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 Pontifical Council for the Pastoral Care of Migrants and Itinerant People

People on the Move - N° 91-92, April - August 2003, p.

“La parola, ma per la cosa. Non problemi ma fatti”

(predicare a se stessi)

 

di Don Giuseppe De LUCA

presentato da S.E. Mons. Agostino MARCHETTO

Fedeli, nella nostra Rivista, pure alla dimensione spirituale, alla storia della pietà – come la definiva De Luca – legata all’itinere, presentiamo questa volta un suo intervento che estraiamo da “L’annuario del Parroco (1955-1962)” ripubblicato nel 1994, a Roma, dalle Edizioni di Storia e Letteratura.

Il Nostro ci riconduce all’uomo interiore e al Maestro pure interiore, (di agostiniana memoria a lui carissima). L’Autore ci riporta, dunque, alla sorgente del nostro essere ed agire, alla Parola di Dio, all’Onnipotenza di Dio, cioè in atto di creare. Scrivere, poi, espressione della nostra interiorità è come fare il chirurgo e nessuno fa il dilettante chirurgo. 

La parola è, dev’essere, così, un segno della cosa o è un tradimento, e la trattazione degli argomenti dovrà basarsi sui fatti, oltre le “problematiche”, come abbiamo l’abitudine di dire oggi. Le teorie sono cioè poste a prova della pratica. Bisogna venire al pratico (ed è vero altresì per i nostri Documenti…). Ecco l’invito che ci fa qui don De Luca e ce n’è bisogno, senza dimenticare naturalmente il pensiero, che, alla lunga, dirige i nostri passi e muove le volontà sul cammino della pace. De Luca conclude: “bisognerebbe essere santi”, e pensa all’“amore che va più in lá…”, “t’ anima tutto, ti vuole tutto, è forte come la morte. Così sarai l’amico di Gesù, l’amico che Gesù ama riamato”. Siamo all’essenza del Cristianesimo.

Buona lettura!

Avvertenza.

Dal mio quadernino di “prediche a me stesso” ne stacco qualcheduna, e nettandola degli accenni troppo intimi, personali, sgradevoli, la stampo quassù nella speranza che, pulita a codesto modo e preparata in bianco, non abbia tuttavia a perdere di verità né di sapore. Non è detto che, in noi, quel che c’è di più vero sia sempre meno presentabile, ancorché sia quel che attrae maggiormente scrittori e lettori. Non è vero che, tolto da noi il peccato, non ci rimane più nulla di vivo. E’ vero in parte, magari in molta parte, ma tutto vero non è. Lutero aveva torto; il peccato d’origine ci ha impiagati, non ci ha uccisi.

Anch’io, ho, dunque, dei pensieri buoni, miei cari confratelli; sento anch’io nascere in me ogni attimo l’ambasciata di quel che di cattivo faccio e sopporto. La presenza mia a me stesso è compensata dalla presenza di Dio, e il peso stesso, talmente sconsolato, della mia carne viene alleviato da Gesù, che è Dio come Dio ma è anche – ne sia ringraziato in eterno – uomo come me.

1. La parola, ma per la cosa.

Tu, tu che da anni scrivi, e scrivi da mane e sera, non puoi ignorare che quando un uomo sta attento unicamente alle parole, alle molte parole, di natura sua si rivela un essere inferiore, forse anche deteriore, e, per ciò che riguarda i valori spirituali, vale a dire i più preziosi, diviene con facilità estrema una specie di barattiere e di frodolento.      

Da un’osservazione del genere di questa, tu riverito signor me stesso, risalirai più su, a una riflessione di natura molto diversa e di conseguenze tanto più serie. Sei sacerdote; orbene, un sacerdote, anche se non nel colmo e nel pieno del sacerdozio, in virtù del sacramento stesso dell’ordine sacro è ministro della parola: della parola di Dio, certo, non della sua di uomo (non ci mancherebbe altro!). Qualora tu volessi ritagliarti, di sulla parola di Dio, un vestitino di vanità per la tua grama nudezza, sta attento, la parola di Dio lì per lì ti si cambia in una camicia di Nesso, che ti farà letteralmente scontorcere e delineare.

Sii, dunque, ministro della parola di Dio. La parola di Dio è l’onnipotenza di Dio in atto di creare: dixit et facta sunt, ecco il ritornello del primo capitolo della Genesi. Ed è, la stessa parola di Dio, folgore che incenerisce. Sulle tue labbra, invece, la parola di Dio diventa un’acqua tiepida che fa vomitare. Detta da te, lascia il tempo che trova. Soprattutto annoia. Alla messa domenicale, appena tu ti volti a predicare, la gente corruga la fronte e, non potendo scapparsene con onore, si raccomanda a Dio. Sul giornale comparisce la tua firma, e l’onesto lettore volta subito pagina.

