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 Pontifical Council for the Pastoral Care of Migrants and Itinerant People

People on the Move - N° 91-92, April - August 2003, p.269-272

La “Pacem in Terris” e i Migranti*

S.E. Mons. Agostino MARCHETTO

Segretario del Pontificio Consiglio

della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti

Raccordandosi alla 9ª sinfonia di Beethoven, un pubblicista ha denominata la “Pacem in Terris” la “sinfonia della pace”. Infatti si nota in essa un tema fondamentale, 4 movimenti ed un finale. Il tema torna per 9 volte, come un leitmotiv: la pace fra tutti i popoli esige la verità come fondamento, la giustizia come regola, l’amore come motore, la libertà come clima. Il tema accompagna ciascuna delle 4 parti che formano come i 4 movimenti della sinfonia: la pace nell’armonia delle persone tra loro; tra le persone e le comunità politiche; tra le diverse comunità politiche; tra le persone e i gruppi politici con le comunità umane.   

1. In questa sessione del Convegno celebrativo del quarantennio della Pacem in terris siamo chiamati ad una riflessione sul significato e sul ruolo dello Stato, seguendo le linee espresse con meticolosa attenzione, anche nei particolari, da quel documento pontificio. Allo stesso tempo, però, proprio i quaranta anni trascorsi ci chiedono di confrontare quel pensiero con quanto oggi è possibile rilevare in quel complesso di strutture, regole, e persone che dello Stato sono espressione, scrutando la realtà attraverso quella metodologia detta dei “segni dei tempi”, che per la prima volta entra in forza nei documenti pontifici.

Ciò che costituisce elemento di spiccata novità, nell’enciclica di Giovanni XXIII, è che in essa è stato recepito il modello di Stato frutto della teorizzazione e della riflessione più di recente elaborata. Parliamo cioè del modello dello Stato moderno, caratterizzato dall’essere Stato di diritto nella struttura, sociale nelle finalità, pluralista nella composizione, laico nell’ispirazione, retto dal principio democratico nel funzionamento delle sue diverse istituzioni.

Però, se è vero che recepire un tale modello di Stato moderno ha significato un procedere dottrinale da parte dell’insegnamento sociale della Chiesa, non possiamo dimenticare come questa visione abbia avuto un ruolo determinante anche nell’elaborazione e nella approvazione di documenti conciliari quali la Gaudium et spes, l’Apostolicam actuositatem  e la Dignitatis humanae. Un influsso, peraltro, già esercitato negli anni precedenti il Concilio, dal magistero di Pio XII con le sue riflessioni sulla trasformazione della concezione circa la natura e il ruolo dello Stato, o in relazione all’esercizio dell’autorità statale, in crescente presa di coscienza della dignità della persona umana. Ne sono esempio, in particolare modo, i Radiomessaggi del Natale 1942, sull’ordine internazionale, e del Natale 1944, sulla democrazia e l’ordine interno delle nazioni, ampiamente richiamati dalla Pacem in terris.

2. La prospettiva di Giovanni XXIII sul ruolo dello Stato, o come Egli ben dice: sulla «comunità giuridico-politica», appare orientata a chiarire – e per certi aspetti anche a determinare – i modi ed i tempi in cui l’esercizio delle diverse funzioni conferite alla pubblica Autorità, e più ampiamente esercitate dell’intero apparato statale, siano efficacemente orientate e razionalizzate in funzione del bene comune. Ed è per questo fondamentale, attraverso il riferimento alla storia, il richiamo alle due principali forme di Stato o modelli di esso: lo Stato assoluto e lo Stato di diritto.

Credo sia superfluo, rivolgendomi a studiosi ed esperti nel settore, richiamare a fondo le differenze, certo ben note, ma qui dobbiamo almeno richiamare quegli elementi essenziali, caratteristici delle due esperienze, che la Pacem in terris sottolinea con incredibile attualità.

Con il Sovrano, nel primo caso, veniva fatta coincidere l’autorità pubblica in ogni sua forma e manifestazione, evidentemente accompagnata da una ampia discrezionalità di azione e coazione, non priva di irregolarità e spesso di veri e propri arbítri. Era infatti il Sovrano assoluto autore, interprete e giudice di ogni norma, con un potere non limitato nei confronti dei sudditi, privi di garanzie e tutela nei confronti dell’Autorità. La forza, in altri termini, oltrepassava ogni diritto.

Dall’epoca moderna e ancor più nei processi della storia contemporanea si è invece visto un graduale modificarsi della convivenza tra gli uomini e una conseguente razionalizzazione delle attività umane che, come conseguenza, hanno ridefinito il rapporto tra l’Autorità e il diritto. Ecco, dunque, lo Stato di diritto al cui interno vige sovrano il principio della preminenza della legge, al cui comando anche l’Autorità lega il suo esercizio e subordina il suo imperio. Di qui la ricerca del consenso affidata ai meccanismi elettorali, agli organi rappresentativi, ma soprattutto - come ricorda Giovanni XXIII - al primato della persona e dei suoi diritti inalienabili. Chi è sottoposto all’Autorità e ben consapevole che le norme manifestano uno spiccato carattere di razionalità e quindi di utilità comune e garanzia del bene individuale e comune. L’esercizio dell’Autorità, pertanto, viene effettuato secondo compiti prestabiliti che garantiscono il rapporto tra poteri pubblici e persona e tra le persone all’interno della comunità, prevedendo anzitutto quei criteri di libera e solidale partecipazione alla gestione della cosa pubblica.

