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APERTURA DELL’ANNO ACCADEMICO
DELLA FACOLTÀ DI DIRITTO CANONICO SAN PIO X

LECTIO MAGISTRALIS DEL CARD. TARCISIO BERTONE,
SEGRETARIO DI STATO DEL SANTO PADRE

Venezia
Giovedì, 4 dicembre 2008

 

Em.mo Signor Cardinale Patriarca,
Em.mo Signor Patriarca Emerito,
cari confratelli Vescovi e Sacerdoti,
illustri Signori e Signore!

Desidero innanzitutto rivolgere il mio cordiale saluto a tutti voi qui presenti, ad iniziare dal Patriarca Angelo Scola, vostro Pastore, ed in lui saluto i sacerdoti, i religiosi come pure l’intera Comunità diocesana. Saluto i Presuli, le Autorità civili, militari ed accademiche, della città e della regione, con un pensiero speciale per le Autorità accademiche e gli alunni della Facoltà di Diritto Canonico San Pio X, che oggi è presentata ufficialmente. Un cordiale saluto rivolgo al Preside Mons. Brian Edwin Ferme, ringraziandolo per il cortese invito a prendere parte a questo evento così significativo teso a imprimere impulso alla promozione delle discipline canonistiche mediante la ricerca scientifica e l’insegnamento. Un’iniziativa che si inserisce, come è stato appena illustrato, nello Studium Generale Marcianum, cioè nel più ampio progetto della Chiesa di Venezia mirante ad approfondire e promuovere la dimensione educativa e culturale (il “Polo pedagogico”), che è propria dell’opera di evangelizzazione. Intervengo pertanto volentieri, facendo appello anche alla mia passata esperienza di docente proprio in queste materie e mi propongo di trattare un tema che presenta una sua significativa attualità: “Chiesa e democrazia; analogie e differenze”.

 

DEMOCRAZIA E DOTTRINA SOCIALE
DELLA CHIESA

Innanzitutto, una premessa. Il tema della democrazia è entrato nella riflessione della Chiesa, più tradizionalmente abituata ai rapporti con gli Stati a regime monarchico, dal sec. XIX, con la nascita e lo sviluppo delle moderne democrazie elettive. Il dato di fatto ha spinto il Magistero ad elaborare una dottrina sociale coerente, anche se già san Tommaso, in qualche modo, aveva espresso la preferenza a un tipo di ordinamento più vicino al diritto naturale, in quanto espressione della sovranità popolare. Ricordo di aver letto e spiegato i volumi di Jacques Maritain e di René Coste sulla Comunità Politica - denominazione più esatta rispetto a quella di Stato - nel quadro dell'insegnamento della morale sociale. E' in ogni caso assodato che la struttura delle moderne democrazie, fondate sul principio della sovranità popolare, si basa sul presupposto dell'essenziale uguaglianza di tutti gli uomini [1]. Di qui deriva l'imperativo di instaurare un ordine politico-giuridico nel quale siano meglio tutelati i diritti della persona [2] e il suo adeguato sviluppo sociale (si passa oggi dai diritti umani ai nuovi diritti di cittadinanza cui corrispondono specularmente i doveri di cittadinanza). I principi animatori delle moderne democrazie sono fondamentalmente tre: i principi di sussidiarietà, di solidarietà e di responsabilità, ampiamente descritti e sviluppati nei documenti del Magistero sociale del Papa e dei vescovi. Ma ciò che fin qui ho sinteticamente esposto riguarda la Comunità Politica. Si può applicare tutto questo anche alla Chiesa?

La struttura della Chiesa

La Chiesa ha un proprio diritto, denominato diritto ecclesiale o canonico, la cui funzione è far sì che i fedeli attuino la loro vocazione nello stesso tempo personale e comunitaria, con un duplice fine: tutelare la comunione ecclesiale e proteggere i diritti dei singoli fedeli, fini che dipendono l’uno dall’altro, in quanto solo nel promuovere e tutelare il bene comune, cioè la comunione ecclesiale, si realizza la sempre più piena dignità dell’uomo come persona umana e come fedele.

