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 Pontifical Council for the Pastoral Care of Migrants and Itinerant People

People on the Move - N° 91-92, April - August 2003, p. 277-285

L'Europa e gli altri:

dall'accoglienza alla solidarietà*

 

Prof. Stefano ZAMAGNI

Presidente ICMC,

Facoltà dÂ’Economia, Università di Bologna

1. Che il fenomeno migratorio sia un tema ad alto potenziale di conflittualità che tende a dividere, in modo spesso radicale, l'opinione pubblica, e di conseguenza le forze politiche, è cosa nota ormai da tempo. In particolare, è noto che quella degli immigrati rappresenta oggi, nelle nostre società occidentali, l'unica categoria di soggetti richiesti e indesiderati, ad un tempo. L'Eurobarometro, da almeno quattro/cinque anni, segnala con precisione questo contraddittorio atteggiamento degli europei nei confronti dell'immigrazione. Per un verso, vi sono segmenti di popolazione che chiedono di ampliare i flussi in arrivo di lavoratori migranti, consapevoli come sono dei benefici che ne deriverebbero alla flessibilità del mercato europeo del lavoro e alla gestione delle finanze pubbliche. (Invero, l'invecchiamento delle popolazioni europee ha ormai reso la struttura attuale delle entrate e uscite dei nostri sistemi di sicurezza sociale non più sostenibile). Per l'altro verso, vi sono altri segmenti della popolazione che nutrono timori vari; tre in modo specifico, e cioè che gli immigrati: a) causano disoccupazione a carico dei lavoratori dei paesi ospitanti; b) abusano dei trasferimenti assicurati dai nostri sistemi di welfare. (In effetti, l'evidenza disponibile conferma che gli immigrati ricevono servizi di welfare in misura proporzionalmente maggiore rispetto alle popolazioni native. Come già J.S.Mill, aveva scritto attorno alla metà dell'Ottocento: "E' vano pensare che tutte le bocche che l'aumento della popolazione fa venire in esistenza trascinino con sé braccia. Le nuove bocche chiedono altrettanto cibo delle vecchie, ma le loro mani non producono gli stessi ammontari delle vecchie"); c) hanno già superato il punto di saturazione, così da mettere a repentaglio la coesione sociale dei paesi ospitanti per l'impossibilità di attuare equilibrate politiche di integrazione culturale. I recenti esiti elettorali in Austria, Belgio, Danimarca, Francia, Olanda e il lungo dibattito che ha portato all'approvazione della legge Bossi­-Fini sembrano indicare che la seconda tipologia di cittadini sia oggi quella in maggioranza numerica.

Come Tito Boeri ha scritto ( Immigrazione e Stato Sociale in Europa, Milano, Egea, 2002), si è consolidato nell'Unione Europea un vero e proprio circolo vizioso: la gente manifesta un atteggiamento ostile nei confronti degli immigrati; ciò induce i governanti, sempre alla ricerca del consenso politico, a restringere gli ingressi o a renderli inutilmente difficoltosi; a loro volta, politiche di questo genere vanno ad accrescere l'immigrazione illegale - si stima che vi sia uno stock di Il milioni di migranti irregolari nel mondo, gran parte dei quali si affida a trafficanti il cui giro d'affari ha già superato quello delle droghe - ; infine, il senso di insicurezza che l'illegalità va diffondendo pare confermare quelle percezioni di ostilità, le quali tendono così ad autoalimentarsi.

Come spezzare un tale circolo vizioso, i cui effetti devastanti mettono a repentaglio la causa sia della pace civile sia del rispetto dei diritti fondamentali dell'uomo? Cosa è stato fatto dall'Unione Europea, nel corso del 2001, in vista di una politica europea dell'immigrazione e dell'asilo?

2. Per rispondere, consideriamo dapprima, in grande sintesi, le principali tappe di questo faticoso cammino verso una politica migratoria europea capace di gestire, in modo unitario le pressioni provenienti dai paesi terzi, anziché limitarsi - come è finora avvenuto - ad affidare ai singoli paesi la lotta di ultima istanza contro i clandestini.