Non vorrai dire che tutto questo accade per mancanza in te d’arte oratoria, per deficienza che patisci di buona letteratura. Se dici così, ti tradisci: vorresti fare il letterato dilettante. Specie noi preti, un certo debole per la letteratura l’abbiam sempre sentito, ignorando che quando è letteratura di quella buona, di quella vera, c’è poco da goderne. Scrivere è come fare il chirurgo e nessuno fa il dilettante chirurgo.

Quand’anche avessi letteratura e oratoria in abbondanza, maschereresti il male, non lo elimineresti. Di fatto, oratore di cartello, di quelli che ricorrono a trovate pubblicitarie o buffonesche, terresti legata l’attenzione del pubblico a te, non però a Dio. Ti faresti un bel nome, non convertiresti un’anima sola. Determineresti sommovimenti ciclonici di opinione, non uno si pentirebbe di un peccato segreto. Solleveresti, nuovo Archimede, il mondo sulle leve della tua parola, non toccheresti un cuore.

No, non è mancanza d’arte oratoria quella che, quando tu parli e scrivi, annoia mortalmente gli ascoltatori, li estrania o stranisce. E’ la mancanza di Dio, è la mancanza dell’anima tua: in quello che tu snoccioli come parola di Dio, non c’è Dio, non c’è anima.

A furia di esprimerti con quel tono enfatico, generico e piuttosto goffo, a furia di spararle grosse in termini vaghi e gridati, tu ti persuadi che tanto è farle, le cose, quanto è dirle, e così finisce che alla lunga pigli arie ispirate, toni profetici, atteggiamenti perentorii mal dissimilati in formule modeste, e fai tanta pena e porti tanta confusione fra mezzo alla gente umile, discreta, concreta, che sta sotto il pondus diei et aestus, e ci sta in silenzio, senza osare nemmeno di levar gli occhi in alto a Dio.

La parola o è un segno della cosa o è un tradimento. La parola di Dio fa le cose, è una verità che crea il fatto: verum, factum. La tua parola, se tu sei figlio di Dio, soprattutto se sei (come sei) ministro della sua parola, dev’essere a sua volta segno che già in te ha operato quello che vuoi operare in altri. Deve avere un accento di verità psicologica, oltre che un contenuto di verità logica; or l’accento di verità psicologica non da altro è dato se non dal fatto che tu credi a quello che dici. Chi crede in quello che dice, non alza la voce, non dà in ismanie gesticolanti, non mette il campo a rumore, ma fa, fa nel silenzio, nel nascondimento, nell’umiltà più assoluta. Solo chi fa, parla con reale efficacia. La parola di Dio, che sul labbro di Dio è creatrice, perché sia riconosciuta per parola di Dio anche sul labbro tuo, deve rivelarsi creatrice intanto e per prima in te: deve aver fatto in te, ciò che tu vuoi che faccia negli altri.

Se non la dài tu questa testimonianza, come presumere che gliela diano gli altri?

Elementarissima osservazione, ma è la chiave di quella mancanza di ascolto che tu deplori nei tuoi ascoltatori e lettori. E’ assolutamente impossibile che, quando uno parla con sincerità, non sia ascoltato, tanto più che il sacerdote non racconta frottole né dice cose, magari anche bellissime, ma soltanto umane. Che cosa importa, a un uomo, Cesare e Platone, Omero e Dante, la scienza e l’arte, la gloria e la bellezza, se poi vien la morte, e prima della morte il dolore e l’angoscia? Che cosa gl’importa tutto, se nulla quaggiù lo contenta? Or tu, sacerdote mio, tu parli della sola cosa che gl’importa, e nessuno ti ascolta: è possibile?

Non sempre, è vero, non sempre la colpa risale a te; i profeti stessi si dolevano che non est qui recogitet corde (Isaia, 57, 1), e se ne doleva Dio in persona. Senza dubbio una colpa c’è in coloro che ci ascoltano, ma tu ora stai riflettendo su di te e non su di loro, predichi a te e non a loro: pensa a quel che di colpa è in te. La prima colpa è in te, se le parole tue sono altrettante cicale scoppiate, “misere spoglie” di parole e non parole di vita.