Vale la pena qui riprendere alcune nozioni di base sulla costituzione della Chiesa a voi certamente ben note ma utili al nostro ragionamento. La Chiesa cattolica ha su questa terra una duplice struttura: a) intima e spirituale, perciò è una comunità di fede, di speranza, di carità [3]; b) esterna e visibile, perciò è nello stesso tempo un organismo sociale e giuridico, ordinato gerarchicamente. Si presenta quindi come istituzione dotata di un fine e di mezzi adatti per conseguire il fine. E’ senz’altro un modello tipico di società religiosa che ha rivendicato e formulato un proprio ordinamento giuridico sovrano e indipendente dal potere civile, fondato sulla pretesa di avere una missione propria ed esclusiva verso tutti gli uomini, ricevuta da Dio stesso, la cui finalità propria ed esclusiva è la salvezza delle anime.

Della Chiesa come società visibile fanno parte a pieno titolo tutti i battezzati, i quali, proprio in forza del battesimo che li ha incorporati a Cristo [4], condividono una stessa dignità e missione e partecipano alla triplice funzione di Cristo profeta, sacerdote e pastore. La fondamentale e uguale dignità e partecipazione che tutti hanno in forza dell’unico battesimo viene esercitata, secondo una diversità di funzioni, carismi e vocazioni che determinano la “condizione” propria di ciascuno, e il modo in cui cooperare all’edificazione e sviluppo del Regno di Dio [5]. Espressione essenziale delle diverse funzioni che si danno nella Chiesa sono quelle proprie del ministero gerarchico. La gerarchia si perpetua attraverso il sacramento dell’Ordine sacro, la cui ricezione conferisce all’ordinato l’abilitazione ad esercitare l’autorità che Cristo ha, come Capo, su tutto il corpo della Chiesa, mentre i fedeli laici possono cooperare al ministero gerarchico in quelle funzioni che non richiedono necessariamente l’Ordine sacro [6]. Tale organizzazione istituzionale/basilare della Chiesa è opera del suo Fondatore, che istituì il Collegio degli Apostoli e ne mise a capo Pietro, conferendo loro i poteri e le funzioni da esercitare, a nome suo, a servizio del Popolo di Dio.

Non tutto il governo della Chiesa spetta, però ad ogni membro della gerarchia, in quanto le diverse mansioni sono distribuite attraverso un’organizzazione stabile ed ordinata di funzioni pubbliche. L’insieme di enti, organi e persone che esercitano le funzioni pubbliche danno vita a quella che noi definiamo l’organizzazione ecclesiastica. E se il sacramento dell’Ordine determina dal punto di vista personale quali fedeli sono chiamati ed abilitati ad esercitare funzioni pubbliche, l’organizzazione ecclesiastica determina le concrete funzioni che spettano a ciascuno secondo i propri incarichi.

Nella Chiesa esistono poi due livelli fondamentali di organizzazione, quello universale e quello particolare. Tuttavia, l’insieme delle Chiese particolari che formano la Chiesa universale non deriva dalla semplice aggregazione o federazione di soggetti autosufficienti. Le Chiese particolari, nelle quali e dalle quali esiste la sola Chiesa cattolica, sono formate a immagine della Chiesa universale, il cui governo supremo è affidato a due soggetti, il Papa e il Collegio dei Vescovi; quest’ultimo però non ha autorità se non in comunione con il Romano Pontefice, successore di Pietro, che conserva integralmente il suo potere primaziale su tutti, pastori e fedeli [7]. Ed il Papa, per svolgere il suo ministero di pastore universale, si avvale di vari organismi e persone: sinodo dei Vescovi, collegio dei Cardinali, curia romana, legati pontifici, ecc.

I Vescovi, da parte loro, ricevono con la consacrazione episcopale la potestà di santificare, di insegnare e di governare. Nel compiere il proprio ufficio pastorale il Vescovo diocesano conta a sua volta sulla collaborazione ministeriale dei sacerdoti e sull’impegno, che si fonda nel battesimo, di tutti i fedeli. Vi sono diversi uffici e organismi che lo aiutano in tale sua funzione pastorale: Vescovi ausiliari, Vicari episcopali, sinodo diocesano, Curia diocesana, Consigli di partecipazione (collegio dei consultori, consiglio presbiterale, consiglio per gli affari economici, consiglio pastorale diocesano). Esistono poi strutture e organismi sovradiocesani: come ad esempio, le Provincie ecclesiatiche, i Metropoliti, i Concili particolari, le Conferenze episcopali. Parallelamente alla Chiesa latina, regolata dal Codex Iuris Canonici vigente, promulgato nel 1983, le Chiese Orientali hanno la loro propria tradizione e configurazione, e sono regolate dal Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium, promulgato nel 1990.

