltrepassare gli interessi della sola umanità fino a fondare una riflessione rinnovata sull’equilibrio delle specie animali e vegetali, con tutte le sfumature volute. Il racconto biblico delle origini potrebbe offrircene l’invito. Se la coppia prototipo, prima del peccato, si vede affidate quattro consegne: essere fecondi, moltiplicarsi, riempire la terra, sottometterla, allorché Dio le assegna un regime vegetariano (Gn 1,28-29), da parte sua Noè, novello Adamo, che assicura il ripopolamento della terra dopo il diluvio, non riceve più che le prime tre consegne, il che tende a relativizzare il suo potere, e se Dio l’autorizza a un regime di carni e pesci, gli impone ciononostante di astenersi dal sangue, simbolo della vita (Gn 9,1-4). Questa etica del rispetto della vita si appoggia di fatto su un doppio tema di teologia biblica: la “bontà” fondamentale di tutta la creazione (Gn 1,4.10.12.18.21.25.31) e l’ampliamento della nozione di alleanza in modo da includervi tutti i viventi (Gn 9,12-16).

Nel pensiero biblico che cosa spiega, in fondo, un simile rispetto per la vita? Né più né meno che la sua origine divina. Il dono della vita all’umanità è descritto simbolicamente come un gesto di “soffiare” da parte di Dio (Gn 2,7). Più ancora, questo “soffio interminabile è in tutte le cose”, esso “riempie il cosmo” (Sap 12,1; 1,7).

 

b. La coppia

99. Certamente l’espressione del dovere al negativo (evitare, astenersi, non fare) non esaurisce il campo etico relativo alla coppia. L’orizzonte morale aperto dal comandamento si esprimerà, fra l’altro, in termini di responsabilità personale, mutua, solidale: per esempio tocca a ognuno dei coniugi prendere sul serio il dovere di rinnovare costantemente il proprio impegno iniziale; ad ambedue di tenere conto della psicologia dell’altro, del suo ritmo, dei suoi gusti, del suo cammino spirituale (1Pt 3,1-2.7), di coltivare il rispetto, di praticare l’uno verso l’altro l’amore-sottomissione (Ef 5,21-22.28.33), di risolvere i conflitti o le divergenze di vedute, di sviluppare rapporti armoniosi; e alla coppia in quanto tale di prendere impegni responsabili in materia di natalità, di contribuzione sociale e anche di irraggiamento spirituale. Di fatto la celebrazione rituale del matrimonio cristiano implica essenzialmente un progetto dinamico, mai compiuto una volta per tutte: divenire sempre più coppia sacramentale, che attesta e simboleggia, nel cuore di un mondo di relazioni spesso effimere o superficiali la stabilità, l’irreversibilità e la fecondità dell’impegno d’amore di Dio verso l’umanità, di Cristo verso la Chiesa.

Si comprende che la Chiesa, nel suo impegno di fedeltà senza cedimenti alla Parola, abbia sempre esaltato la grandezza della coppia uomo-donna, sia nella sua dignità fondamentale di “immagine di Dio” (creazione) sia nel suo legame di mutuo impegno davanti a Dio e con lui (alleanza). Nel suo richiamo costante e irriducibile all’importanza e alla santità del matrimonio, la Chiesa agisce non tanto con la denuncia di licenze morali quanto con la difesa instancabile e accorata di una pienezza di senso della realtà matrimoniale, secondo il progetto di Dio.

 

1.2. Secondo criterio fondamentale: Conformità all’esempio di Gesù

1.2.1. Spiegazione del criterio

100. L’altro criterio fondamentale ci concentra ancora di più, per dir così, sul cuore della morale propriamente cristiana: l’imitazione di Gesù, modello ineguagliabile di perfetta conformità tra le parole e il vissuto e di conformità alla volontà di Dio. Non occorre che riprendiamo o riassumiamo quanto è stato detto nella prima parte sull’imitazione e la sequela di Cristo, temi importantissimi per il nostro punto di vista. Siccome Gesù è per i credenti il modello per eccellenza dell’agire perfetto, il problema che si pone concretamente, in materia di discernimento morale, è il seguente: occorre considerare il comportamento di Gesù come una norma, un ideale più o meno inaccessibile, una fonte di ispirazione o un semplice punto di riferimento?

1.2.2. Dati biblici

101. Anche qui ci appoggiamo su un testo base, che orienta e anticipa la proclamazione della nuova Legge nel primo vangelo.

 

a. Le beatitudini (Mt 5,1-12)

Fin dall’inizio le beatitudini situano la moralità in un orizzonte radicale. A mo’ di paradosso esse affermano la dignità fondamentale dell’essere umano sotto i tratti delle persone più sfavorite, che Dio difende in modo preferenziale : i poveri, gli afflitti, i miti, gli affamati, i perseguitati; essi sono “figli di Dio” (v. 9), eredi e cittadini “del regno dei cieli” (vv. 3.10). Ora Gesù rappresenta, in tutta la sua radicalità, il tipo del “povero” (Mt 8,19; cf. 2 Cor 8,9; Fil 2,6-8), del “mite e umile” (Mt 11,29) e del “perseguitato per la giustizia”.

b. Il seguito del discorso (Mt 5,13—7,29)

Evidentemente non si possono leggere le beatitudini facendo astrazione dal lungo discorso che esse introducono. Esso presenta una prospettiva di fondo sulla vita morale e costituisce una specie di parallelo al decalogo, malgrado la differenza di forma e di intenzione. Nella composizione del primo vangelo si tratta del primo, più lungo e programmatico discorso di Gesù che ci immerge immediatamente nel cuore di ciò che significa essere un figlio fedele di Dio nel mondo. L’idea di una “giustizia che supera” (verbo perisseuein pleion) ne costituisce in qualche modo la tela di fondo (Mt 5,20; cf. anche 3,15; 5,6.10; 6,1.33; 23,23).

Di questa giustizia superiore Gesù non solo è il rivelatore ma anche il modello. Il principio di base viene enunciato in 5,17-20. Nell’affermazione iniziale si vede un programma per tutto il vangelo: “Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire ma a dare loro pieno compimento”. La persona, l’agire e l’insegnamento di Gesù rappresentano la piena rivelazione di ciò che Dio ha voluto attraverso la Legge e i Profeti, e annunciano la presenza imminente del Regno di Dio. Da un certo punto di vista, il lungo discorso culmina nell’affermazione “Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (5,48). Così l’idea dell’uomo creato a “immagine e somiglianza di Dio” si trova restituita e trasposta in un registro specificamente morale. Dio stesso è modello di ogni agire (teleios,“perfetto”, nel senso di “completo”, “compiuto”). Di qui l’esortazione “Cercate anzitutto il suo regno e la sua giustizia” (6,33) e attendete a fare “la volontà del Padre mio che è nei cieli” (7,21). Di questa perfezione morale Cristo è il modello perfetto (cf. Mt 19,16-22).

 

1.2.3. Orientamenti per l’oggi

102. Fino a che punto è normativa la radicalità che Gesù incarna nella sua vita e nella sua morte?

1. Certo non si può prendere pretesto dalle beatitudini per idealizzare la miseria umana sotto qualsiasi forma, e ancor meno per incoraggiare, di fronte alla persecuzione, una sorta di rassegnazione passiva che troverebbe la sua unica soluzione nell’attesa dell’aldilà. Da una parte, è vero, la Chiesa, al seguito di Gesù, reca a coloro che soffrono una parola di conforto e uno stimolo: se si ricostituisce il sostrato semitico del termine “beato”, si trova l’idea di “camminare dritto” (radice ’šr ebraico), il che suggerisce che poveri e perseguitati sono già in cammino nel e verso il Regno. D’altra parte, nel testo medesimo delle beatitudini, ciò non è separato da esigenze morali, in termini di virtù da praticare: si riprende così l’idea di “ricerca della povertà”, con quel senso religioso e morale che il profeta Sofonia già dava all’espressione (Sof 2,3).

2. L’esortazione a praticare una  giustizia che superi quella degli scribi e dei farisei (cf. Mt 5,20) implica che ormai, in regime cristiano, ogni norma morale si situa nel quadro dinamico di una relazione filiale. Nel discorso, Gesù insiste molto su questo rapporto e parla ben sedici volte di Dio chiamandolo “Padre” dal punto di vista degli altri, e solo alla fine lo chiama per la prima volta “il mio Padre nei cieli” (Mt 7,21). Per esempio, egli riprende le tre espressioni tradizionali della pietà ebraica: elemosina, preghiera e digiuno (6,1-18); in ogni caso, l’atteggiamento del discepolo deve sbocciare da un legame interiore con Dio ed evitare ogni calcolo, ogni ricerca di profitto o di lode umana. La continuazione del discorso focalizza l’attenzione sul legame d’amore e di fiducia tra Dio e il discepolo. Ne deriva la responsabilità che incombe al discepolo di vivere il vangelo. Quando ciò non accade, si crea ostacolo alla realtà fondamentale della vita come è voluta da Dio e insegnata da Gesù e ci si espone a conseguenze disastrose. I testi relativi al giudizio sono essi stessi avvertimenti circa gli effetti distruttivi provenienti da una condotta cattiva. In particolare, attraverso una serie di metafore il lettore è confrontato, nella sua scelta, con una alternativa: porta larga o stretta, cammino largo o ristretto, veri o falsi profeti, albero buono o cattivo, costruttori di case insensati o saggi (7,13-27).

3. In che modo il lettore cristiano può prendere su di sé l’insegnamento morale specifico e apparentemente radicale del Discorso della montagna, a cominciare dalle beatitudini? Nella storia del cristianesimo sono state sollevate a questo proposito due questioni fondamentali. Anzitutto, a chi è rivolto il Discorso: a tutti i cristiani o solo a una porzione scelta? E come interpretarne i comandi?

In realtà, cercando di imitare Gesù, i discepoli sono incitati ad adottare un modo d’agire che rifletta fin da ora la realtà futura del Regno: manifestare compassione, non contraccambiare la violenza, evitare lo sfruttamento sessuale, intraprendere cammini di riconciliazione e di amore anche verso i propri nemici, sono disposizioni e azioni che riflettono la “giustizia” stessa di Dio e caratterizzano la vita nuova da condurre nel Regno di Dio; tra queste, la riconciliazione, il perdono e l’amore incondizionato occupano una posizione centrale e offrono un orientamento a tutta l’etica del Discorso (cf. 22,34-40).

Dunque, non si devono vedere le istruzioni e l’esempio stesso di Gesù come ideali inaccessibili, anche se riflettono ciò che caratterizza i figli e le figlie di Dio solo nella pienezza del Regno. Gli orientamenti dati da Gesù hanno valore di veri imperativi morali: forniscono un orizzonte di fondo, che conduce il discepolo a cercare e trovare modi simili per aggiustare il proprio agire ai valori e alla visione di fondo del vangelo, in modo da vivere meglio nel mondo, nell’attesa del Regno che viene. Il discorso morale e l’esempio di Gesù stabiliscono le basi teologiche e cristologiche della vita morale e incoraggiano il discepolo a vivere in accordo con i valori del regno di Dio quali Gesù li rivela.

1.3. Conclusione sui criteri fondamentali

103. Quando dal punto di vista della morale cristiana si tratta di portare un giudizio su una pratica, conviene domandarci subito: fino a che punto questa pratica è compatibile con la visione biblica dell’essere umano? E fino a che punto si ispira all’esempio di Gesù?

2. Criteri specifici

104. Compiuto questo cammino iniziale, l’applicazione dei criteri più specifici, sempre a partire dai testi biblici scelti, dovrebbe completare i contorni di una metodologia utile per trattare problemi morali.

La sistematizzazione di questi criteri riposa sulle seguenti osservazioni: 1. Convergenza: la Bibbia manifesta un’apertura alla morale naturale nell’enunciazione di un gran numero di leggi e orientamenti morali. 2. Contrapposizione : la Bibbia prende posizione in modo molto netto per combattere i controvalori. 3. Progressione: la Bibbia attesta un affinamento della coscienza su certi punti della moralità, anzitutto all’interno stesso dell’Antico Testamento, poi sulla base dell’insegnamento di Gesù e sotto l’impatto dell’evento pasquale. 4. Dimensione comunitaria: la Bibbia mette fortemente l’accento sulla portata collettiva di tutta la morale. 5. Finalità: fondando la speranza nell’aldilà sull’attesa del regno (Antico Testamento) e sul mistero pasquale (Nuovo Testamento), la Bibbia fornisce all’uomo una motivazione insostituibile per tendere verso la perfezione morale. 6. Discernimento: in fine, la Bibbia enuncia principi e offre esempi di moralità che non hanno tutti lo stesso valore: di qui la necessità di un accostamento critico.

Già i due testi base che ci sono serviti precedentemente illustrano, a modo loro, i sei criteri metodologici che faranno oggetto dello sviluppo che segue. 1. Convergenza. Alcuni precetti hanno il loro equivalente in altre culture dell’epoca. La “regola d’oro” (Mt 7,12), per esempio, si trova, nella formulazione sia positiva sia negativa, in molte culture. 2. Contrapposizione. Alcune pratiche pagane sono denunciate: per esempio le immagini scolpite (Es 20,4) o le preghiere verbose (Mt 6,7). 3. Progressione. Tutto il discorso di Gesù illustra la giustizia più grande, portando a compimento l’intenzione e lo spirito della Torah (cf. 5,17) mediante una più profonda interiorità, mediante l’integrità di pensiero e azione e mediante una azione morale più esigente. 4. Dimensione comunitaria. Certo, Gesù perfeziona le vedute essenzialmente collettive della morale del decalogo; ma anche i precetti che concernono la persona puntano in definitiva a costruire la comunità; la sofferenza stessa subita «a causa di» lui è fattore di coesione comunitaria (Mt 5,11-12). 5. Finalità. All’escatologia terrestre del decalogo (la promessa di “lunghi giorni” in Es 20,12) Gesù aggiunge come motivazione di base di tutto l’agire umano la speranza nell’aldilà (Mt 5,3-10; 6,19-21). 6. Discernimento. La giustificazione divergente del sabato, in termini cultuali in un caso (Es 20,2-11) e in termini socio-storici nell’altro (Dt 5,12-15), apre la strada a una riflessione morale più ricca e sfumata sul riposo domenicale e sul tempo. Da un altro punto di vista l’invalidazione dell’uso del divorzio (Mt 5,31-32), pur autorizzato dalla Torah, mostra bene la distinzione da fare tra le leggi perenni e quelle che sono legate a una cultura, un tempo, uno spazio particolari.

Per ognuno dei criteri ci permettiamo di collegare quanto esposto con una parola chiave. 1. Convergenza: la sapienza, in quanto virtù umana, potenzialmente riscontrabile in tutte le culture. 2. Contrapposizione: la fede. 3. Progressione: la giustizia, meno nel senso della teologia classica che nella sua accezione biblica ricca e dinamica (ebraico sedaqâ, greco dikaiosynê), che implica ricerca della volontà di Dio e cammino di perfezione (teleiôsis). 4. Dimensione comunitaria: l’amore fraterno (agapê). 5. Finalità: la speranza. 6. Discernimento: la prudenza, che implica la necessità di una verifica del giudizio morale, tanto oggettivo, a partire dall’esegesi e dalla tradizione ecclesiale, quanto soggettivo, sulla base di una coscienza (syneidêsis) guidata dallo Spirito Santo.

 

2.1. Primo criterio specifico: La convergenza

105. La Bibbia manifesta in molti punti una convergenza fra la sua morale e le leggi e orientamenti morali dei popoli circostanti. Le stesse questioni morali fondamentali sono state sollevate dalla tradizione biblica e furono trattate da filosofi e moralisti che non avevano accesso alla rivelazione divina e alle soluzioni in essa presentate. Spesso si riscontra pure una convergenza delle risposte che vengono date a tali questioni dentro e fuori della tradizione biblica. Qui si può parlare di saggezza naturale, un valore potenzialmente universale. Il fatto può incoraggiare la Chiesa di oggi ad entrare in dialogo con la cultura moderna e con i sistemi morali di altre religioni o di dottrine filosofiche in una comune ricerca di norme di comportamento nei problemi moderni.

 

2.1.1. Dati biblici

106. Troviamo testi che mostrano una tale convergenza riguardo ad aspetti della morale sia nell’Antico sia nel Nuovo Testamento. Tali aspetti sono: l’origine del peccato e del male, certe norme per il comportamento umano, considerazioni di sapienza, esortazioni morali e liste di virtù.

 

a. L’origine del peccato e del male

La fondamentale posizione biblica circa la dignità umana e l’inclinazione umana al peccare viene esposta nei primi capitoli della Genesi. Vengono condivise molte presupposizioni morali dell’ambiente antico-orientale, che si trovano specialmente nel poema epico mesopotamico ‘Enuma Elis’. L’incidenza esercitata da questo poema si manifesta nel numero rilevante di suoi testimoni antichi. Le credenze comuni includono quella che l’universo è stato creato da una divinità personale e che in questo universo gli esseri umani hanno un posto speciale e un rapporto privilegiato con la divinità. In ambedue le letterature la situazione umana è caratterizzata dall’incapacità dell’uomo di comportarsi coerentemente agli ideali accettati, un fatto che causa la morte.

I miti del dramma greco classico sono fortemente consci delle mancanze umane, in cui la tragedia lascia poco spazio a speranza e perdono. Le grandi tragedie classiche descrivono le conseguenze inevitabili e durature di queste mancanze e dell’implacabile vendetta divina. Le stesse convinzioni sono attestate dalle iscrizioni funerarie greche, in cui domina, senza mitigazione, il senso dello scacco e dell’assurdità della vita che è stata vissuta. Ne deriva una analisi della situazione umana pessimista.

Le analisi della natura e condizione umane che sono presenti all’inizio della Bibbia attribuiscono un significato diverso all’esistenza umana. La speranza è rilevante nella concezione biblica della natura umana fallibile, dato che il Dio della rivelazione biblica è un Dio che ama, perdona e si prende cura del mondo creato, e di cui ogni essere umano è l’immagine e il rappresentante. Senza tentare di dissimulare o scusare l’inclinazione umana al peccato, questi capitoli danno un senso positivo alla moralità, a causa della certezza circa l’intervento e il perdono divini.

Benché la concezione ebraica del mondo si esprima in un linguaggio con addebiti mesopotamici, ci sono in particolare due elementi biblici che mancano nei miti mesopotamici. Si tratta della cura divina per l’umanità e della responsabilità umana per la continuità della creazione, responsabilità che si esprime nel compito di Adamo, che è creato ad immagine di Dio. Nella concezione mesopotamica del mondo gli esseri umani hanno il compito di servire al beneplacito degli dèi provvedendoli di sacrifici.