I primi passi recano la data del 1995, quando con la Convenzione di Dublino, gli Stati membri si accordano sul riconoscimento dello status di rifugiato politico. L'accordo avrebbe dovuto portare una certa armonizzazione delle legislazioni nazionali, il che non è accaduto, anche se è rimasto acquisito il principio base secondo cui chi chiede asilo non deve essere autorizzato ad andare alla ricerca del migliore "offerente". La ragione principale di tale insuccesso è che, in conseguenza del Trattato di Maastricht (1992), è prevalso l'approccio intergovernativo, dal momento che la politica riguardante l'asilo e l'immigrazione è rimasta tra le "materie di interesse comune". Un decisivo balzo in avanti si realizza con il Trattato di Amsterdam (1997): la materia di cui ci occupiamo viene demandata alle istituzioni europea: è il Consiglio a decidere all'unanimità, "dopo aver consultato il Parlamento europeo". Ma è solo con il Vertice di Tampere (1999) che si giunge all'accoglimento del principio in base al quale è necessario giungere, in tempi rapidi, ad una politica comune dell'UE sull'immigrazione e l'asilo, attraverso la definizione del cosiddetto "spazio europeo". Il Trattato di Nizza (2000) recepisce tale indirizzo strategico, estendendo la procedura di codecisione oltre gli accordi per i visti, per includervi talune questioni giuridiche transfrontaliere, escludendo tuttavia gli aspetti relativi al diritto familiare.

Nel corso del 2001, i momenti più significativi ai fini del nostro discorso sono stati i seguenti. Nei giorni 27-28 settembre si riunisce a Bruxelles il Consiglio per gli Affari Interni e della giustizia per affrontare specificamente il tema dei ricongiungimenti familiari. Nonostante le forti aspettative, le delegazioni restano più che mai divise sia sulla questione delle coppie non sposate sia su quella dei limiti di età. In particolare, è la Germania a porre, di fatto, il veto: nessuna regola europea dovrà essere resa esecutiva prima che i singoli paesi abbiano approvato le rispettive leggi nazionali. Nel mese successivo, nei giorni 16 e 17, si tiene sempre a Bruxelles la Conferenza della Presidenza di turno (belga) per preparare il summit di Laeken. Il ricordo, ancora fresco, dei tragici fatti dell'undici settembre distoglie l'attenzione dei partecipanti dalla problematica complessiva per concentrarla sui modi di combattere la criminalità e il terrorismo associati al fenomeno migratorio. Ovviamente, viene ribadita l'intenzione comune di non voler assolutamente arrivare alla "fortezza Europea", una dichiarazione che sa tanto di "excusatio non petita". Di un certo interesse, invece, è la Conferenza dei Ministri a Bruxelles, nei giorni 5 e 6 novembre dedicata al problema Euro­Mediterraneo. L'idea che viene discussa e, alla fine, sottoscritta è quella di co-sviluppo: si tratta di valorizzare il ruolo degli stessi migranti nel processo di integrazione nel paese ospitante, chiamando a concorrere, per la realizzazione di tale obiettivo, le varie espressioni della società civile. Infine, il Summit di Laeken, del dicembre 2001, si chiude con la richiesta formale, avanzata alla Commissione Europea, di presentare, entro la fine di aprile 2002, una proposta globale di riforma dell'intera materia migratoria e ciò in vista della riforma del Trattato prevista per il 2004.