Perché le tue parole diano vita, una cosa si richiede, quale? Ma è chiaro, si richiede che siano vive loro. Quando tu conducessi davvero una vita di cristiano autentico, una vita di sacerdote nel significato pieno della parola, le parole tue sarebbero tutte vive di vita cristiana, della vita che Gesù vive in te. Solo chi teme il denaro più del veleno, chi è povero non agramente e per forza ma per una elezione costante e amorosa, parla della povertà con verità: verità di fondo, verità di tono. Solo chi scansa la vanità come un cattivo odore letteralmente insopportabile, parla con visibile verità di nascondimento, di fuga del mondo, di amore del disprezzo. Solo chi trepida del continuo e trema, letteralmente trema, della salvezza dell’anima propria, dirà con la necessaria decisione in che modo bisogna eliminar subito, in noi e d’intorno a noi, quanto anche di lontano potrebbe offendere il senso morale degli uomini, scandalizzare i semplici, riuscire di cattivo esempio ai piccoli. Solo chi sa d’esperienza propria quanto silenzio occorra perché attecchisca nel cuore profondo una parola sola, parla con convinzione della meditazione lenta, laboriosa, persistente. Solo chi conosce la terribilità della sua luce, parla con riverenza ai cuori cristiani della maestà di Dio. Chi sa quanto sangue sia costata a Gesù la nostra redenzione, e quanti pochi ahimè accolgono la redenzione, non ciarla di riforme clamorose o di rivolgimenti in massa fra gli uomini. Chi conosce con quale severità crocifiggevano i Santi la loro carne, non si confonde tra coloro che agli uomini predicano, non Cristo e Cristo crocifisso, ma la conquista dei cosiddetti agi e dei sospirati comodi. Chi ogni giorno confessa nel pianto il proprio peccato, sempre rinascente e quasi inestirpabile, sa quanto è falsa l’allegria del mondo e se ne apparta.

O prete prete, se già agli occhi del mondo parere senza essere costituisce una colpa inespiabile, e prima che una colpa una sciocchezza da minus habens, che cosa sarà, dimmi, che cosa sarà agli occhi di Dio? E tu, tu cristiano, tu prete, tu che scrivi e scrivi e scrivi per la salvezza degli altri, e oggi scrivi finalmente per la tua, tu mi sai dire innanzi a quali occhi tu vivi? Quelli di Dio? Che dire, poi, degli occhi dei tuoi fratelli?

Alla presenza scoperta di Dio, al cospetto dei tuoi fratelli inermi e infermi, tu osi… (il resto si omette per delicatezza).

2. Non problemi, ma fatti

Al contrario di quanto a prima vista possa parere, a dispetto dell’universale invasamento e nonostante il vociferare continuo, sai qual’ è nei giorni che corrono, o amico sacerdote, una delle afflizioni peggiori? Forse l’istruzione, la cultura cosiddetta. Non certo in sé e per sé, ovviamente, perché ogni qualsiasi cognizione di natura sua è una cosa buona e ogni atto di conoscenza costituisce per definizione un filo essenziale di vita spirituale; bensì nella sua necessaria limitatezza e superficialità, quando si vuole che tutti sappiano tutto; di conseguenza nella sua faziosità. Nella “filosofia” che venne in seguito battezzata per “ragione”, quindi per “scienza”, e oggi la si definisce “cultura”, devi ravvisare l’ultima forma dell’umana idolatria, l’ultima religione barbarica, degnissima in tutto e per tutto dei primitivi più selvaggi e più feroci. Non si adora più il tuono né il virgulto, ci si prostra d’innanzi all’ultimo ritrovato medico, all’ultima scoperta meccanica, all’ultima formula fisica. Non più la religione cristiana, ritenuta un relitto di età oscure e l’ultima religione invalsa tra gli uomini, bensì il sapere salva l’uomo. A furia di sapere e soltanto di sapere, si è quello che si è nati ad essere, si diviene quello che si è destinati a divenire.

Chi per uso suo e dei simili suoi si pasce di luoghi comuni, non farà che decantare e moltiplicare enciclopedie e celebrare scuole. Sta di fatto che al di fuori delle prime scuole e delle scuole superiori di pura ricerca, le così dette scuole medie (o meglio intermedie) si sono ridotte a una fabbrica spaventevole di esseri innocui e tuttavia paurosi; non tolgono codeste scuole l’ignoranza, non danno la scienza, solamente “conferenziano” ingenti masse amorfe di ignoranti laureati, determinano un’alta marca di analfabeti che sanno compitare, non leggere, e osano scrivere. Sta di fatto che al lavoro dei campi e delle officine, ai commerci e alle industrie, agli studi e alle arti vengono sottratti ogni giorno di più elementi preziosi, i quali premono e urgono poi negl’impieghi, soprattutto di stato. Tra le infermità più angustiose dello spirito contemporaneo deve annoverarsi quella sorta di spossatezza, per cui coloro che in antico furono schiavi, e ieri si toglievano di mezzo allogandosi in professioni d’ozio, oggi aspirano all’impiego statale. Non saprebbero vivere senza una sinecura, senza una “assicurazione”, et quidem sulla vita. Vogliono come una sponda, una balaustra, per non cadere nel vuoto; vogliono la certezza del pane quotidiano al minor prezzo.

Lascia ora da un canto simili considerazioni d’ordine sociale, vieni al pratico. Quante volte, in fatto non di sola predicazione ma soprattutto di vita cristiana (della vita cristiana tua), tu ti appaghi di “cultura”, di “problemi”, di “letture”, senza mai venir al sodo d’una buona azione? Ricchissimo di libri e magari anche di idee, sia pure di riporto e di rimorchio, tu sei poverissimo di fatti.