 

b. Le leggi

107. Anche le leggi dell’Antico Testamento (per es. Es 20-23; Dt 12-26) si trovano nella grande tradizione delle leggi dell’Antico Oriente (per es. Codice di Hammurabi). Specialmente la concordanza di prescrizioni legali individuali è impressionante. La convinzione che legge e giustizia, e soprattutto la protezione del debole, sono indispensabili per ogni vita comunitaria, è alla base dell’alta stima di cui godeva la legge nella cultura dell’Antico Prossimo Oriente.

L’Antico Testamento non si rivolge ai giudici o ai re che devono mantenere e far giungere alla prassi questa giustizia. Suo destinatario è ogni membro del popolo di Dio, che deve riconoscere che il bene comune, praticato in spirito di solidarietà, costituisce il cuore della vita comunitaria. Non si trova niente nella Bibbia che corrisponda a una “Dichiarazione dei Diritti Umani”, perché gli stessi obblighi che vengono espressi in una tale dichiarazione vengono presentati non quali diritti del ricevente ma quali obblighi di colui che agisce. Primario non è tanto il diritto di una persona a un determinato trattamento, bensì il dovere di ogni individuo di trattare gli altri in un modo che renda onore alla dignità umana data loro da Dio, all’infinito valore che compete a ogni persona umana agli occhi di Dio. Le leggi della Bibbia spesso non sono puri regolamenti legali, ma ammonizioni e istruzioni che fanno richieste più grandi di quelle che qualsiasi legge individuale potrebbe mai fare (per es. Es 23,4-5; Dt 21,15-17). Le leggi dell’Antico Testamento si trovano a mezza strada fra giustizia e moralità e sostengono l’intenzione di sviluppare nella persona in rapporto con Dio una coscienza che costituisce la base della vita comunitaria. Preminente, in modo particolare, è l’enfasi della convinzione che la dignità e l’indipendenza dell’individuo davanti a Dio non devono essere diminuite da nessuna schiavitù umana (Es 22,20-22; 23,11-12). Similmente importante, e forse più importante che non nei codici legali dell’Antico Prossimo Oriente, è la premura per il povero e il debole. Ambedue, sia la Legge sia il messaggio dei profeti, insistono nel dire che i loro interessi devono essere protetti; il membro vulnerabile del popolo deve essere trattato non solo con giustizia ma con la stessa generosità che Dio ha mostrato nei confronti di Israele in Egitto.

 

c. La sapienza

108. Nel periodo ellenistico l’insegnamento morale biblico è aperto a imparare dal mondo circostante, in particolare dall’insegnamento in proverbi e dal movimento della sapienza che fu sviluppato specialmente in Egitto. Alcune collezioni bibliche di proverbi mostrano uno stretto rapporto con la sapienza di Amenemope e Ptah-Hotep, specialmente in materia di rispetto e protezione per il debole e il vulnerabile (cf. Prv 22,17-24). Tuttavia, benché sembri che le conclusioni vengano ottenute dal ragionare umano, Israele è fortemente conscio che l’origine di ogni sapienza è Dio (Gb 28; Sir 24). Ben Sira, in specie, ottiene una integrazione della Torah con la sapienza umana, perché lo scriba “farà brillare la dottrina del suo insegnamento, si vanterà della legge dell’alleanza del Signore” (Sir 39,8). Anche Israele non è esente dalla delusione e dalla messa in questione delle soluzioni convenzionali di problemi come la prosperità del malvagio e la finalità della morte, che sono caratteristiche dell’era ellenistica (Giobbe; Qo 3,18-22).

 

d. Paolo e i filosofi del suo ambiente

109. Il valore della legge naturale, o piuttosto della capacità della coscienza umana di distinguere ciò che dovrebbe essere fatto e ciò che non dovrebbe essere fatto, viene esplicitamente riconosciuto e apprezzato in Rm 2,14-15. Perciò non è sorprendente il fatto che il corpus paolino, nonostante il giudizio negativo sulla morale pagana (per es. Ef 4,17-32), integra nel suo insegnamento alcuni ‘topoi’ (principi ricorrenti) comuni tra i filosofi e i maestri di morale contemporanei. Il più noto di questi ‘topoi’, preso originariamente dalla ‘Medea’ di Euripide, occorre in Rm 7,16-24. Ha paralleli stretti in Ovidio, Metamorfosi, 7,20-21 e (un po’ posteriore a Paolo) in Epitteto (Colloqui 2,17-19) e riguarda la schiavitù degli esseri umani nei confronti delle loro abitudini e passioni e la loro mancanza di vera libertà.

Inoltre, un certo numero di principi e esortazioni di Paolo rassomiglia ai consigli positivi e negativi delle scuole filosofiche contemporanee del mondo greco. Le somiglianze letterali indicano un prestito letterario, rigorosamente dimostrato per Gal 6,1-10, ma lo stesso  vale per alcuni altri passi paolini (per es. 1 Cor 5,1). Benché non si possa parlare di Paolo plagiario o di sua appartenenza a una scuola filosofica, molte delle sue posizioni ed esortazioni sono vicine a quelle della Stoa. Come i filosofi del suo tempo (specialmente gli stoici) Paolo insegna che il comportamento morale ha bisogno della libertà dalle passioni. La lotta contro le passioni non è affatto un tema inventato dal Nuovo Testamento o da Paolo, ma costituisce un ‘topos’ dell’insegnamento morale contemporaneo. In modo simile il discorso sull’Areopago in At 17,22-31 presenta Paolo che utilizza liberamente idee stoiche o comunque della filosofia popolare greca, citando il poeta cilicio Arato per mostrare che Dio è vicino agli esseri umani. Lo stesso vale per  le lettere paoline, che contengono intere liste di virtù riconosciute e lodate nel mondo circostante, liste che hanno il loro equivalente presso i moralisti contemporanei ed elencano semplicità, moderazione, giustizia, pazienza, perseveranza, rispetto, onestà.

L’originalità di Paolo consiste nella affermazione che solo lo Spirito può venire ad aiutarci nella nostra debolezza (Rm 8,3-4.26). Benché per lui esistano dei punti fermi della morale, necessari per chi vuol entrare nel regno di Dio (cf. Rm 1,18-32; 1 Cor 5,11; 6,9-10; Gal 5,19-21), Paolo intende che non è necessario un codice esterno per quelli che ottengono il frutto dello Spirito, radicalmente contrario alle opere della carne (Gal 5,16-18). Il cristiano la cui vita con Cristo è nascosta in Dio (Col 3,3; cf. Fil 2,5) viene guidato dallo Spirito: “Se pertanto viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito” (Gal 5,25; Rm 8,14). Anche la guida data da Paolo viene percepita come proveniente dallo Spirito: “Credo infatti di avere anch’io lo Spirito di Dio” (1 Cor 7,40; cf. 7,25).

 

2.1.2. Orientamenti per l’oggi

110. La situazione odierna è caratterizzata da progressi sempre più grandi delle scienze naturali e da una estensione immensa del potere e delle possibilità dell’agire umano. Le scienze umane aumentano continuamente la conoscenza degli individui e delle società umane. I mezzi di comunicazione favoriscono la globalizzazione, una sempre più grande connessione e interdipendenza fra tutte le parti della terra. Questa situazione porta con sé grandi problemi ma anche grandi possibilità per la convivenza e sopravvivenza umane. Nelle società moderne ci sono poi tante idee, sensibilità, desideri, proposte, movimenti, gruppi che si impegnano o esercitano pressione, tentativi per trovare soluzioni dei problemi e gestire in un modo giusto le possibilità presenti. I cristiani vivono insieme ai loro contemporanei in questa situazione e sono corresponsabili con gli altri di trovare giuste soluzioni. La Chiesa si trova in un continuo dialogo con la complessa cultura moderna e partecipa alla ricerca di norme giuste per la gestione della comune situazione. Menzioniamo alcuni campi tipici.

1. L’accresciuta sensibilità per i diritti umani ha prima condotto all’abolizione della schiavitù, poi a un vivo senso per l’uguaglianza delle razze umane e chiede il superamento di ogni forma di discriminazione.

2. La preoccupazione per lo sviluppo e la proliferazione di armi e strumenti di distruzione di massa spinge a cercare una riformulazione della morale dei conflitti e della guerra ed esige un intenso impegno per la pace.

3. La sensibilità per l’uguale dignità dei sessi esige una severa verifica sui condizionamenti a cui sottostanno i loro ruoli, a causa delle concezioni di molte culture, anche contemporanee.

4. Il potere tecnico umano, basato sulle scoperte delle scienze naturali, ha reso possibile un uso e abuso delle risorse naturali che prima era inconcepibile. La grande differenza fra i popoli riguardo al loro potere economico, scientifico, tecnico, politico, militare ha condotto a una massiccia disuguaglianza nella partecipazione all’uso delle risorse naturali. Esiste una crescente sensibilità per i problemi di ecologia e di giustizia che ne derivano. È avvertita la necessità di  un forte impegno per la tutela della natura, che costituisce il patrimonio comune di tutta l’umanità, e per una equa partecipazione di tutti i popoli a questo patrimonio.

La Bibbia non offre risposte immediate e pronte per risolvere questi e altri problemi. Ma il suo messaggio su Dio Creatore di tutto e tutti, sulla responsabilità umana per la creazione, sulla dignità di ogni persona umana, sulla premura particolare per i poveri ecc. prepara i cristiani per una attiva e fruttuosa partecipazione alla ricerca comune allo scopo di dare soluzioni adeguate ai problemi che si pongono.

 

2.2. Secondo criterio specifico: La contrapposizione

111. La Bibbia si oppone in modo chiaro a certe norme o abitudini praticate da società, gruppi o individui. Questo rifiuto è determinato nell’Antico Testamento dalla fede nel SIGNORE, dalla fedeltà all’alleanza in cui il SIGNORE ha unito a sé in modo singolare il popolo d’Israele, e nel Nuovo Testamento dalla fede in Gesù Cristo Figlio di Dio, nella cui incarnazione Dio ha unito a sé in modo definitivo tutta l’umanità.

 

2.2.1. Dati biblici

112. Il Decalogo, le cui prescrizioni dicono quasi esclusivamente ciò che non deve essere fatto, si oppone a una serie di azioni. Dopo la sua autopresentazione Dio dice con grande insistenza: “Non avrai altri dèi di fronte a me. Non ti farai idolo né immagine alcuna…Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io, il SIGNORE, sono il tuo Dio, un Dio geloso…” (Es 20,3-5).

Numerosi termini sono usati nel corso della Bibbia per designare questa realtà come peccato. Nell’insegnamento dei profeti diventa peccato una realtà ben concreta, per es. violenza, furto, ingiustizia, sfruttamento, frode, falsa accusa, ecc. (cf. Am 2,6-8; Os 4,2; Mi 2,1-2; Ger 6,13; Ez 18,6-8). Nella letteratura paolina come specifici peccati sono segnalati: inganno, avidità, gelosia, liti, ubriachezza, immoralità, invidia, ecc. (cf. Rm 1,29-31; 1 Co 5,10; 2 Co 12,20; Gal 5,19-21). Il peccato è essenzialmente visto come violazione di rapporti personali, che pone la persona contro Dio, ma è visto pure come violazione della dignità e dei diritti di altre persone. Al centro però è la lotta contro l’infedeltà verso il SIGNORE Dio d’Israele, la lotta contro false concezioni di Dio che si esprimono nell’idolatria, nel servizio prestato cioè ad altri dèi. Questa lotta si manifesta nella Legge, è centrale per l’attività dei profeti, è presente pure nel tempo postesilico. Il compito principale di Gesù, dal canto suo, è quello di rivelare il vero volto di Dio (Gv 1,18). La lotta contro l’apostasia da Dio e contro la preferenza ad altri valori supremi è anche presente in Paolo e nell’Apocalisse.

 

a. La lotta dei profeti contro l’idolatria

113. Nel paese di Canaan il popolo d’Israele era confrontato con il culto di altri dèi. La religione di Canaan era cosmologica, in quanto incentrata sul rapporto fra l’ordine divino dell’universo e la risposta umana. I Canaaniti veneravano dèi che erano poco più che personificazioni delle forze naturali e il cui servizio era collegato con una mitologia sofisticata e con riti finalizzati a garantire la fertilità della terra, degli animali e degli esseri umani. Specialmente questi riti di fertilità furono condannati dalla Legge e dai profeti. Il Dio d’Israele, dall’altra parte, non era intra-cosmico ma al di sopra e al di là di tutte le forze naturali. L’enoteismo era in grado di accordarsi per un certo tempo con l’esistenza di altri dèi. Tuttavia, durante l’esilio diventò evidente che gli dèi pagani erano un niente e così il SIGNORE solo fu considerato come l’unico vero Dio (monoteismo radicale).

Sembra che l’idolatria fosse abbastanza diffusa fra il popolo durante il regno di Acab (1 Re 16,29-34). In 1 Re 17–19 Elia viene presentato come il restauratore della fede mosaica, quando il culto di Baal aveva conquistato il regno settentrionale. In una scena drammatica sul Monte Carmelo fra Elia e i profeti di Baal (1 Re 18,20-40) Elia rimprovera il comportamento ambiguo del popolo ed esige la lealtà esclusiva per il SIGNORE.

Anche Osea constata che la causa fondamentale dell’agitazione sociale e politica è la misura ampia con la quale le pratiche religiose canaanite si sono infiltrate nel culto israelitico. Gli Israeliti hanno mescolato nel loro culto elementi del culto della fertilità di Baal (Os 4,7-14; 10,1-2; 13,1-3).  La corruzione del culto coincide con intrighi e tradimenti nel palazzo reale e nelle strade (Os 7,1-7; 8,4-7) e con il collasso degli standard morali (Os 4,1-3). L’idolatria viene chiamata dal profeta prostituzione (Os 1-2; 5,4).

I profeti canonici sviluppano una opinione comune a questo riguardo: il culto di divinità di produzione propria, cioè dèi che servono solo gli interessi dei loro devoti, va di pari passo con la degenerazione della moralità pubblica e privata (Am 2,4-8; Is 1,21-31; Ger 7,1-15; Ez 22,1-4). L’insegnamento sociale della Chiesa può essere considerato in linea con questo, poiché essa ha sempre sostenuto che quei sistemi socioeconomici che rivendicano autorità assoluta e subordinano il valore trascendente degli esseri umani, creati a immagine di Dio, a ideologie di gruppo, non possono produrre altro che lo sradicamento della civiltà.

Sembra che l’esilio costituisca una svolta nell’atteggiamento di Israele verso l’idolatria. Gli esiliati, confrontati con il culto politeistico dei loro padroni, comprendevano che il SIGNORE solo è il Creatore e il Signore di tutto (Is 40,12-18.21-26).

 

b. Contro la costrizione al culto pagano

114. Durante il tempo dei Maccabei si verificò un confronto fra la tradizionale religione giudaica e l’ellenismo, quando Antioco IV perseguiva una politica più aggressiva che non i suoi predecessori per diffondere la cultura pagana (167-164 a.C.). Si trattava della stessa sopravvivenza del giudaismo e della sua fede nel SIGNORE e questo provocò una duplice reazione: una rivoluzione armata (i due libri dei Maccabei) e una resistenza passiva. Il libro di Daniele fu scritto in favore di quest’ultima, per incoraggiare la perseveranza nella persecuzione.

Il libro della Sapienza risponde alla mentalità che era prevalente nel mondo ellenistico immediatamente prima dell’era  cristiana. Fu scritto per giudei della diaspora per provvederli di una difesa contro l’influsso seducente della filosofia e religione ellenistica e anche contro i nuovi culti che si moltiplicavano ad Alessandria in quel tempo. La colpa degli adoratori della natura consiste nel loro rifiuto di riconoscere Dio, Creatore, nelle opere della creazione e nella loro bellezza. Nella loro ricerca di Dio non riescono a fare l’ultimo passo (13,1-9). Le conseguenze dell’idolatria sono culti dei misteri che portano con sé la loro punizione (14,22–15,6). Ciò prova la totale stupidità della venerazione degli idoli, che si trova in pieno contrasto con l’attrattiva dei miracoli operati dal vero Dio in favore del suo popolo.

 

c. L’opposizione di Paolo al culto pagano

115. Il cristianesimo aveva le sue origini in un giudaismo ampiamente purificato dall’idolatria. Nel suo processo di espansione esso veniva a confronto col paganesimo dell’impero romano, nel quale c’era una grande varietà di culti religiosi e anche il culto per l’imperatore. Paolo viene confrontato con l’idolatria a Efeso (At 19,24-41) e si occupa di essa e delle sue conseguenze in Rm 1,18-32. Basandosi sulle critiche del giudaismo ellenistico (Sap 13-15) egli presenta una polemica tradizionale contro il mondo pagano prima di introdurre il suo interlocutore giudaico (2,1–3,20), per mostrare che nessuno, né pagano né giudeo, è giusto davanti a Dio senza la fede in Gesù Cristo (3,21-26).

L’auto-rivelazione di Dio mediante la creazione dovrebbe condurre le persone umane all’appropriata risposta di adorazione e ringraziamento. Il rifiuto intenzionale di fare questo rende il loro pensare vano e i loro cuori tenebrosi e conduce a un falso vanto di saggezza e alla corruzione del culto vero mediante la fabbricazione e venerazione delle immagini di creature. Esiste un nesso fra la prassi dell’idolatria e la depravazione sessuale, che disonora il corpo che è lo strumento di azione, unione e comunicazione fra le persone. Un tale comportamento fa sparire la distinzione fra i ruoli dei sessi, contrariamente al piano del Creatore. La pena in cui si incorre è il desiderio incontrollabile di continuare un tale comportamento depravato.

La lista dei vizi, stesa da Paolo, comprende i rapporti sociali più ampi e mostra la corruzione al livello individuale (Rm 1,24), interpersonale (1,26-27) e più ampiamente sociale (1,29-31), corruzione che pervade e avvelena la totalità della vita umana. La persistenza nel peccare e l’approvazione data ad esso mostrano come, per molte persone, è diventato ‘normale’ e accettabile questo comportamento che conduce inevitabilmente alla separazione da Dio.

 

d.  L’opposizione dell’Apocalisse al sistema demoniaco, anti-Dio

116. Il libro dell’Apocalisse presenta due grandi sistemi operanti nel mondo: il regno di Dio centrato in Gesù e nei suoi seguaci e l’anti-regno di Satana, sistema diffuso in tutto l’impero romano. I cristiani quindi vivono il loro impegno per Gesù in mezzo a un sistema terrestre che è demoniaco, pervade tutto ed è contro Dio. È concretizzato nella città di Roma con il culto reso all’imperatore e diffuso in tutto il suo vasto impero. In quanto l’imperatore rappresenta gli dèi e chiede di essere adorato, utilizza l’apparato statale e il culto imperiale per diffondere la sua propaganda demoniaca, in contrasto con Dio in tutto l’impero. Ciò viene espresso in modo simbolico nella “bestia che sale dal mare” (13,1), nella “bestia che sale dalla terra” (13,11) e nei “re della terra” (17,2.18; 18,3.9). La loro opera è concentrata e simboleggiata nella città di Babilonia (17,1-7).

