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PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA GIUSTIZIA E DELLA PACE

RELAZIONE DI S.Em. CARD. RENATO RAFFAELE MARTINO  

Sabato 15 novembre 2003

 

Papa Leone XIII nel passaggio tra due secoli

 

Leone XIII governò la Chiesa a cavallo tra due secoli. Fu eletto Papa all'età di 68 anni, il 20 febbraio 1878, e morì all'alba del Novecento, il 20 luglio 1903, all'età di 93 anni. La cronologia, quindi, ci assiste quando affermiamo che Leone XIII  fu  Papa  nel  passaggio tra due secoli.
Ma cosa intendiamo, al di là dei dati cronologici, per "passaggio tra due secoli"? Nella confluenza dell'Ottocento nel Novecento possiamo riconoscere il definitivo trascorrere verso la modernità di cui si potevano già intravedere i pieni caratteri.

Leone XIII e la modernità

Normalmente con il termine modernità si intende i cosiddetti "principi dell'89" con le ideologie politiche che ne seguirono:  socialismo, laicismo, democrazia, liberalismo. A ben considerare, però, si può distinguere un periodo durante il quale la modernità si manifesta prevalentemente in forma culturale e quindi ancora piuttosto elitaria, ed un periodo  in  cui  essa diventa fenomeno di massa.
Al centro della transizione tra le due modernità c'è il processo di industrializzazione per cui l'"apostasia" o la "licenza", come si esprimevano i documenti intransigenti del tempo, dilagava tra le masse, fino ad allora rimaste "cristiane".

Si può forse dire che i Pontificati di Gregorio XVI e di Pio IX conobbero una modernità del primo tipo. Essi dovevano fare i conti con gli Stati e le loro politiche laiciste, non con le masse che rimanevano cristiane. Tanto è vero che sorse la prospettiva "ultramontana": la Chiesa di Roma che scavalca gli Stati e prende le difese dei popoli, o, come si diceva in Italia, della Chiesa che scavalca il "paese legale" per collegarsi direttamente con il "paese reale".

Leone XIII, invece, ha ormai a che fare con l'"apostasia di massa", dato che nell'ultimo trentennio del secolo XIX il processo di industrializzazione sconvolse i vecchi equilibri e nelle periferie delle città industriali raccoglieva grandi masse di militanti sotto le bandiere del socialismo o dell'anarchismo.

Non è un caso che solo in questo trentennio nasce un "Movimento cattolico" organizzato. Esso si rende necessario perché ormai le "eccessive libertà moderne", come afferma la Immortale Dei, o l'"eccessiva brama di novità" come si esprime l'enciclica Libertas, avevano raggiunto il popolo e non solo i circoli intellettuali.

Quando cessò la Rivoluzione Francese e fu ripristinato il permesso di suonare le campane e di frequentare le chiese, il popolo francese si ritrovò cristiano. Le truppe napoleoniche incontrarono ovunque insorgenze popolari di tipo vandeano che contestavano le profanazioni religiose compiute dai soldati. Era segno che il popolo era ancora impregnato di religiosità.

La Chiesa poteva limitarsi a trattare con gli Stati. Ma da quando la rivoluzione industriale chiamò i contadini dalle campagne nelle fabbriche cittadine e le ideologie moderne proposero convinzioni e stili di vita contrari alla religione tradizionale, la modernità assunse un aspetto più minaccioso.
Leone XIII si trovò di fronte a questa modernità, alla modernità non solo enunciata ma realizzata, non solo teorizzata ma concretizzata, la modernità non solo illustrata sui libri, dibattuta nei circoli, contemplata in alcune leggi, ma anche presente nelle fabbriche e nelle piazze.