E ti spiego. Se tu, invece di procurarti da mangiare, raccogliessi centomila volumi sugli alimenti e sulle bevande, sulle cucine e sulle cantine, sulle trattorie e sulle osterie …, tu senza dubbio ne sapresti un sacco e una sporta, non sapresti però l’unica cosa necessaria a sapersi: come fare e cosa fare perché tu abbia, alla data ora, un boccone da mangiare.

Hai una biblioteca fornita, hai una testa gremita d’idee che magari ci stanno strette, come in una pigna, ma ci stanno: bene o male e a conti fatti, dimmi tu che cristiano sei, come vivi, che fai. Conosci la Bibbia e gli studi biblici; i Padri e la patristica; la liturgia e i liturgisti, non esclusi i rubricisti; la storia ecclesiastica, nonché la geografia ecclesiastica; il diritto e le costumanze, la teologia, dall’apologetica all’ascetica, dalla filosofia religiosa alla mistica. Che cosa non sai tu? Sei la fenice degl’ingegni, l’oracolo della terra, un portento un vero portento. Tu sai tutto; eppure, anche soltanto a vederti, così bello grasso e tondo, lucido e schiumante di buona salute, nessuno, letteralmente nessuno ti piglierebbe per un cristiano autentico, di razza buona. Prepotente e avido, vano e smanioso, acido e vendicativo, fai quel che ti pare senza che ti prema un fico secco degli altri e della loro anima. Contemplatore eterno e ammiratore instancabile di te stesso, sei un uomo allo stato grezzo e di natura; sei un uomo come un altro, come centomila altri, né più né meno. Al cristianesimo, a cui non chiedi la tua salvezza eterna, hai chiesto e devi tutti i tuoi successi, forse i tuoi agi. Col sangue di Cristo, ti ci sei fatta una posizione eccellente. Non fossi stato prete, dimmi tu dove e che cosa saresti: non staresti di certo dove sei e saresti un omettino qualsiasi da quattro soldi, molto dozzinale. Poniamo che, invece di ragionare e scrivere su temi cristiani, trattassi temi differenti, ti starebbe a sentire nessuno? Bastasse, ma quasi che a tanto sdottorare sopra la cultura religiosa ancora non ti venisse fatto di saziare appieno la tua insaziabile vanità, tu hai il torto di sfoggiare altra cultura, tutta la cultura; non sei, che si sappia, cultore e professore di nulla, ciò nonostante scrivi di tutto, e scrivi scrivi scrivi. Scrivi di Dante e scrivi di Beatrice, scrivi di poesia e scrivi di prosa, scrivi di arti belle e scrivi di erudizione, scrivi di storia e scrivi di geografia. Non ti avvedi, pazzerellone tragico che non sei altro, non ti avvedi che già da questo solo tu porgi a chi non ti vuol bene un sintomo incontrovertibile della tua leggerezza? Nessuno al mondo ha mai potuto parlar di tutto: tu parli di tutto, anzi ne scrivi.

Ma, dici tu a te stesso, ma questo, questo per l’appunto, oggi vuole il mondo; e io, non già per contentarlo bensì per salvarlo, debbo seguirlo anche in questo. Sbagli. Lo sai tu cosa veramente richiede da te Iddio e richiedono tutti, per salvare te stesso e con te gli altri? Lo sai? Poco, ben poco, un’inezia in confronto alla sterminatezza e smisuratezza di tanta tua bravura e cultura. L’anima tua non la salvi a botta di titoli; tu non entri in paradiso così come si vince un concorso, premettendo una serie di pubblicazioni; in paradiso tu entri unicamente a patto d’essere cristiano, e questo è tutto. Ma il dovere mio, tu replichi, il dovere mio è d’essere scrittore. Io sono, tu affermi, io sono uno scrittore cattolico. Amico mio bello (diciamo così ironicamente), amico mio bello, ti rispondo che il tuo primo dovere è d’essere cristiano, d’essere un buon cristiano, d’essere un cattolico di vita integra, di vita austera.

Quel mestiere e quell’arte che tu eserciti con tanto accanimento è una parte almeno del tuo dovere, non è tutto il tuo dovere. Gli ambiziosi del mondo puntano sulla riuscita, come sul loro paradiso unico e vero; ma tu che sai quanto più su stia il paradiso, tu che sai come non ci si arriva per le vie dell’umanità riuscita, invece di far tanto il letterato, invece di darti tante arie, perché alla fine non fai il cristiano, non fai il prete?