Apocalisse 17-18 descrive la ricchezza e il lusso della Babilonia (Roma) condannata alla distruzione. La città simboleggia un intero modo di vivere pagano (17,3-6) in totale contrasto con i valori del regno, e il risultato sarà che i cristiani pagano con la loro vita per la loro testimonianza (17,6). La città è caratterizzata dall’autosufficienza (18,7); si tratta di una società di consumismo, che dipende dal commercio, e nella quale si trova ogni forma di lusso, ma a prezzo della diffusione della schiavitù (18,11-13.22-23). Agisce aggressivamente contro Gesù e quanti appartengono a lui (17,14). Ma nonostante la sua celebrità, questa città è condannata da Dio e crollerà improvvisamente. La sua distruzione viene presentata come un dramma liturgico (18,9-24) attraverso i lamenti dei re, dei mercanti e dei marinai, accentuando il suo crollo drammatico. I cristiani sono invitati a “uscire da essa” (18,4) per non partecipare ai suoi crimini e alla loro punizione; essi vengono esortati a distanziarsi dal mondo cattivo che li circonda e hanno bisogno di “saggezza” per suggerire una prospettiva positiva (cf. 17,7.9). Si rallegrano quando vedono la rivincita di Dio sui loro nemici e guardano la desolazione della città rovinata (18,20-23).

Questo messaggio paradigmatico può essere applicato a tutti i cristiani in simili situazioni ed essi sono esortati a difendersi contro una tale insidiosa pressione che pervade tutto. Ciò richiede la capacità di leggere i segni dei tempi e di riconoscere “la cifra della bestia” (13,18), nella certa speranza che tutti questi regimi demoniaci sono condannati alla distruzione. Solo in tal modo i cristiani saranno capaci di fare scelte adeguate e di pianificare un modo di agire maturo e responsabile.

 

2.2.2. Orientamenti per l’oggi

117. I comportamenti sbagliati di oggi che richiedono una chiara e decisa presa di posizione, non si manifestano come idolatria in quanto venerazione di immagini e statue, ma come idolatria di se stessi, che si tratti di singole persone o di classi sociali o di stati. La libertà, per quanto possibile, totale dell’individuo oppure il potere onnicomprensivo dello stato vengono considerati valori supremi. Questi atteggiamenti vengono descritti come secolarismo, capitalismo, materialismo, consumismo, individualismo, edonismo, totalitarismo ecc. Comune a questi –ismi è il fatto che concepiscono la vita umana in un modo immanentista, ridotto al mondo attuale e, soffocando la trascendenza, prescindono da Dio, negandolo o trascurandolo, e non lo riconoscono come origine di tutto e come fine di tutto. Tale dimenticanza e trascuratezza nei confronti di Dio va svelata e resa conscia.

 

a. Carenze moderne

Benché le società democratiche occidentali abbiano molti elementi positivi in campo culturale, economico e politico, non mancano però gravi difetti. Vantando il diritto alla libertà più totale, le persone pretendono di esercitare un diritto all’aborto, all’eutanasia, all’illimitata sperimentazione genetica, alle unioni omosessuali e si comportano da artefici indipendenti del proprio essere. L’avidità consumistica, ampiamente diffusa, troppo spesso può essere soddisfatta solo mediante lo sfruttamento di persone e popoli più deboli. La ricerca parossistica del profitto, sostenuta dalla tecnologia moderna, dà origine a un abuso sfrenato delle risorse naturali e a una, almeno indiretta, oppressione di altri. Mentre il mondo occidentale continua a godere di un alto livello di vita, viene mantenuta questa prosperità a spese della povertà di una maggioranza della popolazione mondiale.

 

b. Tendenze totalitariste

118. Teologie sui rapporti chiesa/stato, nella tradizione, si basarono quasi esclusivamente su Romani 13,1-7 (cf. 1 Tim 2,1-2; Tt 3,1; 1 Pt 2,13-17), e persino governi autocratici chiedevano ubbidienza riferendosi a questo testo. Paolo non fa altro che una constatazione generale sull’autorità legittima, basandosi sulla convinzione che Dio desidera ordine, e non anarchia e caos, all’interno delle società. Anche i cristiani dipendono dalla protezione dello stato e da una ampia serie di servizi, condividono con esso molti valori e non possono sottrarsi alla loro responsabilità civile e alla partecipazione alla vita sociale.

Ma dopo un secolo in cui regimi totalitari hanno devastato continenti e trucidato milioni di persone questa concezione del rapporto con lo stato deve essere completata dal modo in cui l’Apocalisse descrive l’influsso demoniaco di uno stato che si mette al posto di Dio e pretende tutto il potere per se stesso. Un tale stato si orienta secondo valori e atteggiamenti che sono in contrasto col vangelo. Mette i suoi sudditi sotto pressione e chiede un conformismo totale, esilia coloro che si rifiutano, o li uccide. I cristiani sono chiamati ad essere “saggi”, per poter leggere i segni dei tempi e poter criticare e smascherare la vera realtà di uno stato, che diventa servo del Demoniaco, e anche di uno stile di vita lussuoso a spese di altri. Sono chiamati a mettere politica, economia, commercio nella luce del vangelo e a esaminare in questa luce i progetti concreti per il funzionamento della società. Perché i cristiani non possono uscire dal tempo in cui vivono, devono acquistare una identità propria che li rende capaci di vivere la loro fede in paziente perseveranza e testimonianza profetica. Sono anche invitati a sviluppare maniere di resistenza che li rendano capaci di opporsi e di predicare il vangelo, affrontando le potenze demoniache che agiscono attraverso le istituzioni civili (cf. Ef 6,10-20) e influiscono sul mondo odierno.

 

c.  Autosufficienza illusoria

119. Alla base delle ideologie è la volontà umana che aspira al possesso di un potere senza limiti. Questa volontà è radicata nel rifiuto di riconoscere la condizione creaturale in dipendenza da Dio e nella rivolta contro Dio, e cerca di realizzare con molta determinazione una illusoria trasformazione dell’esistenza umana, qua e adesso. In ultima analisi, non si tratta di aspirazioni economiche, politiche o scientifiche ma della volontà di disporre autonomamente di se stessi e del proprio destino e di realizzare un paradiso terrestre che porterà all’era finale di felicità universale. Questa aura di attesa escatologica può spiegare l’illusione sempre più diffusa che le persone umane da sole siano capaci di provvedere al loro ordine morale e politico, in una comunità secolare in cui Dio viene sistematicamente escluso o almeno messo al bando. Benché questa ideologia eserciti ancora un fascino intellettuale e continui ad avere influenza politica, diventa sempre più evidente che il futuro non può riservarci un illimitato progresso tecnologico, industriale, sociale e politico.

 

2.3. Terzo criterio specifico: La progressione

120. La Bibbia attesta un affinamento della coscienza riguardo a certe questioni morali. Tale progressione si verifica in Israele grazie a una lunga riflessione sull’esperienza dell’esilio e, in alcune tradizioni, sull’esperienza della diaspora e giunge a perfezione sotto l’influsso dell’insegnamento di Gesù e del suo mistero pasquale. Dopo il ritorno di Gesù al Padre lo Spirito Santo accompagna i discepoli nella ricerca per vivere il suo insegnamento in circostanze nuove (Gv 14,25-26). Il criterio della progressione invita i credenti a cercare, nell’approfondimento di ogni questione morale, la massima conformità alla «giustizia superiore» del Regno, come Gesù ne ha tracciato i contorni (Mt 5,20).

 

2.3.1.  Dati biblici

121. Come la rivelazione così anche la morale biblica ha un carattere graduale e storico: come già accade per la conoscenza di Dio in generale, così anche per la conoscenza della volontà di Dio si verifica una progressione. Esempi concreti di questo fatto Gesù li mostra nelle cosiddette antitesi del Discorso sulla montagna: esamineremo quelle che riguardano un conflitto con il prossimo (Mt 5,38-42) e la morale matrimoniale (Mt 5,31-32). Un altro esempio sono le diverse forme del culto di Dio, il cui scopo principale è quello di mantenere la comunione salvifica con Dio (cf. Gv 4,19-26).

 

a.  Lo sviluppo della morale biblica

La rivelazione biblica ha luogo nella cornice della storia e questo vale anche per la morale rivelata nella Bibbia. Dio rivela se stesso e insegna alle persone umane a camminare nelle sue vie. Egli sceglie Abramo e lo manda sul suo cammino; sceglie poi Mosè e gli dà la missione di formare una nazione dai discendenti di Abramo; sceglie e manda, in seguito, profeti e per ultimo invia “il proprio figlio” (Mt 21,37; Mc 12,6). Ogni inviato trasmette, in una certa fase della storia della salvezza, la chiamata di Dio, radunando un popolo per Dio e istruendolo su Dio e sui modi di vivere degni della sua chiamata (cf. Ef 4,1; Fil 1,27; 1 Ts 2,12).

La rivelazione di questa morale si verifica in uno sviluppo graduale e nel dialogo fra Dio e il suo popolo. Perciò l’insegnamento morale della Bibbia non può essere ridotto unicamente a una serie di principi o a un codice di leggi casistiche. I testi biblici non possono essere trattati come pagine di un sistema morale. Devono essere viste, piuttosto, in modo dinamico, alla luce crescente  della rivelazione. Dio entra nel mondo e si rivela sempre di più, si rivolge alle persone e le sfida a capire più profondamente la sua volontà e le abilita a seguirlo sempre più da vicino. Questa luce raggiunge lo zenit con la venuta di Cristo, che ha confermato l’insegnamento di Mosè e dei profeti (Mt 22,34-40) ed ha istruito il suo popolo e l’umanità intera con la propria autorità (Mt 28,19-20).

Nella luce della pienezza della rivelazione che Cristo ha portato, i cristiani possono comprendere il carattere fecondo della rivelazione precedente. Ciò che è nascosto nella dispensazione antica diventa per noi evidente nell’ultima fase della rivelazione, quando la luce del Cristo risorto illumina le intenzioni delle rivelazioni precedenti di Dio. Così noi decifriamo il messaggio morale dello Antico Testamento definitivamente nella pienezza del contesto del Nuovo Testamento. Questo processo è guidato e assistito dallo Spirito Santo, che conduce i discepoli di Gesù alla verità tutta intera (Gv 16,13).

Cominciando da Abramo che deve lasciare la sua patria (Gn 12,1) e dal popolo che deve lasciare l’Egitto e attraversare il deserto e così lungo la storia del popolo d’Israele e dell’umanità, la graduale rivelazione di Dio e della sua volontà si trasforma per gli uomini in un “viaggio”. Il significato di “camminare” trascende un movimento esclusivamente fisico e diventa simbolo di una vita di conversione che accoglie docilmente la chiamata di Dio, apprende la volontà di Dio e conforma gradualmente il proprio agire, imitando Dio, a un comportamento di fedeltà, giustizia, misericordia, amore (cf. Gn 18,19; Dt 6,1-2; Gs 22,5; Ger 7,21-23). Nel Nuovo Testamento questo simbolo viene ripreso nella chiamata di Gesù che tutti camminino dietro di lui e lo seguano (cf. Mc 1,17; 8,34). Di sé stesso Gesù dice: “Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me” (Gv 14,6). Tutti sono invitati a convertirsi e a diventare imitatori di Dio (cf. Mt 5,48; Ef 5,1) imitando Cristo (1 Ts 1,6; 1 Pt 2,21) e i suoi apostoli (1 Cor 4,16; 11,1; Fil 3,17; 2 Ts 3,7-9).

 

b.  Conflitto con il prossimo

122. In Mt 5,38-42 Gesù dice: “Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente; ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra…”. Si osserva una chiara progressione dalla vendetta esagerata all’uguaglianza del contraccambio fino al superamento della catena delle retribuzioni. In Gn 4,23-24 Lamech che appartiene alla discendenza di Caino, è presentato come uno che propaga nel suo canto di millanteria una vendetta sfrenata: “Ho ucciso un uomo per una mia scalfittura e un ragazzo per un mio livido. Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamech settantasette”. Il codice dell’alleanza stabilisce invece la legge del taglione: “Se segue una disgrazia, allora pagherai vita per vita: occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede, bruciatura per bruciatura, ferita per ferita, livido per livido” (Es 21,23-25). Questa legge si trova anche nei codici degli altri antichi popoli orientali e vuole impedire la smisurata vendetta privata. Già in molti salmi Israele proclama attraverso la voce della parte offesa che la vendetta spetta solo a Dio: “Dio delle vendette, SIGNORE, Dio delle vendette mostrati!” (94,1) Inoltre i sapienti conoscono la forza di cambiare il taglione nel suo contrario: “Se il tuo nemico ha fame, dagli pane da mangiare, se ha sete, dagli acqua da bere; perché così ammasserai carboni ardenti sul suo capo e il SIGNORE ti ricompenserà” (Prv 25, 21-22).

Gesù, da parte sua, si riferisce esplicitamente a Gn 4,23-24 per rovesciare completamente il ciclo della vendetta: “Allora Pietro gli si avvicinò e gli disse: ‘Signore, quante volte dovrò perdonare al mio fratello, se pecca contro di me? Fino a sette volte?’ E Gesù gli rispose: ‘Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette’” (Mt 18,21-22). Egli fa del perdono e dell’amore verso i nemici il criterio per l’appartenenza al Padre: “Amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli” (Mt 5,44-45; cf. 18,21). Riprendendo questo pensiero, Paolo ammonisce: “Guardatevi dal rendere male per male ad alcuno; ma cercate sempre il bene tra voi e con tutti” (1 Ts 5,15) e “Non lasciarti vincere dal male, ma vinci con il bene il male” (Rm 12,21).

Dobbiamo però evitare i malintesi. Oggi la legge del taglione viene non raramente compresa come l’espressione di una vendetta e rivincita violenta mentre, in verità, all’origine costituiva la limitazione di violenza e controviolenza; essa manifestava la tendenza a superare l’istintiva e incontrollata ricerca di vendetta e di rivincita. Questa tendenza si orienta secondo l’atteggiamento di Dio, che si presenta come “misericordioso e pietoso” (Es 34,6) e perdona la colpa del popolo. Se prendiamo i cinque libri della Torah come una grande composizione, troviamo al centro, in levitico 16, il rito del giorno dell’espiazione, il cui contenuto principale è “Dio che perdona”. A questa caratterizzazione di Dio corrisponde nel contesto la famosa richiesta: “Amerai il tuo prossimo come te stesso” (Lv 19,18), la formulazione anticotestamentaria della regola d’oro (cf. Mt 7,12). Il Nuovo Testamento continua in modo conseguente gli sviluppi presenti nell’Antico Testamento.

 

c.  La morale coniugale

123. In Mt 5,31-32 Gesù dice: “Fu pure detto: Chi ripudia la propria moglie, le dia l’atto di ripudio; ma io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie, eccetto il caso di unione illegittima, la espone all’adulterio e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio.” Troviamo un commento di questa disposizione di Gesù in una sua controversia con alcuni farisei. Basandosi sull’agire del Creatore (Gen 1,27) e sull’agire delle persone umane che ne consegue (Gen 2,24), Gesù esclude il divorzio e dice: “L’uomo non divida quello che Dio ha congiunto” (Mt 19,6). E rispondendo alla loro obiezione spiega il regolamento sul divorzio (Dt 24,1-4) come una concessione di Mosè, che non toglie la determinazione originaria di Dio Creatore: “Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli, ma da principio non fu così” (Mt 19,8).

Troviamo nell’Antico Testamento la poligamia (Lamech in Gn 4,19; Giacobbe in Gn 29,21-30; Elcana in 1 Sam 1,2; Davide in 1 Sam 25,43; Salomone in 1 Re 11,3); essa è espressione delle condizioni antropologiche e sociali dell’Antico Prossimo Oriente. C’è pure, come abbiamo visto, il regolamento del divorzio. Nondimeno, si nota nell’Antico Testamento una evoluzione verso l’ideale del matrimonio monogamico. Solo sulla base di questo alto ideale di un reciproco ed esclusivo amore e fedeltà (cf. Mal 2,14-16) i profeti potevano concepire l’alleanza del SIGNORE con Israele quale legame eterno, infrangibile fra un marito e sua moglie (Os 1-2; Is 54; Ger 3; Ez 16; cf. Ct 8,6). Gesù trae l’ultima conseguenza da questa alta visione ed esclude il divorzio (cf. anche Mc 10,11-12; Lc 16,18). Paolo si riferisce esplicitamente a questa disposizione di Gesù: “Agli sposati poi ordino, non io, ma il Signore: la moglie non si separi dal marito… e il marito non ripudi la moglie” (1 Cor 7,10-11). Si passa dalla possibilità della poligamia alla monogamia, nella quale il marito può ripudiare la moglie, e poi alla monogamia senza divorzio, nella quale i due hanno lo stesso stato giuridico: né marito né moglie possono ripudiare l’altro. Ambedue sono chiamati a impegnarsi per una duratura e amorevole convivenza e a realizzare quell’unione e comunione che il Creatore ha voluto.

 

d. Il culto divino

124. Immediatamente dopo le antitesi Gesù si occupa di elemosina, preghiera e digiuno che erano importanti espressioni del culto divino (Mt 6,1-18). Non le critica come tali, ma rimprovera un modo sbagliato di praticarle per essere notato e lodato dagli uomini, e chiede una loro pratica esclusivamente concentrata sull’unione con Dio Padre.

La giusta maniera di eseguire le diverse forme del culto di Dio è un tema importante nell’Antico Testamento. L’interpretazione anticotestamentaria delle differenti specie del culto divino (digiuno e sabato, sacrifici, leggi sul puro e impuro) manifestano una crescente sollecitudine di garantire lo scopo principale del culto: la comunione con Dio. L’accurata osservanza delle rispettive leggi non era fine a se stessa, bensì mezzo per evitare ogni cosa che potesse far perdere la forza promanante dal Dio santo. Tutte le forme del culto divino vengono portate a compimento nel sacrificio di Cristo.