Questa è la situazione al momento in cui scriviamo. Cosa c'è alla base delle incertezze e delle incongruenze che tuttora ritardano l'avvio definitivo di una politica europea dell'immigrazione? C'è che, nonostante le apparenze, il processo legislativo non è affatto mutato dal 1995 ad oggi. Sono ancora i governi degli Stati membri a detenere il controllo: la Commissione redige le direttive che poi il Parlamento esamina, ma è quasi sempre il Consiglio a decidere. Ora, non c'è bisogno di essere esperti di questioni giuridico-istituzionali per comprendere che la cooperazione fra gli Stati membri, per quanto utile e significativa, non potrà mai surrogare una politica, con la relativa legislazione, in grado di rispecchiare le esigenze reali dell'Unione in materia di immigrazione - una politica cioè soggetta alla procedura di codecisione, e in grado di coinvolgere entrambi i rami del legislativo, il Parlamento e il Consiglio. Resta il fatto che le attuali politiche migratorie sono, per la gran parte, inefficaci e controproducenti. Sono inefficaci perché si limitano a correggere gli effetti indesiderati delle migrazioni, senza intaccare le cause. Un solo esempio per chiarire il punto. E' noto che i grandi progetti di sviluppo finanziati dagli organismi internazionali (Banca Mondiale, in primis) causano una sistematica espulsione di popolazione rurale dalla terra dove i progetti medesimi (dighe; oleodotti; autostrade; canali; ecc.) vengono realizzati. Si tratta dei cosiddetti Project Affected People (PAP): per la sola India, si è stimato che per il 1997 i Pap siano stati circa 21 milioni. E' dunque evidente che quando si vanno a finanziare progetti del genere non è possibile non tener conto dell'impatto sui flussi migratori che la realizzazione di quei progetti determina.

Le attuali politiche migratorie sono anche controproducenti e ciò nella misura in cui esse aumentano le situazioni di iniquità. Le pratiche in atto sono infatti discriminatorie: le restrizioni di vario tipo fanno sì che solamente coloro che sono in possesso di risorse adeguate possono sperare di lasciare il proprio paese. (E' stato stimato che occorrono 15.000 dollari perché un afgano possa arrivare in Australia). Non solo, ma le politiche oggi in atto stanno provocando una perdita di fiducia dei cittadini nei confronti della capacità dei pubblici poteri di governare il fenomeno. Perché spendere tanto denaro se poi coloro che non ottengono i permessi di asilo restano egualmente nel paese come irregolari?

3. Sorge spontanea la domanda: quali ostacoli si frappongono all'attuazione di una tale politica? Ne indico tre, quelli che giudico più seri. Il primo chiama in causa il processo di allargamento ad Est della frontiera dell'Unione: si tratta dei 10 paesi del Centro-Est Europa (PECO 10) candidati all'inclusione nell'Unione. Le stime del potenziale migratorio connesso con l'allargamento ad Est appaiono in un recente studio svolto per conto della Commissione e coordinato da T. Boeri e H. Brucker (2000). Le simulazioni dello studio indicano che il numero delle persone provenienti dai PECO-10 passerebbe dagli attuali 0,85 milioni a 3,9 milioni dopo l'allargamento. Un tale ammontare corrisponde all'l % della popolazione dei 15 paesi dell'UE. I flussi migratori nell'UE aumenterebbero, inizialmente, di 335.000 persone all'anno per poi stabilizzarsi intorno alle 150.000 unità annue. Come si nota, non si tratta certo di cifre preoccupanti, contrariamente a quanto non pochi addetti ai lavori da tempo temevano. C'è però un particolare che mette conto evidenziare: si stima che circa l'80% degli immigrati provenienti dai PECO-10 interesserà Germania e Austria. Questo spiega perché questi due paesi abbiano chiesto l'introduzione di un periodo transitorio di 5 o 7 anni, durante il quale i nuovi arrivati non potranno accedere al mercato del lavoro dell'UE. E spiega anche perché la Germania stia chiedendo che tale decisione venga riservata ai governi nazionali, mentre la Commissione ritiene che essa sia di sua propria competenza.