3. Bisognerebbe essere santi

Ogni qualvolta tu devi pur giustificare in qualche maniera la tua scarsità d’amore, di solito ne esci in una frase come questa: “Bisognerebbe essere santi”; e le volte non sono poche, son tante e sono di sempre. “Il cristiano non è necessariamente un asceta, tu dici, né il prete un monaco; il monaco stesso non è un eremita. E’ dovere sociale presentarsi, non tanto con la barba ben rasa (è educazione), ma ben vestito, bello grasso e fresco, distribuir sorrisi e saper stare al mondo. Se oggi venisse Gesù, andrebbe comodamente anche lui in auto di lusso. Sono le esigenze dell’apostolato, oggi”. Così tu dici; anzi, da quel furbacchione che sei, nemmeno lo dici, stai attentissimo e in guardia persino a pensarlo: fai a quel modo come per istinto, tacitamente. Quando hai da far bene, parli e non fai; quando da far male o meno bene, fai e stai zitto anche tra te e te. Discendiamo, in riprova, all’uno o all’altro particolare, parlando non obliquamente e lividamente, ma nettamente, rettamente, gli occhi negli occhi.

Tu sai che la vanità, sopra tutto in un uomo di chiesa, quando oltrepassa i regolamentari e consentiti limiti della buona convenienza, non può più ritenersi a tutto rigore scevra di colpa, e non va senza scandalo, scandalo notevole, eppure, tu alla vanità inclini e indulgi senza farci la minima attenzione, senza la più elementare cautela. Ti atteggi nelle pose più lusinghiere, ti lasci fotografare con vera passione come se fossi un paesaggio famoso o un’opera celeberrima, ti esibisci a chi vuole, parli di te e di te fai parlare con incontenibile entusiasmo, sorridi beato a chi cade in ammirazione al solo vederti, vai dovunque tu hai tutto predisposto per giungere come se tu fossi una somma degnazione di Dio, ti circondi di persone e oggetti che ti servano da scenario, stimoli la gente a interrogarti e rispondi quasi che in te parlasse chi sa che diamine di oracolo. Veramente tu non serbi più un ricordo, il ricordo più pallido e lontano, dei tuoi peccati; e lo fai francamente da arcangelo mandato per un attimo da Dio misericordioso agli uomini. Certo, la maestà di Dio non ti vien mai presente, né la sua bontà, né la sua tenerezza d’amore. Cristo per te non sta sulla croce, crocifisso; e il tuo paradiso sta in un negozio di gingilli deliziosi, in un mucchio di ninnoli così preziosi che a venderne uno solo sfameresti centinaia di fratelli, nel mirabolante trambusto d’una fiera di meschine vanità. Fosse gloria, quella che tu ami, tanto varrebbe; ma è vanagloria, come dir robuccia, miseriale. E quando per un puro caso te ne viene scrupolo, non te ne rammarichi; tu lo discacci, quello scrupolo, come se ti scoprissi indosso un insetto immondo, e ti senti a posto. “Bisognerebbe essere santi”, tu dici.

Tu sai che l’accumular danaro, importa assai spesso una tal quale venalità di spirito, voglio dire una certa facilità a chiudere un occhio, e se uno non basta, chiuderli tutti e due. Il danaro è come l’acqua, si raccoglie in basso e non si deposita se non al fondo. Transigi di qua, scantona di là, oggi un compromesso, domani una finzione, tu finisci per scivolare giù nella fossa orribile, dove la tua coscienza, accecata, imbavagliata, stremata, palpita nel buio e altro non può; soltanto arriva la giustizia di Dio. Se lì, in quel precipizio, l’anima tua non muore, è perché è immortale; non muore, ma potresti dir che vive? Quando sapessi comportarti con il danaro così come ti comporti con le bestie feroci, saresti salvo; invece lo vezzeggi, lo chiami, te lo tieni stretto stretto, te ne riempi i cassetti: inonda l’anima di gioia. Fai come quel cretino che, di questi giorni, ha rubato a Parigi una valigia da un’auto, e se l’è portata a casa, felicissimo. La stampa quotidiana ancora non ha riferito come la cosa sia finita, ma in quella valigia c’era un boa conscrictor lungo cinque metri. Così fai tu; nessuna meraviglia se alla fine il danaro ti prenderà, ti avvolgerà nelle sue spire, ti stritolerà. Tranne quei pochi servizi che solo può rendere col fornire il necessario a vivere, il danaro di natura sua non fa che danneggiare. Non seguirà mai Cristo, nudo sulla nuda croce, chi prima non si sia spogliato di ogni ricchezza, ancorché la più elementare. Come fai, si vorrebbe sapere, a correre dietro il danaro e dirti cristiano e prete? So bene quello che dici, dici che il danaro ti serve, non per te, ma per l’una o per l’altra opera buona, vittima anche tu del fanatismo dominante, secondo il quale si fa del bene più col danaro che con la povertà, e su questo bel fondamento si son costruiti veri mulini a vento di “opere”, le quali hanno ricoperto la faccia della terra come una fungaia, a rischio di formare la grande industria della carità. Carità la si chiama, ma dovrebbe chiamarsi elemosina. La carità è un’altra cosa. Quando la si dicesse elemosina, e non è altro, non giungerebbe a simili enormità. L’elemosina colma colui che la fa (se è un cuore gentile) di cristiano rossore, di umana compassione e sofferenza: come si fa a esser ricchi in presenza d’un povero? Non si è fratelli del pari? Il Padre non è uno solo? E può, un Padre così, tollerare di codeste cose? Tu invece, ti diletti e ti fai grande a riversare sul capo dei fratelli elemosine sopra elemosine, e suoni intorno la tromba, come un ciarlatano quando arriva sulla piazza; vuoi che lo sappiano tutti, dirami bollettini appositi, stampi albums fotografici. Non potresti, tanto meglio, tacere e dare? Non dare l’altrui e il superfluo, ma dare il tuo e il necessario? Perché no, dare te stesso? La prima carità da fare ai poveri, è d’essere poveri con loro anche noi, per amore loro e di Gesù. “Bisognerebbe essere un santo”, tu dici a tua scusa; ma è una scusa?