In questa visione, nello Stato di diritto non può mancare lo spazio, invalicabile, - e dobbiamo almeno ricordare questo aspetto - della sfera più intima della persona nella quale ognuno esprime i valori dello spirito e la propria identità di fede. Il riferimento, si comprende, è alla libertà religiosa, una sfera che, se lo Stato è chiamato a non invadere, richiede altresì garanzia di esercizio, pubblico e comunitario, da parte dei pubblici poteri.    

3. La maturazione dello Stato moderno è colta dalla Pacem in terris attraverso la constatazione di alcuni degli elementi e delle situazioni che lo caratterizzano, fino a diventare condizioni essenziali, se si vuole che l’Autorità sia concretamente a servizio della persona. Mi permetto qualche accenno, a mo’ d’esempio.

Un primo richiamo riguarda la democrazia, quale metodo di funzionamento che si esprime anzitutto mediante la divisione dei poteri, la rappresentanza elettiva, il riconoscimento che i membri della rispettiva comunità civile sono cittadini per il solo fatto di essere persone, uguali in dignità e pertanto in diritti. Certo questa visione dell’enciclica, permette di cogliere quanto oggi il concetto stesso di cittadinanza si sia ormai dilatato. E non mi riferisco solo alle conseguenze che producono i processi di integrazione sovrannazionale tra Stati, ma al fenomeno della mobilità umana in tutte le sue forme, che impone all’Autorità statale di riconoscere diritti e condizione giuridica a coloro che, per motivi economici, turistici, o più ampiamente umanitari, sono ad essa sottoposti pur non possedendo la tradizionale cittadinanza.   

Questo riferimento, che traggo dal quotidiano mio servizio, nella Curia Romana, nel Dicastero che si occupa della pastorale per i Migranti e gli Itineranti, consente di rilevare che lo Stato ha fatto del pluralismo un suo fattore costitutivo, poiché in esso convivono, con pari “diritti di cittadinanza” differenti legittime concezioni della persona, della vita, della religione e, non ultimo, della realtà socio-politica ed istituzionale cui è dato di esprimersi liberamente. Come pure possono manifestarsi ed operare liberamente tutte quelle forme di associazioni, organizzazioni e strutture, che, con le finalità più varie, si richiamano alle suddette concezioni, senza infrangere le leggi dello Stato.

Criterio regolatore di questo pluralismo resta dunque il rispetto dei limiti consentiti dalla ordinata convivenza e, cioè, l’osservanza delle regole comuni, accompagnate dalla stima reciproca, e da una sana tolleranza, che non vuol dire relativismo in religione. Tutto perché i diritti ed i doveri di ognuno siano armonizzati con i diritti e i doveri altrui.

4. Siamo dunque chiamati a svolgere, con diverse competenze ed argomentazioni, alcune riflessioni sul come i presupposti tracciati dalla Pacem in terris, circa il ruolo dell’Autorità all’interno della comunità giuridico-politica, siano effettivamente presenti nel panorama odierno e quali siano le insidie ad una loro piena realizzazione. E credo che in questo nostro procedere, non possiamo non leggere, come fece quaranta anni or sono Giovanni XXIII, i “segni dei tempi”, le nuove situazioni e le crescenti attese che ruotano intorno alla natura ed alla funzione dello Stato e del governo della cosa pubblica.

I fatti di queste settimane, le immagini e, soprattutto, la condizione sofferta da milioni di civili per una situazione di guerra, hanno riportato alla mente di ognuno di noi quanto l’idea della “pace sulla terra” sia legata anche alla concezione dello Stato e del suo funzionamento.

Potremo interrogarci – sono solo alcune possibili tracce di riflessione – su quale sia il ruolo della democrazia all’interno di un Paese; su cosa significhi il rispetto dei diritti fondamentali di ogni persona e di ogni popolo, ad iniziare da quelli, essenziali, da cui dipende lo stesso diritto alla vita. Potremo pure chiederci per esempio se il concetto di sicurezza nazionale che ogni Stato è chiamato a garantire per il bene dei suoi cittadini, possa applicarsi al di fuori del proprio territorio.        

È questo - penso - il compito dei nostri lavori, come ci ricorda la Pacem in terris, per cercare di «ricomporre i rapporti della convivenza nella verità, nella giustizia, nell’amore, nella libertà. […]. Compito nobilissimo qual è quello di attuare la vera pace nell’ordine stabilito da Dio» (N. 59).
 

* Testo pronunciato all’inizio della II sessione – presieduta dall’Ecc.mo Mons. Marchetto – del Convegno “A quarant’anni dalla Pacem in Terris: i nuovi segni dei tempi”, svoltosi nei giorni 10 e 11 aprile 2003 presso la Pontificia Università Lateranense. Si trattava della Sessione giuridica dell’incontro, circa: “La democrazia e le istituzioni”.

Il riferimento particolare al diritto di cittadinanza, questione legata in modo speciale ai soggetti della sollecitudine pastorale di questo Dicastero, si riferisce al n. 12 dell’enciclica in parola.

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