In definitiva, la struttura della Chiesa, determinata dai sacramenti e dai carismi di ciascuno, è immagine della vita trinitaria, nella quale vige la distinzione delle Persone, per le differenti appropriazioni e missioni, nell’unità sostanziale dell’unica natura. In modo simile, nella Chiesa si ha distinzione e varietà tra i membri per le diverse vocazioni e missioni, nell’unità della comunione creata dallo Spirito Santo.

 

COMUNITÀ POLITICA
E CHIESA COMUNIONE

È evidente, da una semplice comparazione delle esposizioni precedenti, quanto sia differente la natura dello "Stato democratico" dalla natura della Chiesa. La stessa origine delle due rispettive strutture, i fini loro assegnati, e la loro successiva articolazione ne confermano la radicale diversità.

Eppure anche nella struttura della Chiesa non mancano elementi analoghi, di forte affinità, che la fanno "respirare" democraticamente: la centralità della persona umana, l'unica creatura da Dio voluta e amata per se stessa [8], ed ordinata alla salvezza eterna; l'uguaglianza fondamentale dei membri della Chiesa, in forza della Cristoconformazione battesimale; la collegialità e la sinodalità come principi-motori della vita della Chiesa, sia a livello di Chiesa universale, sia a livello di Chiesa particolare; la partecipazione di tutti i fedeli alla triplice funzione sacerdotale, profetica e regale di Cristo e alla missione della Chiesa; le forme concrete di tale cooperazione nella varietà dei consigli a livello diocesano e parrocchiale, con la distinzione del voto deliberativo o consultivo, a seconda delle materie da trattare e dei ruoli che vi sono implicati. Non c'è dubbio che un impulso decisivo in questo senso sia stato dato dal Concilio Vaticano II e dalla legislazione successiva stabilita nei due Codici, quello latino e quello orientale.

Il ruolo dei laici nella Chiesa

Mi domando ora quale siano lo specifico ruolo dei laici e la loro partecipazione alla missione della Chiesa. In merito, non mancano i punti di riferimento nei documenti del Magistero, e in particolare nel Concilio Vaticano II e nell’Esortazione post-sinodale Christifideles laici di Giovanni Paolo II (1988), che al n. 2 lancia una sfida: occorre «individuare le strade concrete perché la splendida "teoria" sul laicato espressa dal Concilio possa diventare un'autentica "prassi ecclesiale". Ed il testo prosegue segnalando i problemi emergenti: i ministeri e i servizi ecclesiali da affidare ai laici; la diffusione dei nuovi "movimenti", il posto e il ruolo della donna. Ma per aprire strade nuove occorre uno stile nuovo e nuovi spazi per i christifideles. Lo stile nuovo non può essere che quello sinodale, valido non soltanto per la celebrazione del Sinodo, ma anche come metodo per l'approccio ai problemi. Il Sinodo, a norma del diritto e per prassi ormai consolidata, promuove un cammino insieme, prevede una consultazione a tutto campo delle comunità e delle persone sui problemi della Chiesa particolare alla ricerca di possibili soluzioni, come pure la presenza, nell'assemblea sinodale, di molti laici con diritto di parola e di voto.

