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PONTIFICIO CONSIGLIO PER LA FAMIGLIA

IL CARDINALE ENNIO ANTONELLI,
PRESIDENTE DEL PONTIFICIO CONSIGLIO PER LA FAMIGLIA A “VOCE ISONTINA”,
SETTIMANALE DELL’ARCIDIOCESI DI GORIZIA

«LA FAMIGLIA, AL CENTRO

Sabato, 26 settembre 2009

 

Testo a cura di Mauro Ungaro:

“È prassi giustissima per i politici ascoltare le forze sociali che rappresentano il mondo del lavoro e delle imprese: altrettanto doveroso dovrebbe risultare per loro confrontarsi con le associazioni delle famiglie. La politica del lavoro e quella della famiglia vanno pensate, elaborate e sviluppate insieme in quanto già strettamente collegate". E’ un richiamo preciso quello che il cardinale Ennio Antonelli, Presidente del Pontificio Consiglio per la famiglia, indirizza al mondo politico perché anche nel nostro Paese rivolga un’attenzione maggiore alla famiglia ed ai suoi problemi. Lo abbiamo incontrato durante la sua permanenza a Gorizia in occasione delle celebrazioni per il X anno di episcopato dell’arcivescovo De Antoni.

Eminenza, papa Benedetto XVI nel corso del suo pontificato, ha più volte posto l’accento sul valore della famiglia nella società. Eppure sembra che la società civile ed il mondo politico facciano particolare fatica a riconoscere la famiglia come un proprio valore costituente. Cosa fare, in concreto, per favorire questo riconoscimento?

Le diocesi e le parrocchie dovrebbero innanzitutto motivare le famiglie ad aderire alle associazioni familiari affinché queste siano rappresentative di un numero sempre maggiore di famiglie in tutto il Paese.

In secondo luogo è necessario stimolare tali associazioni ad essere attive: iniziative quali il Family Day (che abbiamo vissuto nell 2007 in Italia) sono senz’altro positive ma è necessario far seguire a tali avvenimenti straordinari un’opera continua di formazione e di sensibilizzazione sul valore, sulle sfide e sui problemi che la famiglia ha. Attraverso le associazioni bisognerà, poi, sensibilizzare l’opinione pubblica e fare pressioni sul mondo politico dal livello locale al Parlamento nazionale.

Sorprende che minoranze esigue - come quella degli omosessuali - abbiano tanta forza di lobbyng a livello politico e sui media mentre le associazioni familiari - pur rappresentando un gran numero di famiglie - non abbiano audience e non riescano ad incidere nel dibattito pubblico. È senz’altro necessario invertire questa tendenza!

Si ha talvolta l’impressione che la politica non consideri come proprio interlocutore, nei processi di formazione delle leggi, la realtà familiare ed anzi spesso tenda a favorire i processi ad essa contrari. Quale ruolo possono svolgere, in tal senso, i cattolici impegnati in politica? Quali sono i problemi più urgenti che andrebbero affrontati?

Mi riallaccio a quanto detto poc’anzi: credo che i cattolici impegnati in politica, dal livello nazionale a quello Europeo, dovrebbero prestare maggiore attenzione alle associazioni familiari in quanto portatrici degli interessi delle famiglie. È prassi giustissima per i politici ascoltare le forze sociali che rappresentano il mondo del lavoro e delle imprese: altrettanto doveroso dovrebbe risultare per loro confrontarsi con le associazioni delle famiglie. La politica del lavoro e quella della famiglia vanno pensate, elaborate e sviluppate insieme in quanto già strettamente collegate.

Venendo ai problemi concreti, è importante armonizzare i tempi del lavoro professionale, retribuito, con quelli della famiglia, con la cura dei bambini, dei malati, delle persone anziane che vivono in casa. Ciò può avvenire - ma è solo un esempio! - incentivando le aziende a facilitare la presenza dei genitori accanto ai bambini piccoli.

Un altro problema su cui si potrebbe senz’altro fare qualche passo in avanti, è quello della maggiore equità fiscale. Penso al cosiddetto "quoziente familiare". Non si capisce perché una coppia di coniugi che decide di avere dei figli debba diventare più povera: come se i figli non fossero un bene per tutta la società!

L’imposizione fiscale dovrebbe tenere conto non solo dei redditi che entrano in famiglia ma anche del numero delle persone a carico.

Un’altra pista percorribile nel sostegno alla famiglia è quella dei servizi educativi (scuole materne ed asili nido, in primis) ma anche il dare attuazione, sia pure graduale, alla parità scolastica. Tale obiettivo rappresenterebbe un beneficio non solo per le scuole non statali ma anche per quelle statali: mettendo in concorrenza queste due forze di servizio ci guadagnerebbero tutti.