Sai benissimo che per una buona condotta cristiana l’austerità dei costumi non è di più ornamentale, una superfluità di lusso; è una necessità pura e semplice. L’esperienza ti ha insegnato che senza mortificazione e molta mortificazione tu non riesci a essere, non già perfetto, ma neppure e appena appena buono. Tu non potresti mai e poi mai, come crede il mondo, credere e dare a credere che buoni ci si nasce, e dunque non costa impegno, fatica, dolore; a nessun patto potresti gabellarti allegramente per un ottimo cristiano, per un galantuomo, per un gentiluomo, come in generale ci si suol definire e come tutti si presume d’essere correntemente; non potresti, senza insolenza sacrilega, se sei uomo di chiesa, erigerti per ciò stesso e per ciò solo a persona perfetta e addirittura a sant’uomo, atteggiandoti in conseguenza in pose “mistiche”, magari facendoti fotografare, e distribuendo ai tuoi più prossimi e cari quella fotografia con un: “Bella, non è vero? Serbala, caro, per amor mio, serbala, in ricordo”. Quel che il tuo sacerdozio esige di venerazione, tu per primo devi darglielo con la tua austerità. Che dico austerità? Tu, invece, metti anche tu le tue belle fotografie su per le pareti di casa, ti rimiri nell’una o nell’altra posa, spieghi agli amici dove, quando, perché, come stavi così e non invece colà. Sciagurato, sciagurato e sciocco che non sei altro, che cosa tu ci guadagni con questo, non si riesce a vedere. Intanto, siam tutti uomini, e chi più chi meno, siam tutti peccatori del pari; chi dunque ti rimira conciato a quel modo, non è meno sciagurato e sciocco di quanto sei tu, e non ti ammira di certo, quand’anche ne faccia le viste: o ci crede e t’invidia, o non ci crede e ti deride. Esistono pubblicazioni incredibili, nelle quali sono raccolte fotografie di ogni genere, tutte di e su uno scrittore; fotografie, intendiamoci, che soltanto lui poteva fornire. E codeste pubblicazioni si mandano in giro, come le réclames d’una carne in scatola o d’una polvere insetticida. Tu hai bisogno di una disciplina, una dura disciplina, se vuoi essere appena appena buono. Se guardi bene, tu forse non sei nemmeno onesto: passi sopra, con scandalosa trascuraggine, alle bugie con la scusa che le dici a buon fine, per accreditare persone, cose, situazioni prive di credito. Pur d’innalzare mastodontiche macchine e azionare propagande chiassose, non rispetti nulla e nessuno, peli e scortichi la gente con una freddezza feroce. In proposito, tu giungi sino a fingere una vita severa, quando invece tutti i comodi son tuoi, tutte le primizie e delizie ti attraggono, ti trastulli di qua e di là, ora al mare ora al monte, ora sulla neve ora nei climi tiepidi, ora con l’arte ora con lo sport, e scarrozzi in qua e in là compiaciuto, e ti adagi, e ti vòltoli, e ti affondi negli agi e negli ozii. Con tutto ciò ti chiami e ti fai chiamare cristiano, mentre Gesù non trovò disposte a fargli da guanciale nemmeno le pietre, per dormire la notte e non ebbe una tana, cercò ogni volta e non sempre trovò da mangiare il giorno, morì infine al bando di tutte le giustizie del mondo. Morì al bando della stessa giustizia di Dio, per mettersi al posto tuo, o svergognato cristiano che vorresti morire, invece, fradicio di piaceri e di onori; e pur di non soffrire, preferisci storditi a furia di droghe e di lenitivi. Sottrarti un comodo, viver disagiato, stentare, ti sembra inaudito. “Bisognerebbe essere un santo”, tu dici.