Il secondo ostacolo ha a che vedere con le conseguenze, temutissime nei paesi occidentali, del cosiddetto "effetto calamita" dei programmi di welfare. Si tratta della tendenza, più che comprensibile, da parte dei migranti ad emigrare verso Stati che offrono una più generosa copertura in termini di servizi di welfare - appunto, gli Stati calamita. Una indagine recente condotta dall'economista tedesco H. Sinn ha stimato in 2.300 dollari all'anno e per persona il costo medio per la inclusione degli immigrati nei programmi di welfare della Germania. Non è difficile cogliere le implicazioni di tale circostanza ai fini della attuazione di una politica comune europea dell'immigrazione e dell'asilo. Infatti, poiché i sistemi di welfare dei 15 paesi dell'UE sono ancora tra loro alquanto differenziati - soprattutto per ciò che concerne il segmento sanitario e quello pensionistico - si ha che l'inserimento di un immigrato comporta costi diversi a seconda del paese ospitante e a seconda del grado di copertura. Di qui la richiesta da parte degli Stati membri di gestirsi in proprio questo tipo di decisioni. Accade così che, in Germania, gli immigrati senza residenza permanente perdono il diritto a restare nel paese se dipendono dall'assistenza sociale. (Negli USA, la legge del 1996 nega ai non cittadini arrivati dopo il 1996, il diritto a ricevere la più parte delle prestazioni dell'assistenza pubblica). D'altro canto, vi sono paesi, come la Svezia, che non differenziano tra immigrati e nativi. La conseguenza è che in tale paese la spesa sociale per gli immigrati è, oggi, pari a circa il 50% dell'intera spesa sociale: eppure, gli immigrati rappresentano solamente l'11 % della popolazione autoctona. Non ci vuoI molto a capire come un simile stato di cose ponga un serio problema di sostenibilità finanziaria.

4. Infine, il terzo ostacolo di cui sopra si diceva concerne la diversità delle concezioni che i 15 paesi dell'UE mantengono a proposito del modello di integrazione degli immigrati nelle società ospitanti. C'è chi interpreta la nozione di integrazione nel senso di "piena eguaglianza", cioè come condizione nella quale a tutti indistintamente siano riconosciuti, e da subito, i diritti di piena cittadinanza. E c'è chi, all'opposto, interpreta l'integrazione in termini esclusivamente economici, considerando integrabile solamente l'immigrato che risulti economicamente utile: il cosiddetto modello "usa e getta" che giunge a suggerire, a livello pratico l'adozione di forme di immigrazione temporanea. Si riesce dunque a capire perché, in una situazione del genere, il progetto di una politica europea dell'immigrazione incontri difficoltà a spiccare il volo.

Preso atto che le nostre società tendono a diventare società di immigrazione e di emigrazione, come configurare il rapporto tra multiculturalità e identità? Vale a dire, fino a che punto può e deve spingersi una politica dell'identità (politics of identity) se si vuole che la pluralità delle culture presenti in un paese risulti compatibile con un ordine sociale garante della pace sociale e delle ragioni della libertà? Secondo, riconosciuto che lo scarto crescente tra cittadinanza economica e cittadinanza socio-politica dell'immigrato ha ormai raggiunto un livello non più in grado di assicurare la dignità della persona umana, cosa fare per conciliare l'inclusione economica dell'immigrato - l'inclusione cioè nel mercato del lavoro e nel sistema produttivo del paese ospitante - con la sua esclusione dai diritti sociali e politici? Terzo, se specifiche ragioni di principio, oltre che pratiche, sconsigliano riedizioni, più o meno aggiornate, sia del modello assimilazionista di marca francese, che tende a fare del diverso uno di noi, sia del modello della marginalizzazione degli immigrati (cioè della loro apartheid), sia ancora del modello dell'auto governo delle minoranze (il modello cioè della balcanizzazione della società), non resta che la via dell'integrazione dei nuovi arrivati nella società di accoglienza. Ma quale modello di integrazione si intende realizzare?