 

1) Sacrifici nell’Antico Testamento

Il libro dei salmi non solo esorta Israele a venerare il suo Dio ma anche riflette sulla vera natura del culto e critica i sacrifici attuali (Sal 40,7-9; 50,7-15; 51,18-19; 69,31-32). Da questo punto di vista i salmi fanno procedere la critica profetica del sistema sacrificale (Is 1,10-17; 43,23-24; Ger 6,19-20; 7,21-23; 14,11-12; Os 6,6; 8,13; Am 5,21-27; Ml 1,10; 2,13). A causa del contesto vario in cui questo tema generale viene trattato, questi testi non sono molto omogenei, ma concordano nella loro comprensione della natura e dello scopo dei sacrifici. Dio non ne ha bisogno, ma il popolo ha bisogno di essi quali espressioni della propria lode di Dio e della lealtà all’alleanza. Israele deve sempre ricordare che cosa Dio ha stabilito quando gli ha dato la sua alleanza: non che essi devono offrire sacrifici, ma che devono mantenere la giusta conoscenza di Dio (Os 6,6), osservando la legge (Sal 40,7-9) e ubbidendo ai comandamenti di Dio (Ger 6,19-20; 7,21-23). La critica profetica del culto e dei sacrifici tocca la loro interpretazione, non la loro stessa esistenza. Essa vuol purificare la comprensione del legame singolare d’Israele con il SIGNORE e inaugurare una nuova era di culto autentico nel luogo in cui il SIGNORE fa abitare il suo nome.

 

2) Il sacrificio di Cristo

Un tratto fondamentale della lettera agli Ebrei è la distinzione tra due fasi della storia della salvezza: l’era dell’alleanza sotto Mosè e l’era della salvezza mediante Cristo.

Nella parte centrale della lettera (8,1–9,28) viene sottolineata la superiorità del sacrificio di Cristo e della nuova alleanza. L’autore critica in 8,3–9,10 il culto della antica alleanza e parla in 9,11-28 del sacrificio personale di Cristo che fonda la nuova alleanza.

Con Cristo viene superato il sistema del culto antico e si crea una situazione totalmente nuova. Il culto antico era spesso formale, esterno, convenzionale e lo era necessariamente, in quanto gli uomini erano incapaci di un culto perfetto. Cristo inaugura un culto reale, personale, esistenziale, che stabilisce una comunione autentica con Dio e con le persone attorno a noi (Eb 9,13-14). Il sangue di Cristo ha una forza molto superiore perché è il sangue di uno che: 1. offre se stesso a Dio, 2. è immacolato, 3. lo fa mediante uno spirito eterno. È chiaro il contrasto riguardo ai sacrifici antichi.

1. I sommi sacerdoti offrono animali che vengono spinti forzatamente all’immolazione. Cristo offre se stesso volontariamente alla morte. Sotto l’antico regime il valore dell’offerta viene dal sangue mentre nel sacrificio di Cristo il valore del sangue viene dall’offerta. Il sangue di Cristo è efficace perché realizza un’offerta perfetta di tutto il suo essere umano, offerta non cerimoniale ma esistenziale, descritta in 5,8 come una ubbidienza dolorosa e in 10,9-10 come un adempimento personale della volontà di Dio.

2. I sommi sacerdoti non potevano offrire se stessi, perché erano uomini peccatori e avevano bisogno di una mediazione che cercavano, secondo la legge di Mosè, nell’offerta del sangue di animali (Eb 5,3; 7,27-28). Cristo, invece, essendo immacolato, assolutamente esente da ogni complicità con il male, poteva offrire se stesso e servirsi del proprio sangue che è efficace, precisamente a causa della sua assoluta integrità personale.

3. I sommi sacerdoti erano sacerdoti secondo la legge di una prescrizione carnale (cf. 7,16; 9,10). Cristo offre se stesso animato “da uno spirito eterno” (9,14). Non basta un impulso della generosità umana per realizzare la perfetta offerta di se stesso. È necessaria una generosità che viene da Dio stesso, è necessaria la forza dell’amore che viene comunicata dallo Spirito Santo. Questo terzo aspetto è il più importante di tutti: il sangue di Cristo acquista il suo valore mediante il suo rapporto con lo Spirito Santo.

Perché il sacrificio di Cristo è perfetto, la sua efficacia è completa. L’autore la descrive così: “Il sangue di Cristo… purificherà la nostra coscienza dalle opere morte, per servire il Dio vivente” (9,14).

 

3) Il nuovo culto

La purificazione della coscienza, mediante il sacrificio di Cristo, si manifesta in una nuova condotta della vita, che si presenta come l’unico giusto culto, l’unico “servire il Dio vivente” (Eb 9,14). Solamente in Cristo siamo capaci di un culto divino che è veramente degno di questo nome. Si tratta del senso pieno di questo termine, del concetto del culto spiritualizzato. Mediante il sacrificio di Cristo i cristiani sono purificati e resi atti a realizzare opere gradite a Dio. Possono essere definiti “sacerdozio regale” (1 Pt 2,9) “sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio” (1 Pt 2,5; cf. Es 19,6). La vita cristiana deve essere un culto spirituale, un sacrificio vivo, santo, gradito a Dio (Rm 12,1; 15,16). Alludendo al suo martirio, Paolo si paragona a una libagione sul sacrificio e sull’offerta della fede della sua chiesa (Fil 2,17). Ma non solo la morte, anche la vita terrena e fisica del cristiano deve essere un sacrificio. La tradizionale offerta materiale, distinta dalla persona che la offre, viene sostituita nel cristianesimo dall’offerta personale che si identifica con la stessa esistenza di colui che offre.

 

2.3.2.  Orientamenti per l’oggi

125. Il fenomeno biblico di un progressivo riconoscimento dei compiti morali mantiene una incisiva rilevanza. Vedendo i grandi problemi dell’umanità di oggi si può avere l’impressione di assistere a una progressione inversa, a un continuo aumento dei mezzi di distruzione che minacciano la stessa esistenza dell’umanità e le risorse della sua vita. In questa situazione ci vuole un più fiducioso ascolto delle parole di Gesù e un più intenso impegno dei cristiani di vivere secondo il suo esempio e le sue istruzioni.

I risultati del nostro studio sulla progressione presentano una loro utilità. Ci siamo limitati a esemplificare tre temi. La “giustizia superiore” del Regno delinea tre assi che determinano il servizio dei fedeli in tutti i campi della vita sia vicini sia lontani: disponibilità illimitata al perdono, fedeltà incondizionata al partner scelto a vita nella buona e nella cattiva sorte, e culto di Dio spirituale, interiorizzato, che conduce a un impegno concreto per la trasformazione del mondo. Queste norme di comportamento sono fondamentali per ogni forma o campo del servizio cristiano e fanno di ogni attività umanitaria una risposta di gratitudine alla rivelazione dell’amore di Dio.

Da un punto di vista più pratico la nostra riflessione sulla progressione e l’affinamento della coscienza morale può aiutare i pastori e i diversi operatori nel campo dell’educazione alla fede a valutare bene lo stadio in cui le persone o i gruppi sono giunti nel loro cammino. Per esempio, a partire dai riflessi di vendetta, purtroppo assai profondamente innestati nella natura dell’uomo peccatore, a partire dalle idee veicolate da una società molto più permissiva che una volta in materia di divorzio o in ogni altra materia morale, o a partire da pratiche di devozione popolare belle ma talora del tutto esteriori, si possono elaborare strategie per aiutare il fratello ad avanzare passo passo sul cammino della perfezione evangelica (teleiôsis) e anche a lasciarsi interpellare, nelle loro scelte di vita, dalla radicalità dell’etica cristiana, sia sul piano sociale sia su quello individuale. Anche i casi di imperfezione morale in ambedue i Testamenti possono incitare i credenti a valutare meglio il cammino da percorrere per raggiungere la perfezione stessa dell’esempio divino.

 

2.4. Quarto criterio specifico: La dimensione comunitaria

126. La Bibbia mette in rilievo la dimensione essenzialmente comunitaria della morale. Questa dimensione ha la sua motivazione ed espressione nell’amore ed è ultimamente radicata nella stessa natura di Dio e della persona umana, creata secondo l’immagine di Dio.

 

2.4.1. Dati biblici

127. Secondo la visione biblica la persona umana non è un individuo isolato e autonomo ma è essenzialmente membro di una comunità, fa parte cioè della comunità dell’alleanza, del popolo di Dio, che nel Nuovo Testamento viene concepito anche come il corpo di Cristo (1 Cor; Ef; Col), a cui i singoli appartengono come membri, o come la vite nella quale i singoli sono inseriti come tralci (Gv 15). Da questo fondamentale quadro di rapporti segue che obiettivo della vicenda umana non è la formazione della personalità a se stante e in sé perfetta, ma la formazione del membro che vive in modo perfetto i rapporti nei quali è inserito. Ne segue pure che le norme di questa convivenza non possono essere stabilite in modo sovrano e autonomo dal singolo membro, ma costituiscono il patrimonio della comunità e devono essere custodite e sviluppate da essa. Ciò non toglie la responsabilità della coscienza del singolo per il proprio agire. Ma proprio la coscienza, per evitare un agire arbitrario, deve essere consapevole della situazione che abbiamo appena descritta e orientarsi secondo essa nelle sue azioni.

 

a. L’essenziale appartenenza a una comunità e la sua forza formativa

 

1)  In Israele

128. Mentre le tribù israelitiche sono sottoposte alle normali dinamiche e agli sviluppi storici di ogni gruppo etnico, la Bibbia si occupa in modo speciale della nascita del popolo di Dio quale comunità religiosa che risponde alla chiamata di Dio. Questa comunità possiede la competenza di istruire la coscienza e di sanzionare l’adeguato comportamento morale.

La Bibbia descrive diversi stadi di questa storia religiosa incominciando con un periodo embrionale, durante il quale la famiglia degli antenati diventa una comunità tribale che non vive più in schiavitù ma nella libertà nata dall’Esodo. La fede d’Israele viene vivacemente descritta nel testo chiave di Esodo 15, che riconosce Dio come sovrano, proclama Israele come il popolo eletto di Dio e afferma che Dio li fa abitare intorno alla sua propria dimora, il santuario. Ciò anticipa il ruolo chiave che avrà il culto e il santuario nella formazione del popolo di Dio, prima attraverso la tenda nel deserto e più tardi mediante il primo tempio a Gerusalemme con l’arca dell’alleanza in mezzo ad esso. La comunità creata intorno a questo centro costituisce l’inizio di un nuovo ordine del mondo (Es 40; 1 Re 8). Qui a Israele viene insegnata la legge, qui il popolo riceve perdono, e in questo luogo verranno anche le nazioni per imparare la Torah. Al contempo la storia biblica sottolinea la ripetuta sfiducia e infedeltà d’Israele verso Dio, specialmente durante il viaggio nel deserto (cf. Es 19-24; 32-34).

Dopo il periodo della conquista la Bibbia delinea la transizione da comunità nel deserto a stato, con l’apparizione della monarchia, e poi la divisione della comunità nel regno settentrionale e meridionale. Mentre il monarca e la corte assumono alcune delle funzioni religiose come la cura del santuario, il sacerdozio e la regolazione del culto, rimane vero che lo stesso popolo è il contraente dell’alleanza con Dio (1 Re 8,27-30). Più tardi, l’infedeltà d’Israele durante la monarchia causa un ulteriore sviluppo nel concetto della comunità religiosa d’Israele. Dio ricrea il popolo come un “resto” santo che vivrà in una Gerusalemme purificata (Is 4,2-4). Questa nuova comunità religiosa non è più ristretta alla terra d’Israele ma si estende pure a quanti vivono nell’esilio (Ger 29,1-14; Ez 37,15-28).

Cominciando da Amos, i profeti prima dell’esilio criticano fortemente il culto israelitico, contrapponendo l’inutilità del sacrificio vano all’autentica ubbidienza verso il SIGNORE, specialmente riguardo alla prassi della giustizia e della rettitudine (cf. Am 5,11-17; Os 6,6,; Is 1,11-17; Mic 6,6-8; Ger 7,1–8,3). Questa critica del culto falso o della mancanza di coerenza fra la condotta rituale e morale d’Israele rimane un elemento chiave della tradizione biblica e una componente importante della sua riflessione morale.

Dopo il colpo violento del collasso della monarchia e dopo l’esilio la potenza di Dio rinnova la comunità religiosa d’Israele un’altra volta. Gli esiliati ricostruiscono, dopo il loro ritorno, il santuario e restaurano pure la Torah quale centro normativo della vita pubblica e del comportamento personale (Ne 8-10). Israele non possiede più la sovranità nazionale e l’autonomia (eccetto per un breve periodo sotto la dinastia degli asmonei), ma la sua identità religiosa si considera fondata sulla sua ubbidienza alla Torah e sul suo culto, reso da una comunità fedele a Dio.

In tutte queste vicende e nonostante le diverse forme e situazioni della comunità religiosa il singolo israelita non appare mai come individuo isolato e autonomo, ma sempre come membro integrato nella comunità. Differente può essere il ruolo che il singolo svolge nella comunità: può essere il ruolo del patriarca, della grande guida, del re, del sacerdote, del profeta o del semplice contadino. È essenziale però, per tutti, l’appartenenza alla comunità, la sottomissione alle sue regole di vita e la partecipazione al suo culto.

 

2) Fra i cristiani

129. La prima comunità cristiana che si forma intorno alla persona di Gesù vede se stessa in continuazione con il popolo d’Israele e con le responsabilità morali inerenti all’appartenenza a una tale comunità.

Questa continuità è chiara nel ritratto che Luca presenta della comunità gerosolimitana nei primi capitoli degli Atti degli Apostoli. Lo Spirito, mandato nel nome del Cristo risorto, rende i seguaci di Gesù capaci di formare una comunità che incorpora gli ideali d’Israele, prospettati per il tempo finale (cf. specialmente i famosi sommari nei primi capitoli degli Atti: 2,42-47; 4,32-37; 5,12-16). Alcuni tratti caratterizzano questa comunità ideale: 1. Attenzione all’insegnamento degli apostoli (2,42); 2. Koinônia o vincolo profondo di fede e carità fra i membri (1,14; 2,1; 4,32); 3. Culto comune, specialmente nella celebrazione dell’eucaristia, nello spezzare del pane a casa e nella preghiera al tempio di Gerusalemme (2,42.46); 4. Condivisione dei beni cosicché nessuno sia in necessità (2,44; 4,34-37); 5. Comunione di spirito fra i membri, non di semplice amicizia ma di un vincolo più profondo di fede (per esempio 2,44; 4,32; 5,14); 6. Continuazione della missione di Gesù, di guarigione e perdono, evidenziata nelle azioni e nella testimonianza degli apostoli (cf. 2,43; 3,1-10; 4,5-12).

Importante è qui il fatto che l’appartenenza alla comunità cristiana implica un genere di impegni e qualità morali nelle quali si riflettono la missione dello stesso Gesù e i valori permanenti della tradizione biblica. Così è obbligo dei membri della comunità dare il culto dovuto a Dio, avere cura gli uni degli altri, formare una comunità di carità e amicizia, condividere i beni affinché nessuno sia in necessità, e continuare la missione di guarire e riconciliare secondo l’esempio di Gesù stesso, quando annunciava il Regno.

In modo simile, Paolo e le altre tradizioni neotestamentarie presentano il contesto essenzialmente comunitario della moralità. Secondo Paolo il singolo cristiano è immerso “in Cristo” mediante il battesimo ed è abilitato dallo Spirito a condurre una vita “degna della (sua) chiamata” (Rm 6,3; Ef 4,1). L’appartenenza a Cristo, e perciò alla comunità cristiana, rende il singolo cristiano capace di distanziarsi dalle “opere della carne” e di praticare “il frutto dello Spirito” (Gal 5,16-26). I vizi e le virtù elencate da Paolo sono in modo predominante di natura sociale. Il frutto dello Spirito come “amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé” (Gal 5,22), implica un modo di comportarsi con gli altri in cui si esprime la fede cristiana. Quando Paolo elenca i diversi doni o carismi dei quali lo Spirito colma la Chiesa, egli identifica “l’amore” quale “via più grande” (1 Cor 13,13). La descrizione eloquente di Paolo del modo come l’amore si esprime nella comunità è uno dei passi più affascinanti del Nuovo Testamento (1 Cor 13).

Lo Spirito Santo è un elemento chiave per la comprensione della comunità cristiana nel Nuovo Testamento. In Luca-Atti lo Spirito mandato dal Cristo risorto anima e incoraggia la comunità e la rende capace di portare avanti la sua missione fino ai confini della terra (At 1,8). Similmente nella teologia giovannea, lo Spirito-Paraclito incoraggia la comunità post-pasquale e la abilita a ricordare e comprendere l’insegnamento di Gesù (Gv 14,25-26; 15,26; 16,12-14). Nella teologia paolina i diversi doni dello Spirito danno dinamica e coesione alla comunità cristiana (1 Cor 12,4-11). Innanzitutto, la forza dello Spirito rende il cristiano capace di rompere il potere del peccato, di venerare Dio in modo autentico, e di condurre una vita marcata dal frutto dello Spirito.

Quando Paolo corregge i Corinzi nel loro modo sbagliato di celebrare l’eucaristia (1 Cor 11,17-34), mostra che i valori morali qui toccati – come rispetto per gli altri, senso di giustizia e compassione – non derivano in prima linea dalle convenzioni sociali, neanche dalle esigenze dell’amicizia ma dal carattere intrinseco della comunità cristiana quale incorporazione viva del messaggio di Cristo e quale comunità dotata della forza dello Spirito di Dio. Una tale comunità, e i membri che la costituiscono, sono spinti ad agire in una maniera che corrisponda alla loro vera identità e al loro fine. Gli imperativi morali di una tale comunità possono coincidere in certi punti con le norme di comportamento dedotte dalla ragione (per es. il rispetto per gli altri); ma la loro piena espressione e motivazione determinante provengono da una fonte immediata diversa, cioè dalla identità di questa comunità in quanto corpo di Cristo.

 

b.  I principali valori riguardanti i rapporti interpersonali

130. Sia per l’Antico sia per il Nuovo Testamento è essenziale l’appartenenza alla comunità. Il singolo membro viene istruito dalla comunità e dalle tradizioni autoritative di essa sui valori e le responsabilità morali. Negli scritti anticotestamentari la comunità dell’alleanza, con il suo culto e gli insegnamenti della Torah e della sua interpretazione, è la fonte primaria per il giusto modo di vivere. Le comunità del Nuovo Testamento fondano la loro consapevolezza morale sull’insegnamento e la missione di Gesù, mentre si riferiscono in modo significativo alla tradizione dell’Antico Testamento e vedono se stessi in continuità con il popolo di Dio, Israele. I valori che vengono rilevati mediante questa formazione riguardano in prima linea i rapporti interpersonali sia all’interno sia all’esterno della comunità.