Nel corso della giornata e dei giorni, più d’una volta può anche accadere a te quel che una volta o l’altra accade a tutti, e accadde persino a don Abbondio: scatta una molla misteriosa, scocca un’ora segreta, ed èccoti tra capo e collo un di quei doveri in apparenza elementari, banali, da nulla, ma che ti chiede in quell’istante, per esser cristiano, né più né meno che un atto di eroismo. Devi affrontare, per la più stupida occorrenza, pel matrimonio più usuale, la bocca d’uno schioppo spianato contro di te. Guarda, amico mio, guarda che cosa ricorre molto più frequentemente di quanto tu non creda. Vincere certa tentazione, ti danneggia la salute. Far penitenza, ti sgomina la persona. Sostenere un malato, ti riduce uno straccio. Favorire il prossimo, t’immalinconisce. Obbedire a un superiore, ti inacidisce. Cedere, ti fa passare da scemo. Dare il passo agli altri, ti squalifica. Sollevare quel povero, ti mette alle strette. Addossarti una responsabilità, forse ti riduce alle estremità peggiori, persino può comprometterti. Non dire quella bugia, ti accusa e ti tradisce. Non chiudere un occhio con quel tale, ti priva di laute elargizioni, e tu come farai con le tue opere? Non andare, e non lasciarsi andare a quei convegni, farà tutti brontolarti dietro, che sei un ipocrita, un selvaggio, un ecclesiastico tetro, un profeta irsuto. Quando mai un cristiano, un prete, è tenuto a tanto? “Bisognerebbe essere un santo”, tu dici.

Non vorrei passare avanti, ma forse tu, pur d’essere adulato e celebrato più smaccatamente, e farti dare del grande scrittore di qua e del grande artista di là, ti circondi di gente indegna del tuo sacerdozio, così visibilmente indegna che tutti intorno a te (tutti, dico, nessuno escluso) li ritengono forse tizzoni d’inferno; tu invece, e tu solo, li elogi e li adorni e li incensi come se fossero altrettanti ceri pasquali. Quel che la piazza dà di men pulito e men sicuro, lo si trova spesso raccolto intorno a te: tutti ne sono ammorbati e corrucciati, per te non olent; nessuno se ne fida, tu ci vai a nozze. Sei l’ideale e l’idolo di chi poco crede e meno pratica. “Quello sì”, dicono di te costoro, “quello sì è un prete a modo: non esclude nessuno, piace a tutti”. Non pensi minimamente a quel che di te dicono i pochi, al solo vederti tra costoro in tutte le cose tue, persino nella chiesa dove tu celebri, negli uffici dove presti servizio, nelle occasioni più trepide e sacre del tuo ministero, nelle ore e nelle dimore che dovrebbero essere tutte e soltanto della tua anima e di Dio. Che vorrà dire questa tua estrema condiscenza, questa tua predilezione? Ma posso star sempre, tu ribatti, posso star sempre con la gente noiosa? “Bisognerebbe essere santi”.

Giù la maschera, amico; tanto, innanzi a Dio non serve, e non serve un gran che nemmeno innanzi agli uomini, i quali, per un giusto giudizio di Dio, han sempre goduto d’una vista eccellente quando si è trattato di scoprire i difetti d’un prete. Metti in regola i tuoi conti, dispone domui tuae quia morieris. Vedi, di là da quell’uscio è forse ad aspettare la morte, con il giudizio di Dio e l’eternità. Quei quattro stracci che tanto faticosamente hai messo insieme, li devi lasciare; e chi ti aiuterà nell’ora della morte, chi anche solo ti starà vicino?

4. Nudus profugit ab eis (Marco 14,52)

Sono i giorni della Passione di Gesù, e per quanto sconsiderato tu sia, per quanto vuoto di ogni dolcezza cristiana, lo senti anche tu che giorni sono … Rifletti, dunque, nel corso di questi giorni almeno, a quanto ami Gesù, e se lo ami davvero … guarda un poco più attentamente a come vanno le cose, laggiù nel tuo cuore. Spesso tu ti contenti di eseguire con esattezza scrupolosa il rito, specie se è rito pubblico e si svolge innanzi a un gran pubblico. Fai bene ad essere tanto esatto, in proposito. Ci sono certi sciamannati, i quali celebrano i riti sacri con una disinvoltura orrenda; senza dire di quei fedeli comodi, che non starebbero a pranzo in casa di amici con l’obbrobrioso abbandono, a cui si lasciano andare quando assistono a una funzione in chiesa. Anche peraltro a essere meticolosi, non è tutto, tu lo capisci. Fa conto che un medico viene quando tu sei malato, e ti visita con una portentosa delicatezza, con una minuzia da maniaco; dentro, tuttavia, è distratto e pensa, non so, all’ultima partita di calcio di domenica scorsa. Dimmi, non è vero che tutta quella ostentazione formale ti consolerebbe piuttosto poco, anzi ti offenderebbe? Facciamo un altro paragone. Un fidanzato, trattando la sua fidanzata, si prodiga in formole e gesti e atti e silenzi d’una eloquenza gentile, d’una intimità abbagliante; dentro, ahimè, pensa a un’altra. Che orrore, dì la verità, non ti farebbe, che anima di mascalzone non ti parrebbe! Tu non giungi a tanto, nel celebrare; ma se, durante il rito sacro, pensi di più a chi ti vede che non a quel che fai, ho paura che pure tu concluderai poco di buono, se non anche peccherai.