Egli non sottrasse la Chiesa al confronto. Gradualmente lo assunse in modo non solo negativo, ma anche, via via, positivo, guidò la Chiesa in un difficile passaggio di atteggiamento:  dalla condanna alla proposta, dal ritrarsi sdegnato all'impegno convinto, dal subire gli avvenimenti a governarli. Si potrebbe affermare che nell'opera di Leone XIII intravediamo l'impegno e la spinta verso una "modernità cristiana". Dopo il lungo Pontificato di Pio IX, caratterizzato dall'intransigenza, Leone XIII, in continuità con l'insegnamento tradizionale dei suoi predecessori - in continuità quindi anche con l'enciclica Mirari Vos (1832) di Gregorio XVI e l'enciclica Quanta Cura di Pio IX (1864) - guida un vasto impegno della Chiesa tutta, capace di unificare le esigenze della religione con quelle dell'autentico diritto, accompagnando, quasi per mano, la società che inevitabilmente usciva dal regime di cristianità affinché continuasse a nutrirsi ancora del cristianesimo.

Il transito non era facile, perché bisognava attraversare il guado dalla cristianità alla modernità cristiana passando attraverso una modernità dai forti tratti anticristiani. Bisognava pilotare sapientemente la barca per non cadere nel modernismo e nello stesso tempo senza ritornare indietro, a posizioni che la storia non accettava ormai più.

Leone XIII tra conservazione e "brama di novità"

Prima di accingermi a illustrare questa mia tesi, mi sia permesso un chiarimento preliminare.
Ho sempre sopportato con una certa insofferenza le categorie di "intransigente" e di "liberale", di "tradizionalista" e di "moderno", di "restauratore" e di "novatore". Le ho sempre considerate delle etichette troppo strette per comprendere la storia della Chiesa di quei tempi e facilmente disponibili ad un uso ideologico. Ho sempre pensato che possano essere comode per gli storici, i quali hanno la necessità di ridurre la complessità dei fatti proprio per poterli studiare selezionandoli.

Tuttavia, il sentire della Chiesa, la ricerca da parte dei Pontefici dell'autentico bene spirituale e materiale delle persone, la multiforme azione della Chiesa tramite tutte le sue ricche articolazioni sotto la guida dei pastori sono stati un processo che, per ricchezza, originalità o specificità, deborda da quelle categorie. Vi deborda soprattutto per la tensione sempre presente nella Chiesa di essere fedele alla Tradizione e, nello stesso tempo, di incontrare l'uomo là ove egli vive, ossia nel suo tempo.

I sacerdoti e i cristiani laici che, proprio all'epoca di Leone XIII, soprattutto inquadrati in Italia nell'Opera dei Congressi e dei Comitati Cattolici, sollecitati dalle stesse encicliche del Pontefice, prima fra tutte la Rerum novarum (1891) ed ultima la Graves de communi (1901), hanno dato vita, con grande impegno personale, alle mille opere sociali ed economiche dedite alla solidarietà tra la povera gente erano espressione dell'intransigentismo.

Non dell'intransigentismo prima maniera, dato che l'"azione popolare cristiana" o la "democrazia cristiana", secondo le espressioni adoperate dalla Graves de communi, aveva ormai superato lo "spirito di trincea" e la polemica del "Papa prigioniero", proiettandosi nelle opere di mutuo soccorso, ma, in ogni caso, sempre di intransigentismo si trattava, in difesa della civiltà cristiana dagli attacchi dei "socialisti", dei "nichilisti", dei "novatori".

Chiediamoci: non si può definire nello stesso tempo innovativa, modernizzante, progressista questa loro opera di "carità sociale" che, come dicono gli storici, emancipò gli ultimi dall'arretratezza e per la prima volta fece acquisire loro coscienza e dignità sociale, proprio quando le logiche di sfruttamento capitalistico entravano nelle campagne e i socialisti seminavano la lotta di classe e l'ateismo?

Se all'inizio le motivazioni erano prevalentemente di difesa della religione, non doveva emergere gradualmente il servizio alla persona, la consapevolezza dell'uguaglianza e della giustizia, la necessità della difesa dei diritti, l'assunzione di responsabilità civica? Dalla lotta allo Stato liberale, condotto inizialmente nel contesto della questione romana, non doveva emergere l'idea del primato dei corpi intermedi e, in seguito, della società civile in virtù del principio di sussidiarietà? Tutto ciò non è modernità, innovazione, proposta di progresso?