 

1) All’interno della comunità

131. Innumerevoli sono i testi che si occupano dei rapporti interpersonali. Lo stesso decalogo elenca obblighi fondamentali verso gli altri. Secondo i codici legali d’Israele è richiesta attenzione verso il benessere fisico ed economico dell’altro. Non si può ferire o uccidere un altro senza sanzione, come mostra la storia di Caino e Abele (Gn 4,1-16). La legge mosaica chiede al tempo della raccolta che si lasci una porzione per il povero e il forestiero (Lv 19,9-10; Dt 24,19-22). I membri deboli della società, come la famosa triade di “vedova, orfano e forestiero”, devono essere trattati con compassione e rispetto (cf. Dt 16,11-12; 26,11-12). È giusto colui che non inganna o defrauda l’altro mediante usura o inganno (Am 2,6-8; Ez 18,10-13). La missione dello stesso Gesù, che è pieno di compassione e si impegna per guarire i malati e saziare gli affamati, corrisponde alla stessa etica fondamentale biblica. Difatti, nel vangelo di Matteo, Gesù dichiara che egli non abolisce la legge e i profeti ma li “adempie”, manifesta, cioè, l’intenzione e il fine che Dio ha dato alla Torah (Mt 5,17). I discepoli vengono incaricati da Gesù di continuare la stessa missione nella vita della Chiesa (Mt 10,7-8).

La tradizione dell’amore di Dio e dell’amore del prossimo quali richieste fondamentali della legge era una tradizione profondamente radicata nell’Antico Testamento e ripetutamente confermata da Gesù. Questa è la risposta che Gesù dà alla domanda dello scriba sul più grande comandamento nella legge: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il grande e il primo comandamento. Il secondo  poi è simile al primo: Amerai il tuo prossimo come te stesso. Da questi due comandamenti dipende tutta la Legge e i Profeti” (Mt 22,37-40; cf. Mc 12,29-31). In altri testi Gesù ribadisce gli obblighi verso gli altri. Riassume le richieste della legge nella famosa “regola d’oro”: “Tutto quanto volete che gli altri facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge e i Profeti” (Mt 7,12). Rispondendo al giovane ricco che domanda che cosa deve fare per ottenere la vita eterna, Gesù presenta un sommario del decalogo: “Non ucciderai, non commetterai adulterio, non ruberai, non testimonierai il falso, onorerai il padre e la madre, amerai il prossimo tuo come te stesso” (Mt 19,18-19).

Si può pure notare che tutti gli esempi della “più grande giustizia” menzionati nel Discorso sulla Montagna si concentrano su obblighi verso gli altri: riconciliazione con il fratello e la sorella (Mt 5,21-26), non guardare la donna dell’altro con libidine (5,27-30), fedeltà al vincolo matrimoniale (5,31-32), onestà nel parlare (5,33-37), non vendicarsi per l’ingiustizia subìta (5,38-42). E ancora, in un testo che viene considerato come il più caratteristico dell’insegnamento di Gesù, l’amore del nemico viene visto come l’ultima espressione morale che rende il seguace di Gesù “perfetto” o “completo” come il Padre celeste è perfetto (5,43-48; cf. Lc 6,36: “Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso”). Alla fine il discepolo di Gesù sarà giudicato secondo la sua fedeltà a questi comandamenti dell’amore, della misericordia, del perdono, della giustizia, che vengono illustrati dalla parabola delle pecore e dei capri (Mt 25,31-46).

Questa forte enfasi sul carattere relazionale e comunitario degli obblighi morali viene confermata dalle altre tradizioni neotestamentarie, specialmente nella letteratura giovannea. Il vangelo di Giovanni condensa le richieste etiche del discepolato nella formula: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io ho amato voi” (15,12). La morte di Gesù è l’esempio supremo di questo amore richiesto ai discepoli. La sua morte è un atto di amore supremo di colui che dà la sua vita per i propri amici (15,12-14). Questo supremo esempio di azione morale umana diventa il criterio per l’impegno del cristiano verso gli altri (15,12-17). La stessa concentrazione si ripete nelle lettere giovannee, specialmente nella prima lettera: “Poiché questo è il messaggio che avete udito da principio: che ci amiamo gli uni gli altri” (1 Gv 3,11). Il vincolo intrinseco fra l’amore di Dio e l’amore del prossimo rappresenta la nota caratteristica dell’etica biblica e dell’insegnamento di Gesù: “Questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche il suo fratello” (1 Gv 4,21). Anche in Paolo la carità costituisce il dono supremo e imperituro (1 Cor 13,13) così come in Giacomo 2,8 ed Ebrei 13,15-16 l’adorazione di Dio e l’obbligo di fare il bene sono intimamente collegati.

 

2) Verso coloro che sono ai margini della comunità

132. I testi legislativi della Torah chiedono in modo insistente la premura per il ‘ger’, il forestiero che vive con gli israeliti. Talvolta questa premura sembra puramente umanitaria (cf. Es 22,20; 23,9), ma in altri testi, specialmente nel Deuteronomio, la premura per il forestiero ha una motivazione più teologica. Israele deve ricordare la propria esperienza in Egitto e deve avere cura del forestiero nella stessa misura in cui Dio aveva cura d’Israele, quando essi erano forestieri nell’Egitto (cf. Dt 16,12). La Legge di Santità va un passo avanti quanto alla cura per il forestiero, che non è più semplicemente oggetto della legge ma “soggetto”, corresponsabile con gli israeliti indigeni per la santità e la purità della comunità. “Il forestiero dimorante fra di voi lo tratterete come colui che è nato fra di voi; tu l’amerai come te stesso perché anche voi siete stati forestieri nel paese d’Egitto. Io sono il SIGNORE vostro Dio” (Lv 19,34).

Nel Nuovo Testamento la missione di Gesù è presentata piena di preoccupazione per le “pecore perdute” della casa d’Israele (Mt 10,5; 15,24) e l’annuncio del vangelo è caratterizzato quale “buona novella per i poveri” (Mt 11,5; Lc 4,18; cf. Gc 2,2). I vangeli unanimemente descrivono Gesù come guaritore che è mosso dalla compassione per coloro che sono in necessità: “I ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il vangelo” (Mt 11,5; cf. Mt 4,24-25; Lc 4,18-19).

Queste azioni guaritrici costituiscono solo i primi passi verso la guarigione della persona intera, che in ultima analisi risulta nel perdono dei peccati (cf. il paralitico perdonato e guarito in mc 2,1-12). Gesù accoglie i peccatori e mangia con loro e chiama il pubblicano Levi ad essere suo discepolo (Mc 2,13-17), accetta l’ospitalità di Zaccheo (Lc 19,1-10). Similmente e nonostante le obiezioni del suo ospite fariseo, Gesù accetta l’amore tenero della donna peccatrice nella casa di Simone e le offre perdono e accoglienza (Lc 7,36-50). Criticato dalle proteste dei farisei e scribi per la sua comunione con i pubblicani e peccatori, Gesù illustra la sua visione della comunità che non esclude nessuno, nelle sue parabole della pecora perduta, della moneta perduta e del figlio prodigo (Lc 15). Anche ai discepoli viene insegnato a non “scandalizzare” o “disprezzare” i “piccoli” nella comunità ma a cercarli con compassione (Mt 18,6-14). La riconciliazione e il perdono devono caratterizzare la comunità formata nel nome di Gesù (Mt 5,21-26.38-48; 18,21-35).

Gesù concede il perdono non solo mediante le parole rivolte al peccatore ma anche prendendo su se stesso i peccati dell’umanità: “Egli ha preso le nostre infermità e si è fatto carico delle nostre malattie” (Mt 8,17).

Gesù considera la sua missione liberatrice e guaritrice come segno della venuta del regno di Dio che restaurerà la vita umana e la porterà alla sua pienezza (Mt 12,28; Lc 11,20). Finalmente la morte di Gesù sulla croce e la sua risurrezione dai morti rappresentano l’ultimo atto della liberazione e guarigione, in quanto sconfiggono la morte e il peccato, liberano l’umanità dal loro potere e conducono al regno perfetto di Dio.

 

3) Verso coloro che sono fuori della comunità

133. Anche i pagani vengono accolti bene da Gesù quando si avvicinano a lui e cercano la sua forza guaritrice: si pensi alla donna cananea (Mt 15,21-28) e al centurione (Lc 7,1-10). Nel suo discorso programmatico a Nazaret Gesù ricorda la missione di Elia alla vedova in Sarepta di Sidone e la guarigione del siro Naaman da parte di Eliseo, eventi in cui vengono oltrepassati i confini d’Israele (Lc 4,25-27). Nella versione matteana della storia del centurione Gesù allude a Is 43,5 e prevede “che molti verranno dall’oriente e dall’occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli” (Mt 8,11). E nella parabola del grande banchetto gli invitati che rifiutano di venire vengono sostituiti dai “poveri, storpi, ciechi e zoppi” e finalmente da quelli “per le strade e lungo le siepi”, cosicché la casa venga riempita (Lc 14,16-24).

In queste ricche tradizioni sulla missione di Gesù, mandato a guarire, a occuparsi dei poveri e degli emarginati, ad accogliere i peccatori e anche i pagani, i vangeli confermano l’orientamento comunitario della Bibbia. La domanda chiave della morale biblica è questa: quali sono le virtù, pratiche, tipi di rapporto che devono caratterizzare una comunità radunata nel nome di Dio?

 

4)  Validità per tutte le persone umane

134. La Bibbia non considera le tradizioni morali della Torah e dell’insegnamento di Gesù come un’etica “settaria”, che si può applicare solo a Israele o alla comunità cristiana (cf. Is 2,3; Am 1-2). La tradizione della Sapienza afferma che la stessa struttura della realtà creata riflette i valori della Torah e la volontà di Dio per tutti gli esseri umani (cf. Prv 8,22-36; Sap 13,1.4-5). Paolo rispecchia questa visuale, quando asserisce che anche i pagani possono conoscere Dio e la sua volontà mediante l’osservazione del mondo creato (Rm 1,18-25; cf. 2,14-15). Lo stesso vale riguardo all’insegnamento morale di Gesù, che si rivolge non solo ai discepoli ma, attraverso di loro, a tutto il mondo con la sua rivelazione della verità di Dio (cf. Mt 28,18-20). La tradizione biblica suppone quindi che le stesse responsabilità morali sono affidate a tutti gli esseri umani quali parte della creazione e immagini di Dio, benché il potere del peccato e l’alienamento da Dio possano pregiudicare la decisione morale.

 

2.4.2. Orientamenti per l’oggi

135. La comunità è un dato fondamentale della vita morale secondo la Bibbia. È fondata sull’amore che oltrepassa gli interessi individuali e tiene insieme gli esseri umani. Questo amore è ultimamente radicato nella vita  della stessa Santissima Trinità, si manifesta mediante la forza dinamica dello Spirito Santo ed è, simultaneamente, sorgente e traguardo di una comunità autenticamente cristiana.

 

a. Diverse forme di comunità

Nei diversi livelli della vita umana è presente la comunità, sempre con una propria dinamica e con specifiche esigenze morali. La famiglia è la più fondamentale comunità umana ed è decisiva per la formazione sociale e morale dell’individuo. Anche la Chiesa è una comunità: per essa è fondamentale il dono della fede, in essa si entra mediante il battesimo e suo intimo legame di coesione è l’amore cristiano. Obblighi morali derivano pure dall’appartenenza alla comunità civile sia locale sia nazionale. E, sempre di più, la società moderna è consapevole delle dimensioni globali della comunità umana e degli obblighi morali richiesti dal benessere economico, sociale e politico dell’intera famiglia delle nazioni e dei popoli. Nell’insegnamento sociale della Chiesa i papi, da più di un secolo, hanno sottolineato gli obblighi morali che derivano dall’appartenenza ai diversi livelli della vita comunitaria.

 

b. L’importanza fondamentale dell’amore

Molti valori sono rilevanti in tutte le scelte morali che concernono il cristiano di oggi, ma è l’amore, l’impegno profondo di trascendere se stesso per il bene di altri, che porta e determina tutti gli altri valori sociali secondo la prospettiva cristiana. Mentre la comunità civile è obbligata ad assicurare strutture sociali giuste che proteggano i cittadini e garantiscano le necessità della vita, la prospettiva morale cristiana è complementare e trascende le esigenze di giustizia. L’ordine giusto, creato attraverso i mezzi politici, non può soddisfare tutti gli aneliti del cuore umano. L’impegno morale della Chiesa per l’amore del prossimo, nelle diverse sfere della comunità umana, può raggiungere le più profonde aspirazioni dello spirito umano. Le tradizionali opere di carità della Chiesa, su livello individuale e istituzionale, possono ispirare l’ordine politico a riconoscere la bellezza trascendente e il destino ultimo della persona umana creata da Dio.

 

c. Necessità odierne

La dimensione comunitaria della rivelazione biblica può ricordare alle persone di buona volontà aspetti essenziali della vita morale di oggi. L’individualismo eccessivo che minaccia la stessa compagine di molte comunità, l’isolamento degli anziani e degli handicappati, la mancanza di protezione per i membri più deboli della società, la crescente disparità fra nazioni povere e ricche, il ricorso a violenza e tortura per malvagità o per prassi politica – sono situazioni che vengono profondamente contestate dalla visione biblica della persona e della comunità umane dinnanzi a Dio. L’insegnamento della Chiesa sugli obblighi dell’amore del prossimo derivano dall’insegnamento di Gesù e l’intera tradizione biblica è una sfida diretta per queste mancanze morali. Allo stesso tempo l’impegno della Chiesa, nel servizio amorevole per poveri, ammalati e deboli, serve anche come ispirazione per le comunità civili che si sforzano di costruire una società giusta.

 

2.5. Quinto criterio specifico: La finalità

136. La speranza nella vita futura con Dio, fondata sulla risurrezione di Gesù, fornisce una motivazione decisiva per cercare la volontà di Dio e per osservarla come norma del proprio agire.

 

2.5.1.  Dati biblici

L’uomo è mortale e vive nel tempo. Come tale incontra l’enigma esistenziale dell’interruzione del rapporto amicale con Dio, qualora non si superi il limite della morte. Israele ha vissuto il dramma di questa incertezza. Tuttavia la sua comprensione della creazione e dell’alleanza l’ha condotto gradualmente alla convinzione che la sovranità di Dio su cosmo e storia non poteva subire disfatta davanti alla condizione mortale dell’uomo. Il Signore non avrebbe lasciato nel potere della morte coloro che avevano posto la loro fiducia in lui. Però per lungo tempo rimase un mistero il modo con cui Dio avrebbe esercitato la sua fedeltà verso i suoi fedeli, dopo la loro dipartita da questa esistenza.

Il Nuovo Testamento vive una nuova esperienza e raggiunge la sicurezza di una rivelazione che tocca il culmine nell’evento della morte e risurrezione di Gesù e che apre una prospettiva escatologica di grande chiarezza. Indichiamo alcune linee del discorso biblico che si riferiscono alla vita futura, la presentano come motivazione di scelte morali e fondano su di essa un agire morale conseguente.

 

a. L’evoluzione della speranza nell’Antico Testamento

 

1) L’inizio di questa speranza

137. Nella misura in cui possiamo individuare le fasi più antiche della religione d’Israele, risulta che ci fu un tempo in cui la speranza della retribuzione nella vita futura non aveva uno specifico ruolo per una motivazione della moralità, perché questa speranza era ancora embrionale. Le attese più antiche sembrano essere consistite semplicemente nel ritorno al ceppo tribale, nel raggiungimento degli avi nella morte (1 Sam 28,19; 2 Sam 12,23). La ricompensa della virtù è una lunga vita (Gn 25,8) e una lunga progenie. Alla fine tutto, sia il buono sia il cattivo (Ez 32,18-31), scende allo Sheol, un luogo di tenebra, silenzio, impotenza e inattività (Sal 88,3-12), in piena antitesi con la vita, per l’impossibilità di lodarvi Dio. L’effetto negativo di questa convinzione sulla moralità raggiunge il suo climax nel libro tardivo di Qoelet, dove essa costituisce una delle ragioni indicate per vedere tutto come vanità, tutto ciò che lotta per il bene e ogni sforzo morale: “Il destino dell’essere umano e il destino dell’animale sono identici, come muore l’uno così muore l’altro” (Qo 3,19; ma si tenga anche conto della variazione di 12,7).

Molto prima di Qoelet, comunque, stava già sorgendo un’altra visione del mondo, che implicava che morte e mondo degli inferi fossero subordinati alla signoria di Dio sopra il cielo e la terra. Soprattutto i salmi portano testimonianze della convinzione che il Signore non abbandona coloro che hanno fiducia in lui e vivono secondo i suoi comandamenti, neppure dopo la loro discesa nella tomba. La comunione di Dio con i suoi fedeli non può essere interrotta dalla morte. Caratteristica dell’amore è di essere per sempre, e la lealtà di Dio unita alla sua onnipotenza era ritenuta capace di realizzare questa condizione: «Il tuo amore costante vale più della vita» (Sal 63,4). Quantunque il salmista non avesse ancora un’idea di come Dio avrebbe concretizzato questa durevole fedeltà verso i suoi devoti, molto prima che la speranza nella risurrezione incominciasse a prendere piede, era già viva nel credo d’Israele la concezione che la sua fedeltà verso i giusti non poteva essere interrotta (Sal 16,8-11; 17,15; 49,14-16; 73,24-28). Sulla scia di questo sviluppo la fiducia che la solidarietà di Dio verso coloro che vivono nell’osservanza dei suoi comandamenti non sarebbe mai stata delusa, neppure oltre la tomba, entrò nell’argomento etico.

 

2) Le prime manifestazioni della speranza in una risurrezione

Secondo alcuni esegeti, un noto passo di Giobbe riflette il problema di come la vita dopo la morte, sotto la duratura benevolenza di Dio, possa essere adattata a una esistenza incorporea, almeno se il difficilissimo passaggio di Gb 19,26 è da tradurre a questo modo: “Dopo che questa mia pelle sarà distrutta, senza la mia carne vedrò Dio”. Qualunque sia il significato di questo incerto testo ebraico, già la Settanta e, sulla sua scia, i Padri della Chiesa interpretarono i suoi contenuti come una testimonianza della fede nella risurrezione: “Perché so che è eterno colui che è in procinto di liberarmi e di sollevare dalla terra la mia pelle, che sopporta tutto ciò” (Gb LXX 19,25-26).

La persecuzione dei Maccabei offre la prima chiara connessione tra moralità e vita successiva alla morte, nella forma di resurrezione a nuova vita per i martiri e di tormento per i persecutori e i loro discendenti (2 Mac 7,9-36). Lo stesso pensiero è espresso da Dn 12,2: “Molti [che in aramaico non ha il senso di escludere qualcuno] di quelli che dormono nella polvere della terra si risveglieranno: gli uni alla vita eterna, gli altri alla vergogna e per l’infamia eterna.” Qui la risurrezione alla vita non è limitata ai martiri, ma è estesa a «tutti quelli i cui nomi si trovano scritti nel libro». È la risurrezione di tutta la persona. Non è contemplata alcuna divisione tra corpo e anima, perché nell’antropologia ebraica non è concepita tale separazione: l’essere umano non è diviso così, ma è un corpo animato.

