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SESSIONE DI APERTURA DELLA
DECIMA SETTIMANA SOCIALE DELLA CHIESA CATTOLICA
INTITOLATA "TESTIGOS DE LA ESPERANZA Y PROMOTORES DE PAZ"
E PER COMMEMORARE IL SETTANTACINQUESIMO ANNIVERSARIO
DELL'ALLACCIAMENTO DEI RAPPORTI DIPLOMATICI
TRA LA SANTA SEDE E CUBA

INTERVENTO DELL'ARCIVESCOVO DOMINIQUE MAMBERTI,
SEGRETARIO PER I RAPPORTI CON GLI STATI

L'Avana - Cuba
Mercoledì
, 16 giugno 2010

 

"La laicidad del Estado: algunas consideraciones"

Il cortese invito ad aprire i lavori di questa Settimana sociale mi offre la gradita occasione di incontrarmi con voi, autorità della Repubblica di Cuba, ambasciatori accreditati all'Avana, autorità della Chiesa cattolica in Cuba e fedeli laici che partecipano ai lavori. A tutti e a ciascuno vada il mio cordiale saluto. Penso poi specialmente a voi fedeli laici qui presenti, che rappresentate le diverse e più qualificate componenti della Chiesa sull'isola. Un incontro come questo ha fra i suoi scopi principali quello di corroborare la vocazione e la missione del laicato nella Chiesa e nella società. Infatti, come ricorda il Compendio della dottrina sociale della Chiesa (n. 532), le Settimane sociali, che si svolgono anche in altri Paesi del mondo, "costituiscono un luogo qualificato di espressione e di crescita dei fedeli laici, capace di promuovere, ad un livello alto, il loro specifico contributo al rinnovamento dell'ordine temporale".

Ma soprattutto desidero parteciparvi la vicinanza paterna del Papa e l'affettuosa benedizione che Benedetto XVI mi ha affidato per voi. "Sapete - scrisse il Pontefice nel messaggio del 2008 ai vescovi di Cuba per il decimo anniversario della visita di Giovanni Paolo II - che potete contare sulla vicinanza del Papa e sulla fraterna preghiera e collaborazione di altre Chiese particolari disseminate in tutto il mondo". Sono certo che la mia permanenza a Cuba in questi giorni potrà contribuire a rafforzare i vincoli di comunione fra i vescovi e i fedeli delle diocesi cubane con il successore dell'apostolo Pietro, principio e fondamento visibile dell'unità della Chiesa cattolica.

Ringrazio l'episcopato cubano e gli organizzatori di questa Settimana sociale per avermi dato anche la possibilità di condividere con tutti voi alcune riflessioni sul tema della laicità dello Stato. Si tratta di un argomento di grande vastità e di viva attualità, al quale sono collegate molte altre importanti tematiche. Inoltre questo tema conduce a prendere in considerazione il plurisecolare percorso storico della comunità umana e della Chiesa cattolica. Né si può dimenticare che non solo nelle diverse epoche della storia, ma anche nei diversi Paesi e aree culturali la questione della laicità dello Stato si è posta e si pone con contenuti e modalità diverse. Ciò basta a far ben comprendere come sarebbe illusorio pensare di esaurire l'argomento nel breve spazio di una prolusione. Mi limiterò quindi ad alcune considerazioni che mi sembrano significative per il contesto di una Settimana sociale e che mi auguro possano servire da stimolo alla vostra ulteriore riflessione e, poi, alla vostra azione.

Laicità e cristianesimo

Va osservato che, mentre il termine "laicità", in passato come oggi, viene anzitutto riferito alla realtà dello Stato e assume non di rado una sfumatura o un'accezione di contrapposizione alla Chiesa e al cristianesimo, in effetti di esso non si parlerebbe neppure senza il cristianesimo stesso. Ciò vale sia per la realtà in sé sia per il termine stesso.