Quali principi basilari deve soddisfare un modello di integrazione che faccia propria la prospettiva interculturale, una prospettiva che - come si è sopra ricordato - rifiuta sia di prendere in considerazione solamente le differenze che separano gli immigrati dagli autoctoni per giungere a forme più o meno accentuate di balcanizzazione della società, sia l'esistenza di differenze significative tra gli uni e gli altri per giungere all'assimilazione più o meno esplicita e forzata? Detto in altro modo, quali principi devono essere posti a fondamento di una posizione che voglia assicurare a tutti il soddisfacimento dei diritti fondamentali dell'uomo e al tempo stesso garantire uno spazio pubblico in cui i soggetti portatori di una identità culturale diversa da quella del paese ospitante possano mettere a confronto le loro rispettive posizioni in modo pacifico e soprattutto possano giungere al consenso intorno ai limiti entro cui mantenerle? Mentre rinvio al mio saggio "Migrazioni, Multiculturalità e politiche dell'identità" (in C. Vigna e S. Zamagni, Identità e multiculturalismo, Milano, Vita e Pensiero, 2002) per un'ampia trattazione dell'argomento, mi limito qui "all'elenco" di tali principi.

Il primo è quello del primato della persona sia sullo Stato sia sulla comunità. Sulla primazia della persona rispetto allo Stato e alla comunità non c'è bisogno di spendere parole; si tratta di acquisizione ormai assodata, almeno nelle nostre società occidentali - anche se non sempre applicata nella pratica. E' la soggettività della persona il fondamento del rapporto comunitario, il quale va edificato o reinventato a partire da soggetti che sono capaci e liberi di scegliere e dunque capaci di assumersi la responsabilità del proprio destino. E' bensì vero che l'individuo isolato è pura astrazione e che, come si dirà tra breve, l'identità individuale non può prescindere dalla trama di rapporti che legano il singolo alla sua comunità. Ma il comune denominatore collettivo non riesce mai a definire pienamente la singola persona, la quale è pur sempre un insieme di attributi unici.

Al tempo stesso, però, la libertà - ed è questo il secondo principio - non è pienamente tale se non va oltre la mera autodeterminazione, il "fare quel che si vuole". Tale concezione è troppo gracile perché essa possa essere compatibile con lo statuto personalista. Infatti, la persona, a differenza dell'individuo, è definita anche dalla cultura in cui essa è cresciuta e nella quale essa sceglie di riconoscersi. Invero, ciò che è tipico della persona umana è la relazionalità, la quale postula che l'altro diventi un tu. La piena realizzazione dell'identità personale non può dunque limitarsi al semplice rispetto dell'altrui libertà, come afferma la posizione neo-liberale per la quale il vivere in comune è un'opzione. Sappiamo, infatti, che per ciascuno di noi non è affatto così. La scelta non è mai tra vivere in solitudine o vivere in società, ma tra vivere in una società sorretta da certe regole oppure da altre. E' dunque troppo poco, per la nozione forte di libertà, pensare ad una individualità che prescinde dalla relazione con lÂ’altro. Ecco perché le culture meritano tutela e riconoscimento anche a livello della sfera pubblica. Se è vero che lÂ’identità personale nasce dialogicamente come risposta alle nostre relazioni con gli altri, allora una società autenticamente rispettosa delle ragioni della libertà non può negare che la preservazione di un contesto culturale sicuro, cioè non minacciato né, tanto più, negato, costituisca un bene primario su cui verte lÂ’interesse fondamentale dei singoli. E se così ha da essere, allora occorre spingersi fino al riconoscimento pubblico delle particolarità culturali.

Il terzo principio è quello della neutralità, - beninteso, non della indifferenza, - dello Stato nei confronti delle culture che sono “portate” da coloro che in esso risiedono. La visione relativistica della libertà, tipica della concezione liberal-individualistica, riducendo la libertà a mero permissivismo privato ha favorito la confusione fra Stato laico, cioè Stato neutrale nei confronti delle varie culture in esso presenti, e Stato indifferente, uno Stato cioè che si dichiara incapace di scegliere ovvero di stabilire differenze tra culture diverse. Se la neutralità dice dellÂ’imparzialità con cui lo Stato deve trattare le varie identità, lÂ’indifferentismo dice della impossibilità di fissare un ordine tra diverse istanze culturali per via della non esistenza di un criterio oggettivo di scelta.