Nel libro della Sapienza la ricompensa futura e la punizione dopo morte sono una motivazione importante in riferimento alla moralità. Sotto l’influsso della filosofia greca e più specificamente della filosofia medioplatonica, la speranza per il futuro è espressa in termini di immortalità dell’anima. Le anime dei giusti sono in pace (3,1-3), essendo state trovate degne di essere con Dio, di vivere con lui in rapporto amoroso (3,5.9). Dall’altra parte gli adulteri non hanno né speranza né conforto nel giorno del giudizio, perché la fine della razza degli operatori di male è severa (3,19). L’immortalità dell’anima è vista come immortalità personale.

In conclusione rileviamo che questi spiragli che si vanno aprendo sono già orientativi per ogni eventuale novità di situazione che possa presentarsi. Essi infatti chiariscono la natura effimera del bene presente e insegnano a riconoscere la precedenza assoluta a ogni realizzazione che torni coerente al clima di amicizia perenne che è offerta al partner umano del rapporto con Dio.

 

b. Il cammino esemplare di Gesù

138. Gesù afferma con grande risolutezza la risurrezione dei morti contro la negazione dei sadducei. La realtà trascendente del Padre, del suo amore e della sua volontà, è decisiva per il cammino e l’agire dello stesso Gesù. Egli attende dai suoi seguaci l’identico atteggiamento e viene seguito in modo esemplare dai martiri.

 

1) L’atteggiamento e l’insegnamento di Gesù

La risposta di Gesù al racconto dei sadducei (Mc 12,18-23) comincia con la domanda: “Non siete voi forse per questo in errore, dal momento che non conoscete le Scritture né la potenza di Dio?” (12,24) e finisce con l’affermazione: “Siete in grande errore” (12,27). Egli constata cioè con singolare insistenza il carattere erroneo della loro negazione della risurrezione dei morti, vedendola causata dalla loro ignoranza di Dio, dalla loro falsa concezione della potenza e fedeltà di Dio. Per Gesù Dio non può autopresentarsi: “Io sono il Dio di Abramo, il Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe” (12,26) senza trovarsi in una unione vitale con queste persone. “Non è Dio di morti ma di viventi” (12,27). La risurrezione dei morti e la vita eterna sono per Gesù non entità astratte, a sé stanti. Tutta l’attenzione di Gesù è concentrata su Dio, tutto dipende dalla giusta comprensione della potenza di Dio e del suo reale atteggiamento verso le persone umane. Non l’idea astratta di una vita eterna ma il rapporto vivo con Dio, che ha creato e destinato le persone umane per l’interminabile comunione di vita con sé, costituisce il quadro e la meta della vita umana e deve determinare l’agire umano.

Per Gesù stesso l’orizzonte del suo vivere e agire è il Padre, la sua unione vitale con il Padre. Gesù ha vissuto per il Padre, con il Padre e nel Padre; così ha preso su di sé il mistero della sua passione fino all’annientamento di sé nella morte in croce. Egli dice di sé stesso: “Mio cibo è che io faccia la volontà di colui che mi ha mandato e compia la sua opera” (Gv 4,34). Fare la volontà del Padre, eseguire la missione da lui ricevuta è il modo fondamentale in cui Gesù vive la sua unione con il Padre. La fedeltà al Padre è alla base di tutto l’agire e patire di Gesù. Tale fedeltà alla sua missione fa sì che egli non ceda a nessuna pressione umana, e lo porta finalmente alla morte in croce. Essa, ciononostante, è ‘il suo cibo’, lo fa vivere, è la fonte e la forza della sua vita. Non la vita terrena e non i beni di questa vita costituiscono per Gesù valori supremi che in ogni caso e a ogni costo devono essere perseguiti. Il valore supremo è esclusivamente l’unione con il Padre, che si vive innanzitutto facendone la volontà.

Gesù propone il proprio atteggiamento come esempio e attende dai suoi seguaci una fedele sequela sul cammino da lui tracciato. Anche per loro è decisiva la fedeltà alla volontà del Padre. Concludendo il Discorso sulla montagna e, in un certo senso, sintetizzandolo, Gesù dice: “Non chiunque mi dice Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli” (Mt 7,21). Proprio in prospettiva escatologica, parlando della condizione imprescindibile per l’ingresso nel regno dei cieli, Gesù presenta la volontà di suo Padre come norma decisiva. L’unione di vita con il Padre nel regno dei cieli è semplicemente impossibile senza aver vissuto in unione con lui nella vita terrena, facendo la sua volontà.

Gesù precisa esplicitamente che cosa deve determinare il loro agire e patire: “Dico a voi, amici miei: Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo e dopo di questo non possono più fare nulla. Vi mostrerò invece di chi dovete aver paura: temete colui che dopo aver ucciso, ha il potere di gettare nel fuoco della Geènna. Sì, ve lo dico, temete costui” (Lc 12,4-5). Si tratta di una istruzione fra amici: Gesù vuol proteggere i suoi amici, i discepoli ma anche la grande folla (cf. 12,1), contro lo sbaglio di chiudersi nella prospettiva terrena. Apre pertanto l’orizzonte e orienta a Dio e al suo potere sull’esistenza ultraterrena: Dio può escludere dall’unione di vita con sé ma anche accogliere in essa. Parlando di paura, Gesù non vuol incutere terrore e angoscia ma chiamare a una seria e profonda consapevolezza della reale e intera situazione. Tale consapevolezza che include la prospettiva escatologica, deve determinare l’agire. Fra le motivazioni dell’agire umano il male da evitare non è quello che si verifica nell’orizzonte terreno, bensì quello della fine delle cose, che si realizza se Dio pronuncia un giudizio negativo.

In un’altra istruzione, di nuovo per “la folla insieme ai suoi discepoli” (Mc 8,34), Gesù menziona direttamente la sequela sul cammino della croce: “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi sé stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà” (8,34-35). E, concludendo, dice: “Chi si vergognerà di me e delle mie parole davanti a questa generazione adultera e peccatrice, anche il Figlio dell’uomo si vergognerà di lui, quando verrà nella gloria del Padre suo con gli angeli santi” (8,38). L’unica via per salvare la vita è l’unione con Gesù e con il suo Vangelo, perché Gesù si trova in unione con il Padre, unica fonte di ogni vita. Per mantenere l’unione con Gesù può essere necessario rinunciare, con Gesù, alla vita terrena e accettare, insieme a lui, la croce. La sequela e l’unione con Gesù non possono essere parziali, ma devono essere totali. Di nuovo la prospettiva escatologica esige e giustifica questo agire. Gesù, mediante il suo cammino entra nella gloria del Padre suo, verrà e si manifesterà in questa gloria. Solo l’unione permanente con lui e la fedeltà coraggiosa a lui e alle sue parole fanno partecipare alla sua vita gloriosa con il Padre, fanno salvare la vita.

 

2) La sequela esemplare dei martiri

139. In alcuni dei più recenti libri dell’Antico Testamento (1 e 2 Mac) vengono riportati casi di martirio. Quei casi vengono riferiti e interpretati in un quadro di convinzioni in cui è maturata ormai una chiara consapevolezza della sorte futura dell’uomo. I martiri insegnano che c’è sopravvivenza in un’altra vita e che i valori in gioco nelle scelte concrete attuali sono di assoluta radicalità, tali da potere spiegare e richiedere le scelte più impegnative.

Nel Nuovo Testamento Gesù stesso è martire per antonomasia e la sua assoluta fedeltà alla missione ricevuta dal Padre, che va fino alla morte in croce, è esempio per i suoi seguaci. Ciò si manifesta in una esortazione di Paolo a Timoteo in cui lo ammonisce: “Combatti la buona battaglia della fede, cerca di raggiungere la vita eterna alla quale sei stato chiamato”; e poi gli ricorda “Gesù Cristo che ha dato la sua bella testimonianza davanti a Ponzio Pilato” (1 Tm 6,12-13). I primi cristiani che accettano la morte e versano il loro sangue per poter rimanere fedeli al loro Signore Gesù vengono chiamati ‘martiri’, cioè ‘testimoni’. Con radicalità totale attestano che l’unione con Gesù è più preziosa di qualsiasi altra cosa. Stefano, il primo cristiano ucciso a causa della sua fedeltà a Gesù, è per Paolo un tale martire (At 22,20) e il libro dell’Apocalisse parla più volte di questi testimoni di Gesù (2,13; 6,9; 17,6; 20,4).

Molteplici sono le tematiche della primitiva teologia del martirio, ispirate ai precedenti neotestamentari. Basti citare Ignazio di Antiochia, che unisce l’idea paolina dell’unione con Cristo al tema giovanneo della vita in Cristo e poi l’ideale dell’imitazione di Cristo. La passione del Signore si fa presente nella morte dei suoi testimoni.

I martiri, sacrificando la loro vita, attestano criteri essenziali dell’agire: il primato assoluto di Dio e il conseguente diritto che la fedeltà a lui ha di richiedere l’eroismo o la rinuncia a ogni altro valore; il rapporto fra un presente effimero e un futuro che vede ristabilito il bene di una salvezza che supera tutte le dimensioni terrene; la conformazione a Cristo, ‘martire’ di Dio, e l’imitazione del suo esempio.

 

c. La prospettiva escatologica negli scritti paolini

140. Come in tutti gli altri scritti del Nuovo Testamento così anche nell’annuncio di Paolo la prospettiva escatologica è fondamentale e onnipresente, anche quando non viene esplicitamente menzionata. Per Paolo Dio Padre è colui che ha risuscitato Gesù dai morti (cf. Gal 1,1; Rm 10,9 ecc.). L’orizzonte della nostra esistenza non è più limitato alla vita terrena mortale, perché la vita in comunione eterna con il Signore risorto apre un orizzonte illimitato, cambia le circostanze e i parametri della vita terrena e diventa regola determinante nel gestire la nostra esistenza attuale. Sono tipici alcuni testi paolini che parlano della risurrezione e del giudizio e ne traggono conseguenze per l’agire morale.

 

1) La risurrezione

Nel lungo capitolo di 1 Cor 15,1-58 Paolo presenta in stretta connessione la risurrezione di Gesù, la risurrezione dei cristiani e la valutazione e gestione della vita attuale. Alla fine del capitolo formula in modo sintetico la conseguenza: “Perciò, fratelli miei carissimi, rimanete saldi e irremovibili, progredendo sempre più nell’opera del Signore, sapendo che la vostra fatica non è vana nel Signore.” (15,58) È faticosa (cf. anche 15,30-31) ‘l’opera del Signore’, cioè l’agire fedele secondo l’esempio di Gesù; ma questa fatica non è vana, perché conduce alla risurrezione, alla vita beata con il Signore risorto.

Le conseguenze della risurrezione di Gesù si descrivono anche in Col 3,1-11 ove tra l’altro si dice: “Se dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio; rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra. ... Mortificate dunque ciò che appartiene alla terra ...”. Il discorso ha una sua delicatezza, per i vari piani che vi si intersecano: Cristo è risorto; alla sua glorificazione partecipiamo tutti noi; ciò accade in una modalità non completa, meno ancora automatica; è richiesta una partecipazione intenzionale dell’interlocutore umano; questi deve discernere tra quanto ha origine dalla terra o è ispirato alla carne e quanto appartiene all’ordine nel quale si trova Cristo. Perché Cristo ci ha preceduti nella condizione escatologica, il mondo dei valori terreni non scompare, ma assume le sue reali proporzioni, ridimensionandosi, e si relativizza.

 

2) Il giudizio

141. Di volta in volta Paolo si riferisce al giudizio che ci aspetta. Ciò che abbiamo operato nella nostra vita sarà oggettivamente valutato dal Signore e riceverà da lui una adeguata ricompensa. Tale fatto deve spingerci a vivere in maniera responsabile per poter aspettare con fiducia la valutazione del Signore.

In Rm 14,10-12 Paolo afferma: “Tutti infatti ci presenteremo al tribunale di Dio. ... Quindi ciascuno di noi renderà conto di sé stesso a Dio.” È messo così in rilievo l’aspetto della responsabilità. Certo se la vita finisse in un nulla, sarebbe uguale per tutti e renderebbe indifferente il modo in cui abbiamo gestito la nostra vita terrena. Ma la nostra vita è orientata verso un rendiconto per il quale è rilevante e decisivo il nostro attuale modo di vivere.

Gli uomini hanno un loro modo di giudicare persone ed eventi, ma Paolo dice: “Il mio giudice è il Signore ... Egli metterà in luce i segreti delle tenebre e manifesterà le intenzioni dei cuori; allora ciascuno riceverà da Dio la lode” (1 Cor 4,4-5). La valutazione del Signore è l’unica adeguata e valida, perché solo lui conosce tutte le sfumature delle azioni umane.

L’esito del giudizio sarà conseguente all’operato di ogni uomo durante la sua vita e si diversificherà di volta in volta: “Tutti infatti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, per ricevere ciascuno la ricompensa delle opere compiute quando era nel corpo, sia in bene sia in male” (2 Cor 5,10).

Il modo concreto della retribuzione per quelli che eventualmente saranno condannati è espresso in modo molto generico ("ira e sdegno”,  “tribolazione e angoscia": Rm 2,8-9) oppure in modo negativo ("non erediteranno il regno di Dio": 1 Cor 6,10; Gal 5,21). Il destino di quelli che saranno salvati sarà sempre una ‘grazia’, mai un semplice merito: consisterà nella "vita eterna in Cristo Gesù nostro Signore” (Rm 6,23).

 

d.  La prospettiva escatologica nell’Apocalisse

142. Nel quadro generale dell’escatologia propria dell’Apocalisse, la venuta di Cristo acquista un rilievo caratteristico. Non è vista come un ritorno istantaneo, conclusivo e spettacolare - magari attuato mediante una discesa dal cielo - ma come una presenza che, creduta e percepita come attuale, attraversa in crescendo tutto lo spessore della storia, sviluppandosi fino a una sua pienezza. In questo quadro l’Apocalisse, sulla linea di una continuità con l’escatologia realizzata del  Vangelo di Giovanni, sottolinea la presenza attuale di Cristo risorto in mezzo alla sua chiesa e nel mondo. Tale presenza, veicolata dall’azione dello Spirito (cf. Gv 14,16-18), dà luogo - potremmo dire - a una nuova fase dell’incarnazione nella quale il “Crocifisso Risorto” fa pressione prima direttamente sulla Chiesa e poi anche attraverso l’azione multipla della Chiesa stessa sul resto del mondo, tendendo progressivamente a improntare tutti e tutto dei suoi valori e della sua vitalità. L’esito finale di questa azione, per cui Cristo si sta come ramificando nella storia, sarà da una parte la disattivazione e la distruzione di tutte le concretizzazioni storiche del male attuate dal Demoniaco e, dall’altra, la situazione di convivenza e condivisione a un livello altissimo di amore tra Cristo, Dio, lo Spirito e la Chiesa, come si realizzerà nella Gerusalemme nuova.

 

1) La venuta di Cristo nella Chiesa

143. Un primo aspetto  si riferisce alla Chiesa vista dal di dentro ed è messo in risalto nella prima parte dell’Apocalisse (Ap 1,4-3,22): c’è una venuta di Cristo che la riguarda e la coinvolge proprio come Chiesa, sempre intesa nella dialettica rilevata più sopra tra Chiesa locale e Chiesa universale. I testi che la esplicitano (Ap 2,5.16; 3,11), come pure il contesto generale (Ap 2-3) in cui sono inseriti, mostrano che questa venuta si risolve in una presenza crescente e sempre più coinvolgente di Cristo nell’ambito della sua Chiesa.

Le implicazioni morali di questa venuta-presenza di Cristo comportano anzitutto da parte della Chiesa un atteggiamento confermato e rinnovato di fede e di disponibilità, che le permette di accogliere l’azione di Cristo che la riguarda. Più specificamente vengono poi richieste alla Chiesa le scelte morali contenute negli imperativi che le sono rivolti: “Convertiti!” (Ap 2,5.16; 3,1.19), “non temere per niente ciò che dovrai soffrire!” (Ap 2,10), “quello che avete mantenetelo con forza fino a quando giungerò!” (Ap 2,25), “ricorda dunque come hai ricevuto e ascoltasti e mantieni e convertiti!” (Ap 3,3), “abbi un amore da gelosia!” (Ap 3,19).

Soprattutto alla Chiesa viene inculcata l’esigenza imprescindibile dell’ascolto dello Spirito che, nella seconda parte dell’Apocalisse, la guiderà a fare le scelte morali appropriate per cooperare alla venuta di Cristo che si realizza nella storia.

 

2) La presenza-venuta di Cristo nella storia

144. Nella seconda parte dell’Apocalisse si ha uno spostamento significativo dell’azione di Cristo risorto dall’ambito interno della chiesa al mondo degli uomini che ne stanno ancora al di fuori.

Tale mondo subisce la pressione del Demoniaco che tende a modellarlo secondo un tipo di vita opposto a quello voluto e progettato da Dio, un anti-regno, addirittura una specie di anti-creazione. L’Apocalisse precisa alcuni dettagli di questa spinta demoniaca: essa non agisce direttamente ma si insinua, mediante l’inganno, nelle strutture umane esistenti e agisce per mezzo loro. Ma in opposizione al sistema terrestre si trova il sistema di Cristo. Esso è costituito anzitutto da Cristo stesso espresso nella figura dell’agnello (Ap 5, 6), che caratterizza tutta la seconda parte dell’Apocalisse. Tutta questa attività, propria di Cristo-agnello, l’Apocalisse la interpreta come una  venuta. E’ la venuta di Cristo nella storia, in parallelo con la sua venuta nella Chiesa.

I risvolti morali applicativi della venuta intra-storica di Cristo che si sta realizzando sono molteplici, ma si basano tutti sul fatto che i cristiani – come abbiamo visto più sopra - mediano, in qualità di “sacerdoti di Dio e di Cristo” (Ap 20,6) tra la pressione da parte di Cristo a penetrare nei dettagli della storia e la sua realizzazione. Dovranno, i cristiani, avere l’audacia di dare alla luce il loro Cristo (cf. Ap 12,1-6) impiantando nella storia i suoi valori, fino alla pienezza escatologica che segnerà la conclusione della  sua venuta.