Possiamo fare un altro esempio. La richiesta, presente nella Rerum novarum, del rispetto del riposo festivo per permettere al lavoratore di assolvere i propri doveri religiosi poteva sembrare affermazione di privilegi ecclesiastici, residuo di una società sacrale, quando le leggi civili sostenevano direttamente la vita religiosa - come accadeva per esempio nel Lombardo Veneto prima dell'annessione all'Italia avvenuta nel 1866, ove le leggi prescrivevano che durante la celebrazione della Messa le osterie dovessero chiudere. Ma la rivendicazione di quel diritto del lavoratore non è da intendersi anche come innovativo, come una anticipazione della proclamazione del diritto alla libertà religiosa? In questo modo, infatti, lo interpreta e lo sviluppa Giovanni Paolo II, rileggendo quel passo della Rerum novarum a distanza di cento anni, nella Centesimus annus (1991).

Questi due esempi dimostrano che l'uso di categorie fin troppo cristallizzate, come quelle che abbiamo ricordato sopra, può essere fuorviante. Trattando di Leone XIII a me non interessa, quindi, stabilire se fosse stato tradizionalista o innovatore. Non è questo il punto di vista della Chiesa. Mi interessa mettere in evidenza come egli abbia cercato di guidare la Chiesa verso la modernità che i tempi tumultuosamente imponevano senza cedere minimamente nel rispetto della tradizione.

Per fare questo anche lui, come Giovanni Paolo II nella Centesimus annus, ha guardato indietro (al Vangelo e alla tradizione), intorno (alle res novae che incombevano) e al futuro, animato dalla speranza che c'è in chi guida provvidenzialmente la storia.

Per mettere meglio in evidenza questi tratti del Pontificato di Leone XIII limiterò il mio campo di indagine al suo magistero sociale, ossia all'enciclica Rerum novarum ma anche alle altre, spesso dimenticate, encicliche sociali di Leone XIII. È un restringimento di campo perfino doveroso, dato il mio ruolo di Presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace.

La transizione verso una "modernità cristiana"

Mi sia consentito prendere spunto, per proseguire nel nostro ragionamento, dalla recente Nota della Congregazione per la Dottrina della Fede sull'impegno dei cattolici nella vita politica. In essa si parla della libertà di coscienza che, come sappiamo, è la tematica che meglio compendia le tensioni tra Chiesa e modernità, quelle stesse che anche Leone XIII visse.

Ebbene, in quella Nota si chiarisce che il motivo per cui la Chiesa, con la Dignitatis humanae del Vaticano II, ha riconosciuto il diritto alla libertà di coscienza è dato dal riconoscimento oggettivo della dignità della persona e non da una generica e vuota libertà soggettivistica. Sulla verità della persona e della sua intangibile dignità si fonda il riconoscimento e quindi la tutela della sua libertà.
In  questo  modo la Nota stabilisce una continuità  del  magistero più recente con quello cosiddetto intransigente dell'Ottocento, sostenendo che la libertà di coscienza non significa indifferentismo  e  citando  in nota l'enciclica Quanta Cura di Pio IX, cui era allegato il Sillabo.

In altri termini l'idea che la libertà abbia significato solo dentro la verità è la linea costante del magistero, ribadita sia dall'enciclica Libertas di Leone XIII sia dall'ultima enciclica sociale, la Centesimus annus di Giovanni Paolo II. Come dire che la Chiesa cattolica, spinta dagli stessi avvenimenti storici che la interpellavano intensamente su questo punto e perfino dalle provocazioni dei "novatori", come li chiamava anche Leone XIII, dapprima ebbe timore che i diritti dell'uomo venissero sganciati dal diritto oggettivo, e la libertà quindi separata dalla verità.

Per questo diede anche l'impressione talvolta di condannare i diritti in quanto tali, mentre ne condannava la separazione dai doveri, ossia, ancora una volta, della libertà dalla verità.

In seguito e gradualmente la Chiesa ha sviluppato una concezione dei diritti che, fatti emergere dalla oggettiva e trascendente dignità della persona, li poneva al riparo dal relativismo, che fatalmente li indebolisce e li rafforzava ancor più che le ideologie moderne. La libertà, anziché essere danneggiata dall'accettazione della verità, ne risulta rafforzata.