Il quarto principio afferma che lo Stato laico, cioè neutrale, nel perseguire lÂ’obiettivo di integrare le minoranze etnoculturali entro una comune cultura nazionale, adotta quale presupposto per lÂ’integrabilità che le culture presenti nel paese concordino tutte su, cioè facciano proprio, un nucleo duro di valori, di valori cioè irrinunciabili che, in quanto tali, valgono per tutti gli uomini, quale che sia la loro appartenenza a una specifica cultura. Si tratta di quei valori che sono a fondamento dei diritti universali dellÂ’uomo. Sorge spontanea la domanda: poiché non è mai lecito giudicare una cultura servendosi di unÂ’altra come unità di misura, e poiché i diritti universali dellÂ’uomo sono acquisizione (recente) della cultura occidentale, non cÂ’è forse il rischio che il quarto principio conduca allÂ’imperialismo culturale? Non lo penso, perché il fatto che valori come quello della dignità umana e teorie come quella dei diritti umani usino il linguaggio della cultura occidentale non è segno di pregiudizio etnocentrico; piuttosto è indicazione del fatto che lÂ’Occidente è giunto prima di altri contesti a prendere coscienza di tali valori, dando ad essi una fondazione su basi razionali. E pertanto, proprio perché giustificati per via di ragione, questi valori sono estensibili, in linea di principio, a tutti gli uomini. In altri termini, la nozione di diritti umani non è legata allÂ’Occidente, anche se questo è il luogo di nascita delle carte dei diritti. Il contenuto di tali diritti non è specifico di una determinata cultura, anche se è vero che cÂ’è oggi un modello culturale dei diritti umani che è dominante, quello occidentale appunto.

EÂ’ dunque lÂ’accettazione da parte di chi è portatore di una particolare cultura di tale nucleo di valori che marca la soglia al di sotto della quale non è possibili accogliere alcuna legittima richiesta di riconoscimento a livello istituzionale, cioè pubblico, per quella cultura. D'altro canto, al di sopra di quella soglia, il compito da assolvere è quello di discernere ciò che, di una data cultura, è tollerabile, da ciò che è rispettabile, da ciò che è condivisibile. Chiaramente, la tolleranza copre la gamma più vasta di richieste. Essa costituisce il primo livello di accettabilità per una determinata posizione o atteggiamento. La tolleranza -virtù pubblica che si rifà alla prudenza - si configura come metodo per risolvere quei conflitti che discendono dalla convivenza di diversi entro la cittadinanza democratica. Il rispetto, invece, è una rete a maglie più strette rispetto a quelle della tolleranza. Infatti, il rispetto non è solo questione di diritti; esso rinvia all'onore. Si rispetta qualcuno che si riconosce essere degno di valore. Nel rispetto cÂ’è dunque il riconoscimento che l'altro è portatore di una prospettiva meritevole di considerazione, anche se quella prospettiva non coincide con la mia. Ancora più strette sono le maglie della rete della condivisione.

Da ultimo, che ne è di quelle culture che chiedono di partecipare al progetto interculturale, ma che non accettano di trasformarsi per accogliere lo statuto dei diritti fondamentali? A ciò dà risposta il quinto principio: lo Stato, in nome dei diritti del cittadino, destinerà risorse ai gruppi portatori di quelle culture per aiutarli ad evolvere verso posizioni capaci di accogliere i diritti fondamentali dell'uomo. E' questo il significato del principio che chiamo della tolleranza condizionata: ti aiuto perché tu possa fare posto, dentro la tua matrice culturale e secondo i modi propri della tua cultura, all'accoglimento dei diritti fondamentali. E' noto che le culture hanno la tendenza ad adattarsi all'evolversi delle situazioni; non sono qualcosa di statico. E dunque l'educazione interculturale deve consentire a ciascun individuo sia di affermare la propria identità culturale sia di andare oltre qualora essa non si dimostri capace di afferrare l'universalità dei diritti fondamentali.