 

3) La venuta nella sua pienezza escatologica

145. La venuta all’interno della Chiesa, come abbiamo notato, è tutta segnata dall’amore di Cristo, in una reciprocità, che, richiedendo un ricambio sulla stessa lunghezza d’onda, si colloca nello schema umano del fidanzamento. La Chiesa è adesso la fidanzata che si prepara a diventare la sposa e lo fa cooperando attivamente alla venuta di Cristo nella storia. Quando poi questa venuta si sarà realizzata, saranno giunte anche “le nozze dell’agnello” (Ap 19,7). La Chiesa, sposa oramai e non più fidanzata, sarà in grado di amare Cristo con amore paritetico, corrispondente a quello di Cristo e Cristo darà alla sua sposa la ricchezza infinita di cui è portatore (cf. Ap 21,9-22,5).

Uno sviluppo progressivo si ritrova anche nella venuta di Cristo nella storia. Essa comporta - alla sua conclusione - una disattivazione di tutte le forze del male, protagoniste attive dell’anti-creazione. Scompaiono, così, dalla scena della storia i “re della terra” (cf. Ap 19,17-19), la  prima e la seconda bestia ( Ap 19,20), “il diavolo che li inganna” (20,10), radice di tutto il male dell’anti-creazione (cf. Ap 21,10). Alla fine crolla Babilonia, espressione e simbolo dell’anti-regno, dell’anti-creazione realizzata (cf. Ap 18,2). Al mondo di prima succede un mondo tutto pervaso dalla novità di Cristo (cf. Ap 21,1).

L’autore dell’Apocalisse prospetta questi risultati escatologici a una Chiesa ancora in cammino. Guardando in avanti verso l’approdo escatologico, la Chiesa, che avverte adesso la gioia tormentosa di un amore in crescendo, sa che, un giorno, riuscirà ad amare Cristo come Cristo ama lei. Impegnata com’è nel superamento del male e nel potenziamento del bene accanto a Cristo che sta venendo, sa, guardando al futuro escatologico, che il male opprimente dell’anti-creazione finirà, anche per opera sua. Parimenti tutto il bene derivante dalla novità di Cristo, che sarà stato immesso nella storia grazie anche al suo contributo, raggiungerà nella Gerusalemme nuova il massimo del suo sviluppo. La Chiesa si sente davvero la fidanzata che si sta confezionando l’abito da sposa.

 

4) Conclusione

146. Tutte le componenti di questa complessa economia dell’attesa e della preparazione danno origine, nella Chiesa, a una spinta verso un meglio, verso un di più che si esprime in un’invocazione accorata: “Lo Spirito e la fidanzata dicono: ‘Vieni!’” (22,17). A questa invocazione Cristo stesso dà ripetutamente una risposta che rassicura: “Ecco: sto venendo presto” (Ap 22,7). “Sì, sto venendo presto” (Ap 22,20a). Promette, con questo, come imminente una fase della sua venuta, non la conclusione escatologica, e fa pressione sulla Chiesa perché vi presti attenzione (“ecco”, letteralmente “vedi”). Ci sarà presto, e la Chiesa lo vedrà, quel “di più” di Cristo - nell’ambito intra-ecclesiale e nel resto del mondo - a cui la Chiesa aspira. Costituirà una tappa verso la realizzazione della nuzialità e della Gerusalemme nuova.

 

2.5.2. Orientamenti per l’oggi

 

a. L’uomo di fronte al presente

147. La vita umana si rapporta primariamente al presente. Il presente è bello, ombra fugace dell’eterno presente di Dio, ha la sicurezza del possesso, si qualifica con lo spessore del concreto. Il presente è apprezzato anche perché è l’unico momento nel quale si esercita la responsabilità e l’impegno umano.

Eppure il presente si connota per limiti vistosi, dovuti alle sue insicurezze e imperfezioni da un lato e alla sua condizione effimera dall’altro lato. Il presente è insufficiente a se stesso, come dimostrano tutti i sistemi di pensiero chiusi in una visione di autonomia illusoria e come dimostra l’esperienza fatta dalla nostra epoca – non per la prima volta nella storia – con il crollo delle ideologie.

L’illusione posta nel presente e la delusione che ne consegue costantemente può provocare la fuga nel consumismo, sempre più raffinato ed esasperato, che manca però di prospettiva e diventa fonte di nuova delusione. Né si può sperare di superarlo, finché si rimane nel quadro di pensiero immanente del secolarismo.

La speranza porta equilibro allo scompenso del presente, perché è apertura motivata verso un futuro che ha la sua fondazione nella fermezza eterna di Dio. Eb 13,14 dichiara in modo perentorio: “Non abbiamo quaggiù una città stabile, ma andiamo in cerca di quella futura.” Nulla è tanto efficace nell’impostazione di un orientamento d’azione e di vita quanto la consapevolezza della dimensione effimera nella quale si muove ciò che si desidera e si opera al presente: si crea necessariamente una gerarchia dei valori nella quale riferimento ultimo viene fatto a un altro, non solo a se stessi, a un futuro e non solo al presente. L’Altro è il Signore risorto, che è andato a prepararci un posto (Gv 14,2) e che pure resta interlocutore nascosto d’un quotidiano che sperimenta tutte le difficoltà e le gioie della fede e della speranza. La fede impone il superamento dell’immediato. La speranza porta un anticipo del futuro, in dialogo continuo d’amore con Colui che è passato, presente e futuro.

 

b. Chiamata all’eroismo

148. Da questo interlocutore dolce, che riempie e illumina il futuro del credente, vengono poste richieste e nutrite attese radicali. Esse hanno la pretesa di essere l’ultimo valore e di richiedere il sacrificio di ogni altro. Nasce qui l’appello all’eroismo della testimonianza nel sacrificio. Il nostro tempo conosce molti esempi di martirio, di rinuncia, motivata dall’amore, a un presente che può essere sacrificato in vista di un futuro più grande.

È stato obiettato alla religione – e in particolare al cristianesimo – di esercitare sul presente l’influsso nefasto che tarpa le ali all’impegno per la trasformazione del sistema inaccettabile di oppressione, riassunto nell’espressione “oppio del popolo”. Il discepolo del Signore risorto sa che ciò non corrisponde a verità, perché l’appartenenza al Regno impone l’obbligo dell’impegno per un ordine sempre più vicino a quello per il quale il suo Redentore è morto e ogni giorno continua a operare fino alla sua manifestazione totale. Proprio perché Gesù risorto ha anticipato e prepara questo futuro, ha senso la subordinazione di tutti i valori intermedi e il massimo impegno di testimonianza. Nel quadro di questo impegno si constata felicemente l’armonia che corre fra gli obiettivi intermedi autentici e la meta finale. Gesù si è impegnato a combattere la malattia e la fame proprio in ordine a quella liberazione finale da ogni male che sarà raggiunta al momento della perfetta unione con lui.

In questo senso la speranza cristiana non è semplicemente orientata al futuro, ma ha dirette conseguenze morali per la vita presente. Questa è l’implicazione morale di quanto  può essere chiamato “escatologia realizzata”, che significa che il cristiano è obbligato a vivere ora in vista del futuro che la fede nella risurrezione anticipa e desidera pienamente. La fede cristiana nella risurrezione corporea  e nella trasformazione finale del mondo creato può anche dare una motivazione morale e spirituale profonda nei riguardi dell’ecologia e del rispetto per la vita umana (cf. Rm 8,18-21).

 

c. Dalla prospettiva escatologica a una concretizzazione sempre nuova

149. Il quadro delle finalità nella prospettiva rivelata è suggeritore di validi orientamenti per le novità offerte da un quotidiano in continuo movimento. La discussione che sorge per le nuove decisioni si muove sempre sul piano dei principi, che si appellano ai valori dell’autonomia della decisione umana, dei diritti della scienza, della insindacabilità della coscienza e anche, in ultima analisi, della preferenza da dare al più forte.

Il criterio della tensione escatologica concorre a correggere questi atteggiamenti. L’orizzonte dell’uomo non è delimitato dalla sua personalità bensì dal dialogo con una personalità ben più grande e affidabile; non è esaurito nei confronti del presente, bensì lo travalica per inverarsi in un futuro che, solo, sarà “finale”. Le sue decisioni sono dunque valide solo se prese in dialogo con il suo Creatore e Salvatore e solo se si finalizzano a una realizzazione che sia valida non solo per il presente ma pure per il futuro senza termine.

 

2.6. Sesto criterio specifico: Il discernimento

150. Tutti convengono che non si possono mettere sullo stesso piano tutte le regole morali enunciate dalla Bibbia né si può riconoscere uguale valore a tutti gli esempi di moralità che essa presenta.

Qui, per scopi sia pedagogici sia teorici, ci è parso utile sviluppare l’esposizione attorno a una nozione chiave in teologia morale: la prudenza. Essa implica, sul piano dell’intelligenza, che si possieda il senso delle proporzioni e, sul piano della decisione pratica, che si prendano delle precauzioni. Da una parte infatti è necessario distinguere le consegne fondamentali, che hanno valore obbligatorio universale, dai semplici consigli o ancora dai precetti legati a una tappa dell’evoluzione spirituale. D’altra parte la prudenza esige che in anticipo si pesino i propri atti, che si rifletta sulla loro portata, sulle loro conseguenze, in modo da individuare i danni che essi comportano ed evitare, nell’applicazione dei principi, gli errori e addirittura i rischi inutili.

In materia di morale la Sacra Scrittura fornisce i gavitelli essenziali di un sano discernimento. Questo si effettua su tre piani: letterario, spirituale comunitario e spirituale personale.

 

2.6.1. Dati biblici

 

a. Discernimento letterario

151. Un giudizio morale corretto e sfumato che si ispiri alla Scrittura suppone necessariamente una lettura critica dei testi, che tiene conto, prima e anzitutto, della dimensione canonica (cf. Pontificia Commissione Biblica, L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, I C).

 

1) Contesto letterario

Per principio è imprudente riferirsi a una norma legislativa o a un racconto esemplare della Bibbia facendo astrazione dal suo contesto letterario. Si deve badare anche ai generi e alle forme letterarie (imperativi, casistica, cataloghi, codici, parenesi, sapienziali ecc.) che spesso indicano il peso di un discorso etico.

L’autorità particolare di certi testi, in materia morale, risulta precisamente dalla loro posizione letteraria. Abbiamo già verificato questo criterio di discernimento per il Decalogo e il Discorso della montagna, specialmente per le beatitudini, che sono fondamento rispettivamente della prima Legge e della nuova Legge: la precedenza esprime l’autorità massimale dell’uno e dell’altro testo.

Più ancora, il posto che occupano nel canone della Scrittura rafforza la struttura teologica di base «dono-legge» che abbiamo spiegato in lungo e in largo nella prima parte. Racconti di salvezza ben elaborati precedono il Decalogo sia nel libro del Esodo sia in quello del Deuteronomio; lo stesso si verifica prima del Discorso della montagna.

 

2) Fondamento teologico

Per fondare una decisione morale oggi fra le norme decretate dalla Bibbia si accorderà una particolare attenzione a quelle che sono fornite d’un fondamento o d’una giustificazione teologica. Si giunge così a distinguere meglio ciò che riflette la cultura di un’epoca e ciò che ha valore transculturale.

Per esempio, nella prima parte del codice dell’alleanza (Es 21,1-22,19), le prescrizioni non comportano alcun fondamento teologico; esse corrispondono verosimilmente alla messa in scritto di un diritto locale usuale, che riflette la giustizia esercitata alla porta delle città, mirante a regolare i rapporti sociali. Nella loro formulazione e nel loro contenuto queste leggi casistiche talora sono molto vicine a prescrizioni raccolte nei diversi codici del Vicino Oriente antico: in particolare le leggi che riguardano la liberazione periodica degli schiavi (Es 21,2-11). Al contrario, nella sezione apodittica del codice dell’alleanza (Es 22,20-23,9) come nel codice deuteronomico, la legge è spesso dotata d’un fondamento teologico: per esempio la vicinanza del SIGNORE con le categorie sociali più povere (Es 22,20-26), o ancora il riferimento esplicito alla storia delle origini d’Israele (Dt 15,12-15; 16,10-12).

Questo rapporto di continuità e discontinuità tra la riflessione morale delle comunità credenti e quella della società circostante si ritrova ugualmente nel Nuovo Testamento. Così le “tavole dei doveri domestici” di Ef 5,21-6,9 e Col 3,18-4,1, anche se non hanno paralleli letterari stretti nella letteratura greca, sono segnati dalla cultura e dalla sapienza del loro tempo. La fede in Cristo dà un significato specifico alle relazioni sociali tra padroni e schiavi e alle relazioni familiari tra genitori e figli, tra mariti e mogli, pur assumendo la cultura nella quale esse prendono origine. Per chiarire l’etica familiare e sociale d’oggi si darà dunque la preferenza alle motivazioni teologiche: prendere Cristo come modello (Ef 5,23.25-27.29), ispirarsi alla pedagogia di Dio (6,4), fare la sua “volontà” (6,6), imitare il “Signore nei cieli”, che “non fa accezione di persone” (6,9), ricercare “ciò che è bello nel Signore” (Col 3,20), coltivare il “timore del Signore” (3,22) – da comprendere nel senso d’un profondo rispetto religioso -, agire in tutto “per il Signore” (3,23), nella prospettiva della “ricompensa” finale (Ef 6,7-8; Col 3,20-4,1). Quanto ai modelli sociologici in vigore allora, in buona e sana esegesi, è chiaro che non li si deve potenziare indebitamente in modo da accordare loro un valore perenne. La ricerca di modelli più adeguati al nostro tempo, in caso di  mancanza, si porterà piuttosto su un altro aspetto essenziale di discernimento: il discernimento spirituale, soprattutto comunitario.

 

3) Retroterra culturale

Anche con difetto di fondamento o giustificazione teologica, si giunge benissimo a determinare se una norma biblica è o no applicabile tal quale alla situazione odierna. L’esegesi vi concorre analizzando il retroterra culturale. Prendiamo due esempi di proibizioni alimentari. Anzitutto, “non cuocere un capretto nel latte di sua madre” (Es 23,19; 34,26; Dt 14,21). Quest’uso cananeo, attestato a Ugarit, è passato attraverso tre tradizioni bibliche che sono ritenute generalmente differenti e ha dato luogo nel giudaismo a regole alimentari complesse che la Chiesa rispetta ma non ha mai sentito il bisogno di assumere, perché dal punto di vista dell’esegesi cristiana esse risentono di una cultura particolare.

L’altro esempio è più delicato: «Non mangiare del sangue». Anche in questo caso, la proibizione si trova in più di una tradizione anticotestamentaria (Lv 3,17; 7,26; Dt 12,23-24); e il Nuovo Testamento l’assume senza reticenza, al punto da imporla ai cristiani venuti dal paganesimo (At 15,29; 21,25). Dal punto di vista dell’esegesi, la giustificazione esplicita della proibizione non è propriamente teologica, ma risente piuttosto di una rappresentazione simbolica: “la vita (nepheš) di ogni carne è nel sangue” (Lv 17,11.14; Dt 12,23). Dopo l’età apostolica la Chiesa non si è più sentita obbligata, su questa sola base, a emettere regole precise per il macello e la cucina, e meno ancora nei nostri tempi, per proibire le trasfusioni di sangue. Il  valore transculturale soggiacente alle due proibizioni, il solo che può e deve ispirare tutta l’etica, è il rispetto dovuto a ogni creatura vivente. E il valore transculturale soggiacente alla decisione particolare della Chiesa, in Atti 15, è la preoccupazione di favorire l’integrazione armoniosa dei gruppi diversi, anche a prezzo di compromessi provvisori.

 

4) Continuità

La continuità con cui un tema morale appare in testi biblici diversi, tanto dal punto di vista delle tradizioni letterarie, degli autori e della datazione quanto dei generi letterari, conduce a considerare questo tema come strutturante ed essenziale per l’interpretazione morale dell’intero corpus biblico. Per esempio, l’attenzione privilegiata da accordare ai poveri risponde a questo criterio di continuità. Si trova questo tema da un capo all’altro della Scrittura. Basti portare un argomento a fortiori: Ben Sira, pur essendo ghiotto della buona carne, del vino e dei viaggi, ne fa come un leitmotiv del suo scritto di sapienza.

 

5) Affinamento della coscienza

In fine, nel discernimento morale importa tenere conto dell’affinamento progressivo della coscienza morale, in particolare nella lettura globale dei due Testamenti. Non c’è bisogno di specificare su questo punto. Molteplici esempi sono stati apportati e commentati, quando abbiamo esposto il terzo criterio specifico: la progressione.

 

b. Discernimento comunitario

152. Con tutta evidenza, il processo del discernimento non saprebbe limitarsi al cammino esegetico, anche se volesse usare le diverse risorse congiunte dei diversi metodi oggi in voga. A riguardo della Scrittura la comunità è un luogo essenziale di discernimento.

 

1) Antico Testamento

A modo suo, l’Antico Testamento lo mostra fin dal momento in cui evoca la necessità di una evoluzione delle regole della vita comunitaria d’Israele, in funzione di situazioni storiche o sociali nuove. Prendiamo un esempio, che non è banale, se si pensa alla rivalutazione dei diritti femminili nel nostro tempo. Il libro dei Numeri pone in maniera inedita la questione dell’eredità della discendenza femminile da una tribù o da un clan (Nm 27,1-11; 36,1-12). Mosè è presentato come il mediatore abilitato ad esporre al Signore le domande della comunità e a comunicare al popolo la risposta legislativa che ne deriva. Il testo alterna dunque l’espressione dei bisogni del popolo, l’intervento di mediatori qualificati (Mosè, Eleazaro) e l’autorità sovrana del Signore.