È su questa base che la Chiesa è diventata la principale forza a difesa dei diritti dell'uomo e delle sue libertà. In questo campo l'attività e il magistero dell'attuale Pontefice Giovanni Paolo II sono stati grandiosi e per certi versi eccezionali. Ma non meno eccezionali sono stati, secondo me, l'impegno e i risultati raggiunti da Leone XIII.

Si può dire che Papa Pecci abbia perseguito con coerenza un obiettivo: passare dalla posizione che ribadisce la priorità della verità (con il rischio di non dare il dovuto risalto alla libertà) alla posizione che valorizza la libertà nella verità. Non si trattava di una resa davanti alla modernità. Né si trattava di contrapporsi semplicemente alla modernità. Cominciava un confronto, non certo ancora un dialogo, per di più talvolta ancora molto aspro.

Durante questo confronto la Chiesa si sarebbe riappropriata gradualmente di temi propri della modernità - la valorizzazione del soggetto e della sua coscienza, le libertà personali a cominciare dalla libertà di opinione, i diritti dell'uomo a cominciare dal diritto alla libertà religiosa - nel tentativo di rafforzarli addirittura, togliendoli dal monopolio del soggettivismo moderno e del "nichilismo", come spesso si esprime Leone XIII. Un simile confronto non si concluse certo con Leone XIII ma a lui va riconosciuto il merito di averlo impostato nella sua architettura generale.

Le encicliche sociali "minori" di Leone XIII

Non è difficile riscontrare i tratti generali di questo progetto nelle encicliche sociali di Leone XIII. La grandezza e il valore dell'enciclica Rerum novarum sono universalmente noti, ma sarebbe ingiusto dimenticare perciò le altre encicliche sociali di Leone XIII:  la Quod apostolici muneris del 28 dicembre 1878; la Diuturnum Illud del 29 giugno 1881; la Immortale Dei del 1° novembre 1885; la Libertas del 20 giugno 1888; la Graves de communi del 19 gennaio 1901. In esse il progetto che abbiamo chiamato di transizione ad una modernità cristiana è forse meno evidente che non nella Rerum novarum, come diremo tra poco, ma non di meno è rintracciabile se solo si riesce a superare i problemi di linguaggio che risentono di un'epoca di contrasti e di "militanza" vecchia maniera. Limitiamoci a qualche considerazione generale.

Innanzitutto notiamo in queste encicliche una notevole capacità preveggente, nell'indicare i pericoli che il soggettivismo nichilistico avrebbe recato, nel lungo periodo, alla stessa società. La Diuturnum Illud mette in luce la debolezza del contrattualismo politico - "leggero e instabile fondamento" - che non è in grado di conferire al legame sociale la stabilità di cui ha bisogno e, soprattutto, non riesce a mostrarne l'orientamento etico verso un bene comune indipendente dalle "utilitates" individuali e oggetto del patto tra i cittadini. Da questa matrice si svilupperanno i concetti della originaria socialità umana, della necessità di convinzioni etiche comuni (si pensi alle osservazioni della Centesimus annus sulla democrazia), del fondamentale riferimento della società alla dignità della persona (si pensi a quanto contenuto nella Gaudium et spes).

Secondariamente, osserviamo come in queste encicliche siano contenuti principi fondamentali della Dottrina sociale della Chiesa che verranno espressi nelle encicliche successive e, una volta eliminato l'involucro verbale dell'intransigentismo fine secolo, sprigioneranno tutte le loro potenzialità illuminanti le dinamiche della modernità. Pensiamo, per esempio, alle riflessioni sull'autorità presenti nell'enciclica Libertas, nella Immortale Dei e nella Diuturnum Illud, che troveranno un singolare sviluppo nella Pacem in Terris.

Le fortissime critiche mosse da Leone XIII ad un concetto di autorità originato dalla volontà popolare come sua fonte primaria hanno di mira l'intento di fondare adeguatamente la legittimazione dell'autorità politica in ordine al conseguimento del bene comune. Il carattere intrinsecamente etico dell'autorità invita a distinguere tra autorità e potere. Dall'investitura popolare potrà arrivare semmai il potere ma non certo l'autorità. Per questo nella Libertas il Papa chiarisce che dal popolo potrà derivare la designazione delle persone ma non la fonte dell'autorità.