Ancora. Poniamo il caso che tu predichi, e predicando t’infervori, e piangi tu, piangono gli ascoltatori, tutti piangono, ed è una scena patetica da non si dire. Puoi andarne contento, senza dubbio. Ma poi tutto finisce lì, e in quella specie di fervore occasionale si consuma ogni tuo amore. Non accade lo stesso a un buon attore, a un cantore di teatro?

Ancora. Nel silenzio della tua camera, in un angolo della più remota cappella, a una determinata ora, tu ti raccogli, ti inginocchi, mediti sulla passione di Gesù, ti commuovi. Niente di più bello. Ma sta accorto, quando ti alzi, e vai altrove, a pranzo a letto, a passeggio, dove che sia, quando passi ad altro, insomma, che cosa ti riman nel cuore di quell’ora di preghiera, che cosa te ne porti con te?

Vedi, amico mio, vedi, starei per dire, anima mia, l’amore va più in là, l’amore è un’altra cosa. Non gli basta neppur questo, che tu metta a sua disposizione la tale e tale ora. L’amore è quella cosa che non soltanto non si distrae mai, ma ti distrae sempre, e ti distrae da tutto il resto. In tutto ciò che fai, se non c’è, lui o non è per lui, lui non vuole entrare e non ti fa entrare, o te ne richiama indietro a sé. Entra anche lui nel tuo sonno; e con quell’aria soave che in caso di pericolo prende per la circostanza, si “squaglia”, scomparisce, in realtà ti anima tutto, ti vuole tutto. L’anima è la luce del tuo corpo, l’amore è la luce della tua anima. Come d’una lanterna, il tuo pensiero non se ne distriga, mai. Il tuo cuore batte di qua e lo trova, batte di là e lo ritrova. Gli occhi ti rilucono di lui, più che del sole; se parli non parleresti mai d’altro, e se taci è perché ci pensi.

Al Signore, gli vuoi bene così? Non mi rispondere che codesto sarebbe amore sensibile. La scusa è prevista. Sta di fatto che i Santi l’avevano, le anime veramente buone lo hanno: che sono questi tuoi superiori disdegni? Altro è che la sensibilità non sia né debba essere la determinante né la risultante dell’amore, altro è che quando c’è l’amore, ancorché amore di Dio, la sensibilità non li risente. Potranno darsi periodi aridi; ma chi ama, si vede; altro che, se si vede! Nel caso nostro, poi, chi ama Dio e fa per davvero, sprigiona intorno a sé come una luce, riscalda quasi una casa, incendia un popolo. Un curato d’Ars chiamava attorno a sé turbe di popolo, non a vedere vanamente, bensì a confidarsi, confessarsi, comunicarsi. Tramutava i cuori.

Non ti scusare, dunque, con tanta spavalderia. Domandati perché il volto di Gesù non torna nel tuo cuore, nella tua fantasia, nei tuoi occhi, di per sé, fuori ora, non su comando esplicito e per regola o un proposito. Anche qui, una cosa è la disciplina necessaria nei giorni torpidi e torbidi, altra cosa è che tutto venga sempre da coazione, sforzo, violenza. L’amore di Gesù non è certo un amore terrestre, ma non gli è inferiore, gli è anzi superiore; superiore di tono di luce, di vibrazione interiore, di gioia, di dolore, di trepidità e intrepidità, di semplicità e astuzia, di candore e accortezza. “Forte come la morte” è l’amore, ha detto la sacra scrittura; e d’altra parte mai la vita è tanto vita come quando si ama. E proprio con Gesù, l’amore sarebbe quella certa cosa senza gioia e senza luce, come una specie di compito in classe dei bambini, come una rivista militare in piazza, come un dovere necessario ma un po’ noioso, come con certe vecchie mamme, con certi zii buoni ma brontoloni, con certi bambini stizzosi?

No, no, no il Signore Gesù è un’altra cosa; ad amarlo non ci si annoia, e se ci si annoia, non lo si ama o non è lui che si ama. Chissà chi e che cosa si ama, forse noi stessi… Oh lacrime, oh dolore. Gesù muore per te e tu, lì, ai piedi della croce, parlando di lui, pensi a te. Chiedi che una stilla del suo sangue ti spetri e ti rifaccia un altro. Fuggi, fuggi da tutto, fuggi da tutti, fuggi da te stesso. Fai come quel discepolo che lasciò ogni cosa in mano ai nemici di Gesù, di quel Gesù che forse amava (se no non l’avrebbe seguito, nella notte tra i nemici): et nudus profugit ab eis. Anche tu, quando pensi a te, diventi un nemico di Gesù; e da quel nemico che sei diventato, devi fuggire; fuggi anche da te, e fuggi in lui: spogliati di ogni cosa della terra e cerca il cielo negli occhi del tuo Signore. Solamente così sarai l’amico di Gesù, l’amico che Gesù ama riamato.
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