Quale il senso di un principio del genere? Si tratta di qualcosa capace di condurre a risultati pratici oppure si tratta di pura utopia? Per scendere nello specifico, c'è speranza che anche l'islamico di stretta osservanza possa modificare in senso evolutivo la propria posizione fino a recepire quel nucleo duro di valori di cui sopra si è detto? La rilevanza di queste domande sta in ciò che, in caso di risposta negativa, il quinto principio risulterebbe vuoto, anzi vacuo. Ci è di aiuto, nella ricerca di una risposta, la considerazione secondo cui i diritti dell'uomo non sono più definiti a prescindere dalle differenze (di genere, di religione, di razza, di cultura) ma come veri e propri diritti delle differenze. Come a dire che la storia dei diritti si muove verso una loro progressiva contestualizzazione; non più cioè l'universalismo astratto di un sé umano sradicato dal riferimento di un qualche contesto esistenziale. Se le cose stanno in questi termini, si deve allora convenire che è, in linea di principio, fattibile il progetto di favorire, per tutte le culture, una marcia, più o meno lunga, al termine della quale si registra la convergenza su una base comune di valori condivisi. 

5. Desidero chiudere con l'osservazione che la ricerca di un equilibrio soddisfacente tra un codice comune di convivenza e l'istanza della molteplicità culturale ponga problemi delicati e di grossissimo spessore. Non dobbiamo nasconderci che le domande identitarie incutono sempre paura in coloro ai quali esse vengono rivolte. Talora, queste paure prendono la via dell'annientamento o negazione dell'identità dell'altro; talaltra, esse conducono all'adozione di pratiche meramente assistenziali che umiliano coloro che ne sono i destinatari perché annullano la stima che essi hanno di sé. Eppure, come ci ricorda Giovanni Paolo II nel già citato messaggio: "il dialogo tra le culture... emerge come un' esigenza intrinseca alla natura stessa dell'uomo e della cultura" (n. 10). Il compito da assolvere è allora quello di gettare sul tavolo del dibattito la proposta di una via capace di scongiurare la Scilla dell'imperialismo culturale, che porta all'assimilazione delle culture diverse rispetto a quella dominante, e il Cariddi del relativismo culturale, che conduce alla balcanizzazione della società.

Il modello di integrazione interculturale di cui ho detto brevemente è fondato sull'idea del riconoscimento del grado di verità presente in ogni visione del mondo, un'idea che consente di fare stare assieme il principio di eguaglianza interculturale (che è declinato sui diritti universali) con il principio di differenza culturale (che si applica ai modi di traduzione nella prassi giuridica di quei diritti). L'approccio del riconoscimento veritativo, non ha altra condizione se non la "ragionevolezza civica" di cui parla W. Galston: tutti coloro che chiedono di partecipare al progetto interculturale devono poter fornire ragioni per le loro richieste politiche; nessuno è autorizzato a limitarsi ad affermare ciò che preferisce o, peggio, a fare minacce. Non solo, ma queste ragioni devono avere carattere pubblico, - in ciò sta la "civicità" - nel senso che devono essere giustificate mediante termini che le persone di differente fede o cultura possono comprendere e accogliere come ragionevoli e dunque tollerabili, anche se non pienamente rispettabili o condivisibili. Solo così - penso - le differenze identitarie possono essere sottratte al conflitto e alla regressione.


* Intervento del 28 novembre 2002, allÂ’Incontro organizzato dallÂ’Ambasciata di Francia presso la Santa Sede e dal Centro Culturale San Luigi di Francia, con il Patrocinio del nostro Pontificio Consiglio oltre che di quello del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace.
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