Fino a Leone XIII la Chiesa aveva condannato la democrazia. Con questo Pontefice la Chiesa si proclama neutrale rispetto ad ogni forma di governo. Di recente la Centesimus annus si è detta favorevole al sistema democratico. Il magistero, in ogni caso, non ha mai rinunciato al principio posto da Leone XIII della vera legittimazione del potere anche dei regimi democratici, negando risolutamente che la democrazia si riduca al meccanico prevalere della maggioranza.

Infine, notiamo la fecondità storica del principio della rivendicazione della libertà di religione presente in queste encicliche. Come sappiamo Giovanni Paolo II ci ha più volte insegnato che in un certo senso il primo dei diritti umani è quello alla libertà religiosa. I documenti sociali di Leone XIII sono molto pervasi dalla rivendicazione di questo diritto della Chiesa cattolica contro il laicismo liberale.

Ebbene, di fatto, la Chiesa rivendicando per sé la libertà si batteva anche per la libertà di tutti. Così facendo, infatti, essa relativizzava la politica e lo Stato - allora molto accentratore e perfino ammantato di una sorta di "religione civile" di tipo materialistico e ispirata alla filosofia positivista - fino al punto da reclamare, come fa l'enciclica Libertas, il diritto all'obiezione di coscienza nei confronti del potere, essendo doveroso obbedire  a  Dio  piuttosto  che agli uomini.

Come si vede da questi pochi cenni, già nelle encicliche "minori" che fanno da corona alla Rerum novarum, Leone XIII portò avanti un discorso dinamico tendente a costruire una "modernità cristiana" e seminando una messe che sarebbe stata raccolta perfino molti anni dopo. Non c'è semplicemente l'elenco degli errori della modernità come nel Sillabo di Pio IX, ma alla critica ai presupposti relativistici e nichilistici dei principi che discendono dai fatti dell'89 si aggiunge l'intento propositivo e orientante le dinamiche moderne.

La "Rerum novarum"

È però nella Rerum novarum che il confronto con la modernità assume toni radicalmente nuovi e si denota la transizione dalla contrapposizione per motivi religiosi alla rivendicazione di un diritto della Chiesa a dire la propria parola sulla questione sociale non per un privilegio, né per esercitare una sorta di diritto di giudizio o di condanna, ma per un impegno di servizio all'uomo, intrinseco alla sua stessa missione di evangelizzazione.

Il metodo della Rerum novarum è già pienamente moderno, nel senso di una "modernità cristiana":  fa un'indagine storica della situazione, si colloca in una prospettiva implicita di teologia morale - ossia di discernimento della storia alla luce della Parola e della Tradizione - per orientare l'agire a servizio dell'uomo, non ragiona in termini solo ecclesiastici ma entra nel campo dei diritti umani, segnatamente dei diritti del lavoratore, propone positivamente una visione della società capace di inquadrare le nuove dirompenti problematiche in un contesto di equilibrio a servizio del bene comune.

Certo, sono presenti nell'enciclica anche accenti propri di preoccupazioni pre-moderne, come per esempio il rifiuto del conflitto sociale come molla del progresso e di difesa dei legittimi interessi. Ma nel complesso l'enciclica manifesta una impostazione nuova:  viene percepita la "questione sociale" come fenomeno strutturale e non più riconducibile al rapporto etico-religioso tra la persona del lavoratore e quella del padrone; ci si accosta al tema del lavoro annunciando il primato della persona del lavoratore sul capitale e giudicando intollerabile l'ingiustizia economica e sociale; si supera l'antistatalismo intransigente e si ha il coraggio di richiedere, seppure a certe condizioni, l'intervento dello Stato per la soluzione della questione sociale.

Gli studiosi hanno messo in evidenza come  la  Rerum novarum rappresentasse una notevole novità rispetto alla pastorale del tempo che si limitava spesso  a  predicare la concordia e la sopportazione e alla teologia morale ottocentesca nella cui casistica non si trovavano questioni relative ai rapporti di lavoro.