Infatti, senza il Vangelo di Cristo non sarebbe entrata nella storia dell'umanità la fondamentale distinzione fra ciò che l'uomo deve a Dio e ciò che egli deve a Cesare, cioè all'autorità civile (cfr. Luca, 20, 25). Se pensiamo al contesto storico nel quale avvenne l'Incarnazione del Figlio di Dio, cioè all'impero romano o alla stessa comunità d'Israele, non si può non rilevare come fosse lontana dalla mentalità comune all'epoca l'impostazione nuova che Gesù Cristo dà al ruolo dell'autorità dello Stato in rapporto alla coscienza dell'uomo, specialmente per quanto riguarda la sua ricerca e la sua relazione con il trascendente. Per questo Benedetto XVI ha potuto affermare, nell'incontro con i giornalisti in volo verso la Francia il 12 settembre 2008, che "la laicità di per sé non è in contraddizione con la fede. Direi anzi che è un frutto della fede, perché la fede cristiana era, fin dall'inizio, una religione universale, dunque non identificabile con uno Stato, una religione presente in tutti gli Stati e diversa da ogni Stato. Per i cristiani è sempre stato chiaro che la religione e la fede non stanno in una fede politica, ma si pongono in un'altra sfera della vita umana... La politica, lo Stato non è una religione ma una realtà profana con una missione specifica. Le due realtà devono essere aperte l'una all'altra".

Anche lo stesso termine "laicità", derivato da "laico", ha la sua prima origine nell'ambito ecclesiale. Infatti, questa parola - come ha detto il Papa all'Unione dei Giuristi Cattolici Italiani il 9 dicembre 2006 - è "nata come indicazione della condizione del semplice fedele cristiano, non appartenente né al clero né allo stato religioso". Anche oggi nella Chiesa noi riconosciamo quella fondamentale bipartizione creata dal sacramento dell'Ordine fra i battezzati, per cui coloro che hanno ricevuto tale sacramento sono chierici e gli altri sono appunto laici; da entrambi questi stati provengono poi coloro che professano i tre consigli evangelici negli istituti di vita consacrata, come si legge nel canone 207 del Codex iuris canonici. Il laico è dunque anzitutto il "non chierico", anche se, ovviamente, in ciò non si esaurisce il contenuto della specifica vocazione di questa categoria di battezzati. È questa la prima accezione, del tutto intraecclesiale, del termine "laicità".

Anche la successiva tappa dell'evoluzione del suo significato rimane nell'ambito interno la Chiesa. In questo nuovo significato il termine non serve più a designare una categoria di fedeli, ma a descrivere il tipo di rapporto che si instaura fra le autorità della Chiesa e quelle civili: infatti, "durante il Medioevo ha rivestito il significato di opposizione tra i poteri civili e le gerarchie ecclesiastiche", come ha sottolineato nel discorso appena citato. Badiamo bene però che in quest'epoca, vi fu sì confronto e contrasto fra queste due autorità, ma sempre dentro una realtà sociale che si riconosceva tutta come cristiana. "Il Regnum (il Sacro impero), inserito nella Ecclesia, segnato di sacralità, esercita un ruolo che non è solo di protezione; la Chiesa, a sua volta, è chiamata a compiti anche temporali e fortemente inserita nelle strutture stesse del Regnum", disse Giovanni Paolo II a Salerno il 26 maggio 1985. I sovrani, che rivendicavano una non soggezione al Papa, non per questo si consideravano fuori della Chiesa, semmai volevano esercitare un ruolo di controllo e di organizzazione della Chiesa stessa, ma non vi era alcuna volontà di separazione da essa o di una sua estromissione dalla società.

È soprattutto a partire dall'età dei Lumi e poi in maniera drammatica con la Rivoluzione francese che il termine "laicità" arriva, invece, a esprimere una completa alterità, anzi un'opposizione netta fra l'ambito della vita civile e quello religioso ed ecclesiale. Come rilevava Benedetto XVI nel discorso citato all'Unione dei Giuristi Cattolici Italiani, esso "nei tempi moderni ha assunto [il significato] di esclusione della religione e dei suoi simboli dalla vita pubblica mediante il loro confinamento nell'ambito del privato e della coscienza individuale". E osservava ancora: "È avvenuto così che al termine di laicità sia stata attribuita un'accezione ideologica opposta a quella che aveva all'origine".

Questo rapido schizzo circa l'evoluzione del termine "laicità" ci permette di osservare che ognuno dei significati assunti nelle tappe fondamentali di tale sviluppo non è stato superato e annullato dalla tappa successiva, ma permane: infatti, "laicità" designa tuttora sia la condizione ecclesiale dei battezzati che non sono né chierici né religiosi, sia la distinzione fra l'autorità ecclesiale e quella civile, sia l'atteggiamento che porta a estromettere la dimensione religiosa dal complesso della vita sociale. Inoltre possiamo osservare che queste tre diverse accezioni del termine "laicità" sono tra loro strettamente congiunte e interdipendenti, e ciò apparirà ancor più chiaro al termine del nostro discorso.