La concorrenza è ritenuta un bene se applicata al mercato: perché non dovrebbe esserlo anche per la cultura? Ci troveremo dinanzi a quella che un tempo si chiamava "sana emulazione": un mettersi in gioco a chi fa meglio, a chi risparmia di più, a chi raggiunge i risultati migliori. Avere una pluralità di agenzie educative scolastiche costituirebbe un vantaggio per tutte le scuole! Oggi, in questo settore, assistiamo, di fatto, ad un pressoché totale monopolio da parte dello Stato. Però non è giusto che i genitori paghino le tasse per la scuola gestita dallo Stato e poi debbano pagare ancora una volta se decidono di mandare i figli in una scuola non statale.

Certamente molte di queste proposte devono fare i conti, nel concreto, con le ridotte disponibilità finanziarie però credo sia comunque possibile fare dei passi significativi in questa direzione.

Parlando mercoledì scorso a Roma ad un convegno cui hanno partecipato i vescovi ordinati negli ultimi dodici mesi sul tema "Il vescovo e la pastorale della famiglia", Lei ha sottolineato che "la crisi della coppia si manifesta in una valanga crescente di separazioni, divorzi, famiglie monoparentali… con innumerevoli sofferenze spesso ignorate dai media". Cosa possono fare le comunità cristiane per alleviare queste sofferenze?

Credo che la prima cosa da fare sia promuovere una seria ed impegnativa preparazione al matrimonio. Piuttosto che un breve corso di formazione, bisognerebbe pensare ad un itinerario di fede e di esperienza di vita cristiana: una specie di catecumenato per far nascere la coppia già più solida e preparata. Un’altra cosa che la comunità cristiana può fare è promuovere incontri per le coppie di sposi in modo da non lasciarli soli, soprattutto i più giovani. Dovrebbe nascere una rete di amicizia, di solidarietà e di aiuto reciproco anche nelle cose molto concrete della vita di tutti i giorni. Senza dimenticare l’importanza della stretta collaborazione fra parrocchia e famiglie per l’educazione dei figli: una sinergia che, fra l’altro, aiuta gli stessi genitori a riscoprire la loro fede.

Certamente le piste possono essere tante: l’importante è che la comunità cristiana mantenga la famiglia al centro dell’attenzione non come un settore pastorale qualunque ma prendendo coscienza che proprio la famiglia deve essere l’interlocutore privilegiato della comunità parrocchia. A ben vedere, la parrocchia c’è perché ci sono le case e le famiglie. Spesso si definisce la parrocchia come "la famiglia delle famiglie": una frase che non dovrebbe ridursi a mero slogan ma tradursi in realtà concreta.

In una società come l’attuale, dove il relativismo pone come misura di ogni cosa il proprio io, quale messaggio educativo può venire dalla famiglia?

La famiglia "ben riuscita", capace di rispondere alla sua vocazione e di prendere seriamente il proprio compito e la propria missione (anche se con delle debolezze e delle incoerenze) diviene una scuola di umanità e di convivenza sociale, di virtù umane e cristiane. È in famiglia che si impara ad amare e ad essere amati; è il luogo dove si imparano la collaborazione, la fiducia reciproca, il servizio, il perdono ma anche a conciliare il bene di ognuno con quello comune, a disciplinare secondo ragione i propri sentimenti… Se la famiglia, giorno dopo giorno, vive in un clima di amore e fiducia reciproca, allora fa crescere e sviluppare tutta una serie di comportamenti e valori indispensabili per quella vita sociale che non può reggersi solo in forza delle leggi ma deve poggiare le proprie basi sulle convinzioni, sugli orientamenti e sui comportamenti condivisi da un gran numero di persone.

Eminenza, Lei ha avuto modo di partecipare, nel 1999, quale rappresentante della Conferenza episcopale italiana all’Assemblea del Sinodo dei Vescovi per l’Europa. Quale ruolo possono svolgere le Chiese nella formazione di questa Europa del terzo millennio che pare avere dimenticato le proprie radici cristiane?

È necessario che l’Europa non sia soltanto un mercato ma abbia un’anima. Parlare di "anima" per l’Europa significa parlare anzitutto di un’unità culturale che, però, non può esistere ove manchino radici religiose profonde. La fede religiosa è il cuore di una cultura.