Abbiamo già accennato al fatto, semplice in sé ma molto significativo, della rivendicazione del diritto al riposo domenicale. Difesa dei diritti ecclesiastici, forse anche nostalgia per un recente passato quando la sacralità della domenica, giorno del Signore, era convalidata dalla legge dello Stato, magari avversione per chi ha provocato il disincanto ... forse c'è tutto questo in quel passaggio della Rerum novarum. Ma c'è già anche dell'altro:  un preannuncio del diritto alla libertà religiosa, l'attenzione al bisogno umano del riposo dal lavoro, l'idea che il lavoratore è prima di tutto una persona e che il primo significato del lavoro è la persona che lavora, come dirà in seguito la Laborem exercens.

Possiamo anche prendere ad esempio un altro passo dell'enciclica, laddove Leone XIII condanna le confische dei beni ecclesiastici e la soppressione degli ordini religiosi. Così facendo egli tocca un nervo scoperto della polemica tra la Chiesa e la modernità successiva alla Rivoluzione francese. Erano stati infatti numerosi i decreti di confisca e di scioglimento degli ordini religiosi contemplativi e delle opere pie.

Nell'accusa della Rerum novarum c'è senz'altro l'eco di questi scontri ideologici, il dolore per le sofferenze materiali e spirituali cui tanti istituti religiosi venivano sottoposti, la difesa dei diritti della religione. Ma c'era anche la rivendicazione del diritto di associazione, tanto è vero che l'enciclica ne parla proprio in questo contesto.

C'era anche l'idea che lo Stato non può interferire nei corpi sociali intermedi creati dalla persona in forza della sua originaria socialità. Non si tratta più di rivendicazioni di diritti acquisiti, di richieste di parte, si tratta piuttosto della persona e dei suoi diritti, si tratta della giusta organizzazione della compagine sociale, della retta concezione del potere politico.

Pensiamo, infine, al principio di sussidiarietà, che non è esplicitamente presente nella Rerum novarum, ma implicitamente ne innerva le principali affermazioni, come quando vi si dice che la famiglia è una società piccola ma vera, dotata di un potere proprio e che lo Stato non ha diritto di privarla della sua autonomia originaria.

Queste affermazioni nascono nel contesto di un antistatalismo cattolico anche molto accentuato che si alimenta nelle polemiche seguite all'affronto di Porta Pia - si noti, di sfuggita, che nelle relazioni dei Prefetti i "clericali" venivano annoverati, alla fine dell'Ottocento, tra i "sovversivi" assieme ai socialisti e bisognosi quindi di una particolare attenzione degli organi di polizia. Non c'è dubbio, però, che esse si alimentino anche e soprattutto della concezione tradizionale della libertà umana che Leone XIII illustrerà nell'enciclica Libertas e si sviluppino nelle richieste di autonomie legate al fatto che "l'uomo è anteriore allo Stato".

La carità della cultura e la cultura della carità

Il disegno di Leone XIII di guidare la Chiesa verso una "modernità cristiana" dovette subire una battuta d'arresto entrando in un periodo di sedimentazione durante il Pontificato di Pio X, dato l'insorgere di fenomeni modernistici. Sotto il Pontificato di Pio XI, il progetto dovette confrontarsi con i totalitarismi e gli imperialismi. Riemerse, invece, in modo veemente con Pio XII, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, data la necessità di ricostruire dalle basi la convivenza umana.

Proseguì con Giovanni XXIII, dato il clima di rinnovamento legato al Concilio. Fu fatto nuovamente proprio da Giovanni Paolo II, data la necessità, dopo il crollo dei regimi comunisti e la fine dei messianismi laici a sfondo ideologico, di ripensare ab imis lo sviluppo umano in generale. Modalità ed accentuazioni cambiarono, ma è indubbio il merito di Leone XIII di aver iniziato una tradizione, una consolidata tradizione di presenza nella modernità.

Un simile progetto non poteva trascurare la cultura, la filosofia, i modi di pensare, la ricerca della verità, oltre che la costruzione della società. Ed infatti, un altro grande merito di Leone XIII è stato di collocare tutte le encicliche sociali che abbiamo visto, Rerum novarum compresa, all'interno di una proposta molto più ampia, anche di tipo culturale.