Ma soprattutto comprendiamo che anche se la laicità viene oggi invocata e usata non di rado per ostacolare la vita e l'attività della Chiesa, nella sua realtà profonda e positiva essa non si sarebbe neppure data senza il cristianesimo. È quanto è avvenuto anche per altri valori che oggi vengono considerati tipici della modernità e sono non di rado invocati per criticare la Chiesa o, in genere, la religione, quali il rispetto della dignità della persona, della libertà, dell'uguaglianza, e così via: sono in gran parte frutto dell'influenza profonda del Vangelo sulle diverse culture, anche se poi si sono staccati e perfino opposti alle loro radici cristiane.

Laicità e libertà religiosa

A questa prima considerazione di carattere piuttosto storico vorrei aggiungere una seconda, che ci colloca piuttosto nel presente. Mi riferisco al fatto che in molti ordinamenti statali si afferma che la laicità è uno dei propri principi fondamentali, soprattutto, ovviamente, per quanto riguarda il rapporto dello Stato con la dimensione religiosa dell'uomo.
Possiamo chiederci se sia del tutto condivisibile un'impostazione che mette al primo posto la laicità e, a partire da essa, imposta l'atteggiamento che lo Stato deve assumere nei riguardi del credo religioso dei suoi cittadini. Al riguardo, non si può dimenticare che di fatto, in nome di questa concezione, talvolta vengono prese decisioni o emanate norme che sono oggettivamente a danno dell'esercizio personale e comunitario del diritto fondamentale di libertà religiosa.

Se prendiamo le mosse da un concetto adeguato del diritto di libertà religiosa, che si fonda nella dignità intangibile della persona, dobbiamo dire che "la neutralità, la laicità o la separazione non possono essere i principi che definiscono in modo fondamentale la posizione dello Stato nei confronti della religione" (J. T. Martín de Agar, Libertà religiosa, uguaglianza e laicità, in "Ius Ecclesiae", 1995, pp. 199-215). Principi come quello della laicità, "hanno una valenza pratica puramente negativa, di non interferenza (...) dello Stato nelle opzioni religiose dei cittadini; la libertà religiosa, invece, benché si esprima innanzitutto come incompetenza dello Stato in queste opzioni, esige inoltre da questo un'attività positiva in ordine a definire, tutelare e promuovere con giustizia i concreti contenuti, non della religione bensì delle sue manifestazioni aventi una rilevanza sociale" (ivi). La laicità, la neutralità o la separazione sono, dunque, in sé insufficienti a definire in modo completo l'atteggiamento che lo Stato deve avere nei riguardi del credo dei suoi cittadini. Piuttosto, essi "devono servire come ulteriore garanzia della libertà religiosa e se non si riferiscono a questa smettono di aver senso o si trasformano in manifestazione di statalismo" (ivi).

Possiamo notare che la mancata subordinazione logica e ontologica della laicità al rispetto pieno della libertà religiosa costituisce una possibile e anche reale minaccia per quest'ultima. Infatti, "quando si pretende di subordinare la libertà religiosa a qualche altro principio, allora la laicità tende a trasformarsi in laicismo, la neutralità in agnosticismo, la separazione in ostilità" (ivi). In tale caso paradossalmente lo Stato diventerebbe uno Stato confessionale e non più autenticamente laico, perché farebbe della laicità il suo valore supremo, la sua ideologia determinante, una sorta appunto di religione, magari perfino con suoi riti e liturgie civili. Per lo Stato dirsi laico non può significare voler emarginare o rifiutare la dimensione religiosa o la presenza sociale delle confessioni religiose. Al contrario, compito dello Stato dovrebbe essere quello di riconoscere il ruolo centrale della libertà religiosa e promuoverlo positivamente. Proprio a Cuba, il 25 gennaio 1998, Giovanni Paolo II ribadì che "lo Stato, lontano da ogni fanatismo o secolarismo estremo, deve promuovere un clima sociale sereno e una legislazione adeguata, che permetta a ogni persona e a ogni confessione religiosa di vivere liberamente la propria fede, esprimerla negli ambiti della vita pubblica e poter contare su mezzi e spazi sufficienti per offrire alla vita della Nazione le proprie ricchezze spirituali, morali e civiche".