 

2) Nuovo Testamento

Accade che nelle scelte da fare, con riferimento alla legge o all’uso, si resti impigliati sui dettagli. Dettagli ai quali si dà importanza, o anche che momentaneamente hanno realmente importanza. Come operare la distinzione tra l’essenziale, non negoziabile, e l’accessorio, negoziabile? Il Nuovo Testamento, in materia di discernimento ecclesiale, ci ha lasciato un documento toccante: At 15,1-35. La problematica era nuova. Alcuni, nella comunità, volevano obbligare i pagani che facevano l’opzione del cristianesimo, a fare contemporaneamente l’opzione del giudaismo al completo, compresa la circoncisione, debitamente prescritta dalla Torah (Gn 17,10-14), anche per gli stranieri risiedenti nel paese (Es 12,48-49). Sul piano morale questo poneva il problema dell’ubbidienza a una volontà espressa da Dio. Il racconto degli Atti individua le componenti essenziali di un discernimento prudente: un cammino comunitario, la ricerca di una soluzione e la decisione.

a) “Gli apostoli e gli anziani si riunirono per esaminare questo problema” (At 15,6). Oggi si esprime questo tipo di procedimento in termini di corresponsabilità, di sinodalità.

b) Per trovare una soluzione adatta, i responsabili cercano di distinguere l’urgente (i valori di fondo da salvaguardare) e il possibile (la possibilità di assorbimento di ognuna delle parti in causa). Intervengono quattro personaggi. Pietro dà l’orientamento di fondo (non imporre fardelli inutili), invocando tre motivi teologici: Dio non fa distinzione tra le persone; lo Spirito Santo ha suscitato i medesimi segni presso  i pagani come presso gli ebrei; e, soprattutto, la fede è pura gratuità di Dio (15,7-11). Paolo e Barnaba fanno parlare l’esperienza, il linguaggio del vissuto (15,12). Alla fine Giacomo, il saggio, propone un compromesso: non dei sovrappesi; ma, almeno, evitare gli scandali e tenere conto gli uni degli altri (15,13-21). Compromesso temporaneo, su un punto o sull’altro, in modo da risolvere la crisi qui e ora. Poco dopo Paolo stesso circonciderà Timoteo… per paura dei giudei (At 16,1-13). Quanto alle proibizioni morali, quelle relative agli idolotiti e alle carni poco o niente dissanguate (15,20) non sono sopravvissute a lungo nella Chiesa, come informa la storia successiva. La posta di questa decisione prudenziale allora era precisa e circostanziale: l’unità da ricostituire nella comunità. Quanto al valore transculturale soggiacente, lo si può esprimere così: l’apertura alla differenza, a un certo pluralismo sociologico, che era preparata già dal tema veterotestamentario della circoncisone del cuore (Dt 10,16; Ger 4,4; cf. Rm 2,25-29).

c) In fine, si comunica il risultato del discernimento con una lettera collettiva (15,23-29). Quattro elementi attirano più particolarmente l’attenzione. Anzitutto l’effetto dividente delle decisioni prese senza mandato, al di fuori della comunione della Chiesa (15,24). Poi la dichiarazione: “Lo Spirito Santo e noi abbiamo deciso…”, segno evidente di un discernimento propriamente spirituale, effettuato nella deliberazione e nella preghiera (15,28). Notiamo anche, per la scelta dei delegati, l’apertura a una consultazione più larga, che coinvolge “l’intera Chiesa” (15,22). E l’appello, non all’ubbidienza cieca, ma alla coscienza morale delle comunità destinatarie del messaggio (15,29b).

 

c. Discernimento personale

153. Nel paragrafo precedente abbiamo trattato di un discernimento che si appoggia, per così dire, su una “coscienza collettiva” illuminata dallo Spirito Santo. Come tale, il termine “coscienza collettiva”, reso popolare soprattutto a partire da Émile Durkheim, appartiene al registro terminologico moderno. Nella Bibbia, la parola syneidêsis si applica strettamente al campo della coscienza personale, il più sovente in riferimento al giudizio morale. Una volta, “coscienza” morale e “pensiero” sono messi in parallelo; e due volte “coscienza” e “cuore” (kardia): quest’ultimo nella Bibbia ebraica (lêbâb) è sede e simbolo della riflessione, dell’opzione fondamentale, della decisione morale. Si parla di coscienza buona, cattiva, pura o purificata, bella, irreprensibile, debole o falsa. Per il discernimento, la coscienza personale, illuminata dallo Spirito Santo, è un terzo luogo, importante fra tutti.

1) Paolo dà un esempio di discernimento su un problema che, al suo tempo, risultava spinoso: i cristiani potevano, senza turbamento di coscienza, consumare carni consacrate nel quadro del culto idolatrico e poi vendute sul mercato (1 Co 8,1-11,1)? L’apostolo, con una dialettica abile e poggiante sulla sua autorità, confronta due ordini di argomenti. In favore del sì allega un fondamento teologico: “un idolo non è niente”, dunque mangiare la carne in questione non ha, in sé, alcuna qualifica morale (8,4.8; 10,19.23.30). Inoltre afferma un diritto inalienabile, la sovrana libertà del credente (9,1.4.19). Ma a questa argomentazione si oppone un principio morale che parte dalla prudenza pratica e che, nella decisione finale deve avere la meglio: la delicatezza nella carità. Questa può comandare di rinunciare a un diritto (9,5), di rettificare il proprio agire tenendo conto della “coscienza debole” degli altri, in maniera da evitare lo scandalo (8,7-13; 10,23-24.28-29.32-33). Colui che consuma l’idolotito senza riguardo agli altri non pecca contro la fede (contrapposizione), bensì contro l’amore (dimensione comunitaria).

2) Un altro testo elaborato (1 Cor 7,1-39) mostra ancor meglio come, a partire da una questione bruciante e nuova posta dalla comunità, si effettui il discernimento pratico. Come giudicare del valore rispettivo degli stati di vita a riguardo dell’etica cristiana? Qui Paolo distingue quattro tipi di consegne, che si possono ordinare in gradazione discendente, quanto a forza obbligatoria.

a) Anzitutto una prescrizione del Signore stesso, e dunque irreformabile, poiché si appoggia su una parola esplicita del Vangelo: “la donna non si separi dal suo marito” (cf. Mt 5,32; 19,9). Quando per forza di cose si verifica il caso contrario, il comandamento implica o di non fare un altro matrimonio o un processo di riconciliazione (1 Cor 7,10-11).

b) Ma che fare quando un caso non è previsto dal Vangelo? Paolo, altrettanto pastore quanto teologo, si confronta con il problema concreto del matrimonio tra credente e non credente. Se quest’ultimo “comincia e continua a essere santificato” [sfumatura del perfetto greco] dal suo congiunto, cioè se c’è coabitazione armoniosa e una certa apertura spirituale, il precetto evangelico si attua senza problema; ma se il congiunto non credente opta per la separazione, l’altro, al dire di Paolo, diviene libero. L’apostolo precisa fin dall’inizio che egli si appoggia sulla sua autorità: “Sono io che lo dico, non il Signore” (7,12-16).

c) Paolo affronta in seguito la questione della verginità (7,25-38), stato di vita che non era generalmente valorizzato nel mondo giudaico. Egli la raccomanda, ma solo come un consiglio: “Io non ho ordini dal Signore, ma do una opinione in quanto uomo degno di fiducia, a cui il Signore ha fatto misericordia”. Invoca due argomenti: uno di convenienza pratica, evitare le preoccupazioni (7,32-35); l’altro teologico e spirituale, la brevità del tempo (7,29-31). Più brevemente Paolo applica il medesimo tipo di discernimento spirituale alla situazione delle vedove, concludendo: “Credo di avere anch’io lo Spirito di Dio” (7,39-40).

d) L’altro parere dato da Paolo corrisponde direttamente alla questione iniziale posta dalla comunità: la fondazione dell’astinenza sessuale, per motivi spirituali, per una coppia sposata (7,1-9). Anche qui l’apostolo usa prudenza nel suo discernimento. Valuta i rischi concreti di una posizione troppo radicale, in materia di sessualità coniugale. Autorizza l’astinenza come “una concessione e non un ordine”, a tre condizioni: l’accordo dei due coniugi, il carattere provvisorio (solo “per un tempo”), e soprattutto l’obiettivo essenzialmente spirituale (“attendere alla preghiera”). E approfitta dell’occasione  per affermare la perfetta reciprocità e uguaglianza dei coniugi nella libera disposizione del corpo dell’altro.

 

2.6.2. Orientamenti per l’oggi

154. Evidentemente non è possibile applicare queste considerazioni a tutte le problematiche nuove con cui si confronta la morale nel contesto attuale: globalizzazione dell’economia, delle comunicazioni e degli scambi, sovrappopolazione, sconvolgimenti nei mestieri e professioni, sviluppo di tecnologie militari sofisticate, emergenza di una società di piaceri, scardinamento della struttura familiare tradizionale, educazione e confessionalità ecc. Basti indicare qualche saggio che possa aiutare non solo i moralisti ma i gruppi e gli individui che vogliono ispirarsi alla Scrittura, a praticare un sano discernimento.

1) In materia di moralità come in ogni altro campo la Chiesa disapprova ogni utilizzazione fondamentalista della Scrittura, che si realizzi per esempio isolando un precetto biblico dal suo contesto storico, culturale e letterario. Una sana lettura critica aiuta a distinguere da  una parte le consegne o le pratiche valide per tutti i tempi e tutti i luoghi e, d’altra parte, quelle che hanno potuto essere necessarie in una determinata epoca o in un ambiente geografico particolare e poi divenire desuete, obsolete o inapplicabili. Più che l’esegesi dei testi stessi è la teologia biblica, con il suo sguardo d’insieme sull’uno e l’altro Testamento, che permette di non trattare mai un problema morale come un vaso chiuso, ma sempre nell’asse dei grandi canti della rivelazione di Dio.

2) Per una buona parte, l’etica ricorre alle risorse della ragione. Abbiamo visto come la Bibbia ha molto in comune con la sapienza dei popoli (convergenza). Ma essa sa contestare, remare contro corrente (contrapposizione). E superare (progressione). La morale cristiana non può in alcun modo evolvere indipendentemente da questo soffio nuovo e misterioso che le viene dai lumi dello Spirito Santo. Più che razionale e sapienziale, il discernimento morale dei credenti è spirituale. Interviene qui il tema importantissimo della formazione della coscienza. Anche se il Nuovo Testamento non associa che una volta esplicitamente i due termini “coscienza” morale e “Spirito Santo” (Rm 9,1), è chiaro che in regime cristiano il “discernimento del buono dal cattivo” ha per chiave di volta “gli elementi essenziali delle parole di Dio” (Eb 5,12-14), che conducono “alla perfezione” (6,1) “coloro che una volta per tutte sono stati illuminati, hanno gustato il dono celeste e sono divenuti partecipi dello Spirito Santo” (6,4). Paolo si richiama al “rinnovamento del pensiero”, non in “conformità col mondo presente”, ma “discernendo ciò che è volontà di Dio, che è buono, accettabile, perfetto” (Rm 12,2; cf. Ef 5,10; Eb 12,21).

3) Questo discernimento è eminentemente personale, e per questo nella morale cattolica si è sempre presentata la coscienza come l’ultima istanza decisionale. Ma nel processo – mai compiuto definitivamente – della formazione della coscienza, il credente ha la responsabilità e il dovere di confrontare il suo proprio discernimento con quello dei responsabili della comunità. In questo caso, i modelli forniti, tra gli altri, da Atti 15 e 1 Corinzi 7-8, resteranno sempre una fonte indispensabile d’ispirazione nel processo di discernimento ecclesiale di fronte alle nuove problematiche. In breve, a riguardo della Scrittura la difficile conciliazione dell’autonomia personale e della docilità ai lumi dello Spirito Santo dati alla Chiesa e attraverso la Chiesa fa parte integrante del processo di discernimento morale.

 

CONCLUSIONE GENERALE

 

155. Tenuto conto dello sviluppo degli approcci interdisciplinari sempre più sofisticati per trattare le grandi questioni che riguardano l’essere umano e tenuto conto più specificamente della complessità attuale delle problematiche morali sia sul piano individuale sia su quello collettivo, il presente documento non pretende di essere altro che un modesto seme di riflessione. Tuttavia esso comporta punti di originalità non trascurabili: ne sottolineiamo soprattutto tre. Inoltre esso apre qualche prospettiva per il futuro.

 

1. Elementi di originalità

156. 1) Il fatto di basare sulla Sacra Scrittura l’insieme della nostra riflessione invita a considerare la morale non anzitutto dal punto di vista dell’uomo ma dal punto di vista di Dio. Di qui il concetto di “morale rivelata”, che può essere utile, se lo si comprende bene. In questo, l’abbiamo visto, il nostro approccio si distingue, fin dall’inizio, dall’etica e dalle morali naturali, fondate essenzialmente sulla ragione. Il vantaggio potenziale è doppio.

Anzitutto sul piano teorico: la morale così concepita supera di molto la portata di un codice di comportamenti da adottare o da evitare, o anche una lista di virtù da praticare e di vizi da combattere per assicurare l’ordine sociale e il ben-essere della persona. Essa si iscrive in un orizzonte propriamente spirituale, ove l’accoglienza del dono gratuito di Dio precede e orienta la risposta dell’uomo. Ora si sente presso molti nostri contemporanei, cristiani e non cristiani, un bisogno forte di ridefinire la loro visione delle cose in un orizzonte spirituale e una ricerca attiva in questo senso. Una morale così esigente come la propone la Bibbia, tanto dal punto di vista spirituale quanto sociale, non è estranea alle aspirazioni coscienti o incoscienti dell’umanità postmoderna. Una morale che non ci chiude in noi stessi ma ci apre gli occhi verso gli altri, specialmente verso i poveri, vicini e lontani, e ci rende inquieti e ci spinge all’azione in loro favore.

Secondo: sul piano pratico, un approccio come il nostro aiuta a definire meglio tre inganni talora sottili, che hanno minacciato e ancora minacciano più di una istanza educativa, sul piano dei valori umani come sul piano della fede: una specie di casistica, di legalismo e moralismo stretti. Il restituire ogni specie di precetti nell’orizzonte di fondo del dono di Dio, come lo suggerisce la Bibbia nel suo insieme, conferisce loro un rilievo e una forza di espressione nuove.

157. 2) In totale rispetto per il testo fondatore del Decalogo, ne abbiamo proposta una rilettura assiologica (cioè in termini di valore), che apre un campo morale programmatico, piuttosto che solamente proibitivo e prescrittivo, un campo dinamico, certo molto più esigente, ma paradossalmente più attraente, conforme alle sensibilità etiche e morali della maggioranza dei nostri contemporanei. Nel suo Discorso della montagna, anch’esso altrettanto fondamentale e fondante, Gesù apre nettamente la strada in questa direzione. Il vantaggio salta agli occhi: lo sviluppo di una morale percepita come stimolante più che schiacciante, che rispetta e favorisce i cammini, mette in movimento verso il Regno ed educa le coscienze piuttosto che dare l’impressione di una cappa di piombo posta sulle spalle (cf. Mt 11,29-30).

158. 3) L’altro elemento di originalità di questo documento consiste nella presentazione sistematica di otto criteri generali e specifici, dedotti dalla Bibbia stessa, per trattare questioni morali attuali, anche  in assenza di risposte definitive che richiederanno il ricorso ad altri meccanismi di riflessione e di decisione. Piuttosto che fornire direttive chiare e precise, che superano in molti casi le nostre competenze di esegeti, noi desideriamo semplicemente favorire con la nostra riflessione l’accostamento della morale, se occorre, secondo uno spirito differente, un soffio nuovo, attinto proprio alla Scrittura. La morale cristiana apparirà così in tutta la ricchezza dei suoi tratti complementari:

- preoccupata in modo prioritario della dignità umana fondamentale (conformità alla visione biblica dell’uomo);

- cercando il suo modello perfetto  in Dio e in Cristo (conformità all’esempio di Gesù);

- rispettosa della sapienza delle diverse civilizzazioni e culture, e dunque capace di ascolto e di dialogo (convergenza);

- coraggiosa nel denunciare e arginare ogni opzione morale incompatibile con la fede (contrapposizione);

- ispirantesi all’evoluzione delle posizioni morali, all’interno della Bibbia e nella storia che ne è seguita, per educare le coscienze a un affinamento sempre più grande, che si ispira alla “giustizia” nuova del Regno (progressione);

- capace di conciliare i diritti e le aspirazioni della persona, fortemente affermati ai nostri giorni, con le esigenze e gli imperativi della vita collettiva, espressi nella Scrittura in termini di “amore” (dimensione comunitaria);

- abile a suggerire un orizzonte morale che, stimolato dalla speranza di un avvenire assoluto, supera lo sguardo miope che si limita alle realtà terrestri (finalità);

- preoccupata di accostare con prudenza le questioni difficili, con il triplice ricorso alle risorse dell’esegesi, all’illuminazione delle autorità ecclesiali e alla formazione di una coscienza corretta nello Spirito Santo, in modo da non causare mai ‘cortocircuito’ nel delicato processo del giudizio morale (discernimento).

 

2. Prospettive per l’avvenire

159. Quanto precede mostra bene per un lato alcune linee di forza e per altro lato anche il carattere incompiuto e, comunque, pure impossibile da portare a compimento, di un documento della Commissione Biblica sulla morale.

Certi problemi restano aperti. Ricordiamo, per non citare che un esempio, il concetto di “legge naturale”, di cui si crede di trovare un abbozzo in Paolo (cf. Rm 1,18-32; 2,14-15), ma che implica, almeno nella sua formulazione tradizionale, categorie filosofiche esterne alla Scrittura.

Ci auguriamo che la nostra riflessione possa suscitare tre tipi di attività successiva.

160. 1) Anzitutto il dialogo. È augurabile che non impegni solo gli specialisti nella Chiesa cattolica, come teologi moralisti ed esegeti, ma che trovi un’eco presso i credenti di altre confessioni cristiane, che partecipano del medesimo tesoro delle Scritture, e anche presso credenti di altre religioni, che perseguono pure esse standard elevati di vita morale. Più in particolare un dialogo fecondo con gli ebrei, nostri “fratelli maggiori”, può aiutarci reciprocamente a situare le molteplici leggi, talora relative, nell’asse fondamentale della Legge teologica, considerata come un “cammino” di salvezza dato gratuitamente all’umanità. La morale biblica non può essere imposta su altri che non hanno la medesima fede, però, poiché essa è mirata a migliorare la natura e la condizione dell’uomo e della società, è una proposta valida che si spera sia presa in seria considerazione anche da quelli che sono impegnati in un procedimento spirituale, di altro tipo.

161. 2) Pensiamo anche che una riflessione come la nostra, se suscita qualche interesse, potrebbe aiutare i pastori e i teologi a trovare strategie mediatiche appropriate affinché l’insegnamento morale della Chiesa sia percepito sotto un aspetto positivo e in tutta la sua ricchezza. Certo, per essere fedele a Cristo e al servizio degli uomini, la Chiesa non può astenersi dal presentare con chiarezza i diritti e i doveri del credente e di ogni uomo, e perciò non può prescindere da certe regole e  proibizioni. Ma la contrapposizione, soprattutto quando prende lo stile di una lotta giudicata necessaria, non è che uno degli otto criteri che abbiamo enunciato. Presentare la “morale rivelata” in tutta la sua ampiezza e fecondità, nell’asse della Scrittura, potrebbe tracciare i contorni di una pedagogia rinnovata.

162. 3) In fine, per avere seguito, il presente documento avrà bisogno, ne siamo convinti, di uno sforzo di volgarizzazione. Solo così potrà portare aiuto ai pastori, agli animatori pastorali, ai catechisti, agli insegnanti, senza dimenticare i genitori cristiani, che hanno la missione bella e insostituibile di educare i loro giovani alla vita, alla fede, all’uso di una libertà responsabile, e di guidarli sulla via della vera felicità, che termina oltre il mondo presente.

    

 

 

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