Allora si comprende come il discorso sulle radici cristiano-giudaiche del nostro Continente non sia assolutamente marginale. Se vogliamo che l’Europa abbia un’identità - che si riconosca in una storia ed in un patrimonio culturale - dobbiamo riscoprire l’importanza che in questa cultura ha la fede cristiana, la fede biblica ponendo, di conseguenza, al centro di tutto la figura di Gesù. Si tratta di un passo molto importante se vogliamo che l’Europa possa interloquire con le altre culture: non si può dialogare se si è sprovvisti di un’identità propria. Ci si apre gli uni agli altri per capirsi meglio e per arricchirsi reciprocamente ma si può farlo quando si possiede una propria identità; in caso contrario uno rischia di non avere niente da dire o da dare o da ricevere. Si può ricevere qualcosa quando si hanno delle convinzioni e dei valori che possono armonizzarsi con quello di cui l’altro è portatore. È fondamentale, quindi, che l’Europa riscopra e diventi più amica di se stessa. Papa Benedetto XVI ha più volte ripetuto in questi anni che l’occidente sembra non amare se stesso, non essere fiero della propria storia e non essere consapevole di avere ricevuto grandi valori e grandi doni che è chiamato a sua volta a donare agli altri.

C’è, poi, il problema demografico.

L’Europa rischia una specie di "suicidio demografico" perché diventa sempre più un continente di vecchi: i segnali positivi, in controtendenza, sono ancora troppo limitati e deboli. Per i popoli privi di un’identità chiara e di speranze forti, cui manchi un desiderio di vita e valori di cui si sentano portatori, verranno meno anche le motivazioni per guardare al futuro, per rinnovare se stessi, per investire sulle nuove generazioni.

Direi quindi che è necessario dare un’anima all’Europa, valorizzandone l’identità culturale e guardando con fiducia al futuro, favorendo una ripresa della procreazione e della natalità.

Nell’omelia del rito di ordinazione episcopale di mons. Cancian, eletto vescovo di Città di Castello, Lei ricordava - con le parole di San Tommaso d’Aquino - che "misericordia è essere colpito dalla miseria altrui, come fosse la propria". Parole che mi hanno fatto ritornare alla mente quanto il cardinale Martini, al Convegno ecclesiale delle Chiese del Triveneto ad Aquileia nel 1990, rilevò come evangelizzare significhi anche chinarsi sul prossimo. È la testimonianza caritativa il di più che i cristiani nel nostro Paese possono in questo momento storico "giocare" di fronte l’opinione pubblica?

Evangelizzare significa trasmettere l’amore di Cristo agli altri. Un atteggiamento che non si può ridurre soltanto ad assistere i poveri: essi rappresentano una "pista preferenziale" però bisogna sempre ricordarsi che quello che a loro si dona deve essere l’amore di Cristo. Più delle cose che si fanno è importante il modo in cui ci si relaziona con loro in modo che essi si sentano amati da Cristo.

Madre Teresa di Calcutta ha sempre voluto che le sue suore si accostino ai più poveri fra i poveri in modo tale che questi attraverso la loro opera si sentano amati da Cristo. Se si fa attività caritativa come si facesse semplice assistenza sociale certamente si compie un’opera umanamente meritoria: però questo non è ancora evangelizzare! Un simile gesto lo può compiere chiunque, anche un non credente. Evangelizzare significa compiere tutto questo in modo tale che le persone possano incontrare il Signore.

Ma per evangelizzare è anche necessaria l’unità fra i credenti: un’unità che parte proprio dalla comunione in famiglia. In mondo dove innumerevoli sono gli esempi di disgregazione e conflittualità, la famiglia e la comunità cristiana unite possono testimoniare esperienze concrete di comunione vissuta, di come sia gioioso lo stare insieme. Torneremo così a quanto scritto nel Vangelo di Giovanni: "Che essi siano uno perché il mondo creda". E l’unità può essere vissuta concretamente a tutti i livelli, secondo le possibilità proprie di ciascuno: in famiglia come nei gruppi di amici, in parrocchia come nelle associazioni ecclesiali…

Questo è il grande segno che Gesù ha indicato: "Da questo vi riconosceranno: sarete miei discepoli se vi amerete gli uni gli altri". Questo, oggi, ritorna ad essere il segno principale dell’evangelizzazione.

Senza, chiaramente, per questo sottovalutare l’amore verso gli ultimi, verso i più poveri; anzi, sviluppandolo ed accrescendolo il più possibile anche perché siamo sempre debitori nei loro confronti e quello che per loro facciamo è sempre poca cosa.

 


* «Voce isontina» settimanale dell’arcidiocesi di Gorizia, 26 settembre 2009 (numero 36, pagg. 4-5)

 

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