A questo proposito, va riaffermata quella che è la concezione piena del diritto di libertà religiosa. Infatti, rispettarlo non significa semplicemente non sottoporre a coazione oppure permettere la personale interiore adesione di fede. Riprendendo l'insegnamento del Concilio Vaticano II circa la libertà religiosa, Benedetto XVI ha ricordato, il 20 novembre 2006 visitando il Presidente della Repubblica Italiana, che la "sollecitudine della comunità civile nei riguardi del bene dei cittadini non si può limitare ad alcune dimensioni della persona, quali la salute fisica, il benessere economico, la formazione intellettuale o le relazioni sociali. L'uomo si presenta di fronte allo Stato anche con la sua dimensione religiosa, che "consiste anzitutto in atti interni volontari e liberi, con i quali l'essere umano si dirige immediatamente verso Dio" (Dignitatis humanae, 3)". Ciò comporta che lo Stato anzitutto non cerchi di impedire questo movimento della persona verso il suo Creatore: "Tali atti "non possono essere né comandati, né proibiti" dall'autorità umana, la quale, al contrario, è tenuta a rispettare e promuovere questa dimensione: (...) nessuno può essere costretto "ad agire contro la sua coscienza" né si può "impedirgli di agire in conformità ad essa, soprattutto in campo religioso" (ibid.)". Se il rispetto dell'atto personale di fede è fondamentale, esso però non esaurisce l'attitudine dello Stato verso la dimensione religiosa, perché questa, come la persona umana, ha bisogno di esteriorizzarsi nel mondo e di essere vissuta non solo personalmente, ma anche comunitariamente. "Sarebbe però riduttivo - continua il Papa - ritenere che sia sufficientemente garantito il diritto di libertà religiosa, quando non si fa violenza o non si interviene sulle convinzioni personali o ci si limita a rispettare la manifestazione della fede che avviene nell'ambito del luogo di culto. Non si può infatti dimenticare che "la stessa natura sociale dell'essere umano esige che egli esprima esternamente gli atti interni di religione, comunichi con altri in materia religiosa e professi la propria religione in modo comunitario" (ibid.). La libertà religiosa è pertanto un diritto non solo del singolo, ma altresì della famiglia, dei gruppi religiosi e della stessa Chiesa (cfr. Dignitatis humanae, 4-5.13) e l'esercizio di questo diritto ha un influsso sui molteplici ambiti e situazioni in cui il credente viene a trovarsi e ad operare".

Si tratta, dunque, di coordinare rettamente laicità e libertà religiosa, cogliendo la prima come un mezzo importante, ma non esaustivo per rispettare la seconda, la quale, a sua volta, va colta in tutte le sue dimensioni, senza riduzionismi, che alla fin fine si traducono in una sua negazione.

Permettetemi di aprire brevemente una parentesi. Un discorso analogo a quello sul principio di laicità in rapporto al diritto di libertà religiosa si potrebbe fare a proposito del rapporto fra il principio di uguaglianza e tale libertà. Non si può in nome di un'uguaglianza teorica, che non tiene conto delle diverse realtà, equiparare fra loro tutte le situazioni giuridiche senza tener conto delle loro differenze di fatto. Infatti, "trattare (...) in modo uguale rapporti giuridici diseguali è altrettanto ingiusto quanto il trattare in modo diseguale rapporti giuridici uguali" (F. Ruffini, Libertà religiosa e separazione tra Chiesa e Stato, in Scritti dedicati a G. Chiodini, Torino 1975, p. 272). Anche per quanto riguarda il diritto di libertà religiosa, giustizia non è dare a tutti lo stesso, ma a ciascuno il suo, che gli spetta. È contro il principio di uguaglianza tanto discriminare o privilegiare, quanto uniformare e impedire quel pluralismo, che di fatto esiste fra le confessioni religiose nelle loro manifestazioni vitali nella società.

Cosa richiede la laicità ai cristiani?

Normalmente quando si affronta il tema della laicità, l'attenzione si concentra su ciò che essa comporta per lo Stato, le sue autorità, i suoi organi e le sue norme. Tuttavia, non si deve dimenticare che il rispetto di quella che già Pio XII definì il 23 marzo 1958 la "legittima e sana laicità" - cioè, secondo quanto abbiamo detto, della laicità che serve a tutelare e promuovere la libertà religiosa - interpella anche i credenti. Nella presente circostanza della Settimana sociale ritengo opportuno soffermarmi un po' più ampiamente su questo aspetto.