Non sarebbero comprensibili quelle encicliche, infatti, senza il loro collegamento con la Aeterni patris (1879), dedicata alla "instaurazione, nelle scuole cattoliche, della filosofia cristiana secondo il pensiero di san Tommaso d'Aquino". È mia convinzione che Leone XIII non volesse istituire una specie di esclusivismo tomista. Tanto meno egli pensava al tomismo di scuola, talvolta chiuso in se stesso e rigido nelle sue categorie. Credo che il Pontefice pensasse ad un rilancio della "filosofia cristiana" nel senso dato più tardi dal filosofo Etienne Gilson a questa espressione, ossia di un "filosofare nella fede".

Credo che pensasse ad uno slancio di carità culturale a servizio della verità che, nella fedeltà ad una tradizione filosofica  classica  che  ha  saputo  dialogare intimamente col cristianesimo nel passato,  potesse  nuovamente  guidare le menti in armonia con la fede cristiana.  Credo  che avesse, in altre parole, le stesse intenzioni per cui Giovanni Paolo II ha scritto l'enciclica Fides et ratio.

Ci siamo soffermati in questa relazione soprattutto sulle encicliche sociali e in particolare sulla Rerum novarum. Ma non andrebbe mai dimenticato che la Dottrina sociale della Chiesa, della cui fase moderna Leone XIII è il fondatore, si nutre di pensiero e di azione. Essa nasce dall'incontro tra la verità eterna del Vangelo e la realtà storica di fine Ottocento. Un incontro storico che emanava dalla vita stessa della Chiesa dentro il mondo di allora, dall'azione di tanti cristiani ecclesiastici e laici, singoli ed organizzati, che avevano cominciato ad affrontare cristianamente le nuove questioni sociali già molto tempo prima della pubblicazione dell'enciclica.

Giovanni Paolo II parla dell'"operosità feconda di milioni e milioni di uomini, che stimolati dal magistero sociale, si sono sforzati di ispirarsi ad esso in ordine al proprio impegno nel mondo" (Centesimus annus n. 3). Ma che nasceva anche dal pensiero di tanti studiosi, come per esempio l'italiano Giuseppe Toniolo.

Costui può essere considerato a pieno un personaggio dell'epoca di Leone XIII. Quando, a cominciare dal 1890, egli si impegnò nell'Opera dei Congressi e quando, nel 1905, assunse la presidenza dell'Unione Popolare egli fu attratto dal nuovo progetto di concreta carità sociale e politica che animava il mondo cattolico nell'epoca di Leone XIII. Quando nel 1989 egli concepì l'idea di una "Unione cattolica per gli studi sociali"; quando fondò nel 1893 la "Rivista internazionale di Scienze sociali"; quando nel 1899 pensò ad una "Società cattolica italiana per gli studi scientifici", egli dimostrò di considerare il messaggio sociale del Vangelo non estraneo al sapere scientifico, anzi desideroso di incontrarlo nella sua autonomia per animarlo ed orientarlo.

Non può sfuggire che le date da noi qui ricordate a proposito dell'impegno del Toniolo ruotano tutte attorno al 1891, quando Leone XIII pubblicò la Rerum novarum. Il magistero sociale aveva bisogno della ricerca scientifica perché il Vangelo potesse incontrare le problematiche storiche in cui gli uomini vivono. Nello stesso tempo il magistero sociale orientava la ricerca scientifica stessa, aprendola alla dimensione soprannaturale, da cui è distinta ma non separata.

La Aeterni patris va collocata in questo quadro complesso ed articolato di una Chiesa che vuole presentare la fede cristiana come matrice di cultura e nello stesso tempo come anima dell'azione concreta a servizio del bene dell'uomo, come carità della cultura e come cultura della carità.

Leone XIII non si limitò ad affrontare secondo i canoni tradizionali le questioni sociali del suo tempo. Egli fondò la moderna Dottrina sociale della Chiesa. La inserì in un quadro organico e complesso di filosofia e cultura cristiana. La volle collegare con le scienze sociali, di cui promosse lo studio dal punto di vista cristiano. La intese come radicata nel Vangelo e nella tradizione, ma nello stesso tempo attenta ai segni dei tempi, tra cui egli annoverava il divampare della questione sociale.

La intese, già allora, come evangelizzazione in quanto era conscio di doversi occupare di queste cose in virtù del suo mandato apostolico.

  

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