Legittima autonomia dello Stato

Anzitutto il rispetto del principio di laicità richiede ai cattolici di riconoscere la giusta autonomia delle realtà temporali, fra le quali rientra anche la comunità politica. Si tratta di una dottrina esposta nella costituzione pastorale Gaudium et spes del Concilio Vaticano II, secondo la quale - ha ricordato Benedetto XVI il 24 giugno 2005 visitando il presidente della Repubblica italiana - "le realtà temporali si reggono secondo le norme proprie, senza tuttavia escludere quei riferimenti etici che trovano il loro fondamento ultimo nella religione. L'autonomia della sfera temporale non esclude un'intima armonia con le esigenze superiori e complesse derivanti da una visione integrale dell'uomo e del suo eterno destino". Una delle "norme proprie" di quella realtà temporale che è lo Stato è appunto la laicità, che, però, va sempre compresa e praticata alla luce di una visione integrale della persona umana, da cui discendono appunto chiare esigenze etiche.

Da ciò deriva che per i credenti "la promozione secondo coscienza del bene comune della società politica - come afferma un documento della Congregazione per la Dottrina della Fede sull'impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica (n. 6) - nulla ha a che vedere con il "confessionalismo" o l'intolleranza religiosa". Queste ultime modalità di pensiero e di azione non solo sono incompatibili con la giusta laicità, ma rischiano di essere una minaccia anche per la stessa libertà religiosa. Giovanni Paolo II ha al riguardo ammonito, nel messaggio per la Giornata mondiale della pace del 1991, che "identificare la legge religiosa con quella civile può effettivamente soffocare la libertà religiosa e, persino, limitare o negare altri inalienabili diritti umani". Possiamo, quindi, dire che la laicità richiede anzitutto al credente e alla comunità di fede in negativo di evitare ogni tipo di confusione fra la sfera religiosa e la sfera politica.

Ordine giusto e purificazione della ragione

Ma, come abbiamo detto, il rispetto della autonomia della realtà temporale "Stato", nella visione cristiana, non significa un'autonomia etica, per cui esso sarebbe sganciato e indipendente da ogni norma morale. La storia testimonia purtroppo con abbondanza di esempi le nefaste conseguenze di forme di governo e di Stato che si sono considerate superiori alle leggi e ai valori morali, cioè che non hanno perseguito la giustizia, che è rispetto dei diritti di tutti e di ciascuno. "Un'attenzione inadeguata verso la dimensione morale conduce alla disumanizzazione della vita associata e delle istituzioni sociali e politiche, consolidando le "strutture di peccato"" (Compendio della dottrina sociale della Chiesa, n. 566).

Ma dove lo Stato trova le istanze etiche cui riferirsi? Come potrà orientarsi per costruire un ordine giusto? Riprendendo la visione cattolica sui rapporti tra fede e ragione, Benedetto XVI nell'enciclica Deus caritas est afferma che la ragione umana è di per sé in grado di riconoscere le istanze morali di riferimento, ma d'altra parte, se essa è lasciata alle sue sole capacità, ciò le risulta assai difficoltoso: "La ragione deve sempre di nuovo essere purificata, perché il suo accecamento etico, derivante dal prevalere dell'interesse e del potere che l'abbagliano, è un pericolo mai totalmente eliminabile" (n. 28). Dunque, da un lato, sul terreno dell'uso retto della ragione i cristiani possono trovare ampie convergenze anche con gli appartenenti alle altre religioni e con tutti gli uomini di buona volontà per impegnarsi a favore della dignità della persona umana. Dall'altro, la presenza dei cristiani è nella società un lievito che tiene alta la tensione della società nel perseguire l'autentico bene comune. Si colloca qui, ad esempio, l'opera di formazione da parte della Chiesa nei riguardi soprattutto dei giovani.

In concreto questa purificazione della ragione umana, che è il servizio che la Chiesa e i suoi membri offrono alla società, avviene attraverso la proposta della sua dottrina sociale. Infatti, "la dottrina sociale della Chiesa argomenta a partire dalla ragione e dal diritto naturale, cioè a partire da ciò che è conforme alla natura di ogni essere umano", e intende "servire la formazione della coscienza nella politica e contribuire affinché cresca la percezione delle vere esigenze della giustizia e, insieme, la disponibilità ad agire in base ad esse, anche quando ciò contrastasse con situazioni di interesse personale" (ivi).

Sono perciò del tutto pretestuose le ricorrenti accuse di ingerenza che spesso oggi vengono mosse, quando i Pastori della Chiesa ricordano ai fedeli e a tutti gli uomini di buona volontà quei "valori e principi antropologici ed etici radicati nella natura dell'essere umano, riconoscibili anche attraverso il retto uso della ragione" (così il Papa nel discorso già citato del 20 novembre 2006). Come ricorda Benedetto XVI nella Deus caritas est (n. 28), "la Chiesa non può e non deve prendere nelle sue mani la battaglia politica per realizzare la società più giusta possibile. Non può e non deve mettersi al posto dello Stato. Ma non può e non deve neanche restare ai margini nella lotta per la giustizia. Deve inserirsi in essa per la via dell'argomentazione razionale e deve risvegliare le forze spirituali, senza le quali la giustizia, che sempre richiede anche rinunce, non può affermarsi e prosperare".

La missione dei fedeli laici

Nel Corpo mistico di Cristo che è la Chiesa le diverse membra hanno vocazioni e missioni diverse nella stessa Chiesa e nella società, e ciò vale anche in rapporto alla realizzazione di quanto la laicità dello Stato esige dai cristiani. Così al Magistero compete un ruolo diverso da quello che spetta ai laici: mentre ai Pastori della Chiesa tocca di illuminare le coscienze con l'insegnamento, Benedetto XVI afferma nella Deus caritas est (n. 29) che "il compito immediato di operare per un giusto ordine nella società è (...) proprio dei fedeli laici", che lo fanno "cooperando con gli altri cittadini".

Ciò è una conseguenza dello specifico della vocazione laicale, che il Concilio Vaticano II ha individuato nel "carattere secolare" nella costituzione dogmatica Lumen gentium (n. 31): "Per loro vocazione è proprio dei laici cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio. Vivono nel secolo, cioè implicati in tutti i diversi doveri e lavori del mondo e nelle ordinarie condizioni della vita familiare e sociale, di cui la loro esistenza è come intessuta. Ivi sono da Dio chiamati a contribuire, quasi dall'interno a modo di fermento, alla santificazione del mondo esercitando il proprio ufficio sotto la guida dello spirito evangelico, e in questo modo a manifestare Cristo agli altri principalmente con la testimonianza della loro stessa vita e col fulgore della loro fede, della loro speranza e carità. A loro quindi particolarmente spetta di illuminare e ordinare tutte le cose temporali, alle quali sono strettamente legati, in modo che siano fatte e crescano costantemente secondo il Cristo e siano di lode al Creatore e Redentore".

Quella dei laici è dunque una missione di impegno, di testimonianza, di dialogo, di animazione dentro la società e le sue articolazioni e a contatto con tutti gli altri cittadini. Lo ricordava Giovanni Paolo II il 23 gennaio 1998 ai giovani cubani durante la sua memorabile visita in quest'isola: "Non esiste autentico impegno con la Patria senza il compimento dei propri doveri e obblighi nella famiglia, all'università, in fabbrica o nei campi, nel mondo della cultura e nello sport, nei diversi ambienti in cui la Nazione si fa realtà e la società civile forgia la progressiva creatività della persona umana. Non ci può essere impegno nella fede senza una presenza attiva e audace in tutti gli ambienti della società in cui si incarnano Cristo e la Chiesa".

È una missione, quella che attende i fedeli laici, che richiede di fondarsi su una profonda vita spirituale e su una soda formazione dottrinale, specialmente per quanto riguarda la dottrina sociale della Chiesa, e non meno sull'acquisizione di tutte le competenze che il proprio ruolo, posizione o professione esige.

Conclusione

Con queste considerazioni sulla vocazione laicale siamo ritornati alla prima, all'originaria accezione, tutta intraecclesiale, del termine "laico/laicità", cui accennavo sopra. E, mi sembra che ora possa risultare ancor più chiaro come questo significato di "laicità" sia di per sé connesso con gli altri due che la parola ha assunto lungo la bimillenaria storia della Chiesa nel suo rapporto con la società: laicità dello Stato, che, lungi dall'essere emarginazione della dimensione religiosa e della comunità dei credenti dalla vita sociale in tutte le sue componenti (laicità nel senso di laicismo), diventa rispetto e collaborazione fra la comunità civile e quella ecclesiale per il vero bene dell'uomo e della famiglia umana (sana laicità o laicità positiva).

Ecco tracciate per sommi capi le linee generali della visione cristiana del tema della laicità dello Stato. Come già dicevo, nella vita di ogni comunità statale esse devono trovare un'attuazione corrispondente alla storia, alla cultura, all'ordinamento del Paese e, soprattutto, devono avere attuazione nella pratica concreta e quotidiana.

Non mi resta perciò che affidare queste mie frammentarie considerazioni alla riflessione di questa Settimana sociale, che entra nel vivo dei suoi lavori e alla quale auguro di offrire su questioni così rilevanti impulsi positivi per l'impegno della Chiesa in Cuba.

 

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