La celebrazione dei Sinodi diocesani più recenti, rispetto a quelli del passato, si caratterizza precisamente per il fatto che non si tratta più solo di un’istituzione quasi esclusivamente clericale a carattere legislativo, in cui si procede all’adattamento della legislazione universale alla concreta situazione locale [9], ma è piuttosto un evento spiritualmente e teologicamente denso nel quale le varie componenti del Popolo di Dio, sotto la guida del Vescovo, esprimono e danno il loro contributo per meglio manifestare il mistero della Chiesa. Quello sinodale è allora uno stile che ha il pregio di coinvolgere tutte le comunità, chiamandole alla partecipazione attiva e responsabile; uno stile che esige ricerca e dialogo, elaborazione di proposte con risposte non prefabbricate; uno stile che domanda l'ascolto di tutti, o quanto meno delle rappresentanze delle comunità, come prevede il Diritto Canonico. Non sono in questione le verità fontali e di base, dove entrano in gioco la fede e il patrimonio secolare della tradizione cristiana: si tratta di decidere su cose opinabili, dove c'è libertà di pensiero e sono possibili soluzioni diverse, anche se in stile di carità. Gli spazi per l'esercizio di questo nuovo stile già ci sono, ufficiali e previsti per tutte le comunità quali i Consigli diocesani presbiterali, pastorali, Consigli pastorali parrocchiali e degli Affari economici [10].

Fedeli e pastori in dialogo

Oggi molti si pongono la domanda se esiste davvero nella Chiesa la possibilità di manifestare il proprio pensiero, di intervenire nelle questioni che riguardano la vita e il governo della comunità ecclesiale, partecipando alla sua vita secondo una propria personale responsabilità. Il can. 212 risponde a questa domanda, riconoscendo esplicitamente ai singoli fedeli il diritto-dovere di manifestare ai pastori il proprio pensiero.

Mentre al § 2 del menzionato canone si riconosce il diritto di tutti i fedeli di manifestare ai pastori il loro pensiero circa le proprie necessità e desideri, soprattutto spirituali, il § 3 si rivolge in modo più specifico a una certa categoria di fedeli, a coloro cioè che a diverso titolo possiedono scienza e competenza e godono di un certo prestigio, una certa autorevolezza, presso la comunità ecclesiale nella quale vivono o nell’ambiente dove sono inseriti. Si comprende bene quindi come scienza, competenza e prestigio contribuiscono a far sì che il “diritto” divenga facilmente un “dovere”, soprattutto quando il bene della Chiesa lo esige e quando il proprio intervento presso chi ha il compito di guidare la comunità ecclesiale può contribuire a comprendere meglio un problema, a delineare con più precisione una situazione e a orientare il cammino di tutti nel senso di una maggiore fedeltà allo spirito evangelico.

La normativa ecclesiale prevede, istituzionalizzandoli, organismi di consiglio che concretamente offrono la possibilità di esercitare il diritto-dovere di manifestare il proprio pensiero (il Consiglio pastorale e il Consiglio degli affari economici, sia a livello diocesano che parrocchiale, dove sono direttamente interessati anche i laici). Non si può però leggere il can. 212 pensando solo a questi organismi. Con esso, infatti, il CIC apre un vasto orizzonte: ogniqualvolta il fedele vede l’opportunità o più ancora la necessità di esprimere il suo pensiero intorno a una questione che riguarda la vita della Chiesa, ha diritto e dovere di farlo; ha diritto, cioè, di trovare ascolto attento e seria considerazione presso coloro che «presiedono nella Chiesa, ai quali spetta specialmente, non di estinguere lo Spirito, ma di esaminare tutto e ritenere ciò che è buono» [11]. Al Vescovo, infatti, il Concilio raccomanda di non rifuggire «dall’ascoltare i sudditi che cura come veri figli suoi e che esorta a cooperare alacremente con lui» [12]. Ciò che dal Concilio è detto del Vescovo, si può intendere valido anche per i parroci, i superiori degli Istituti di vita consacrata e per tutti coloro che nella Chiesa esercitano una qualche responsabilità di governo.

A questo proposito è utile rileggere LG 37, specie nei due ultimi capoversi, dove, specificando come si attua la relazione dei laici con la gerarchia, è espressamente raccomandato ai sacri pastori di servirsi volentieri del prudente consiglio dei laici, di considerare attentamente le loro richieste e i loro desideri. Il frutto di una siffatta relazione, sempre secondo il testo conciliare, sarà, da parte dei laici, la crescita del senso di responsabilità nel partecipare alla vita e alla missione della Chiesa e, da parte dei pastori, una più chiara conoscenza non soltanto nelle questioni che interessano direttamente la vita di fede, ma anche in quelle più specificatamente temporali.

Quando scienza, competenza e prestigio sono riconosciuti presenti in qualche fedele, laico o chierico, costituiscono una ricchezza e un dono destinati a convergere nell’edificazione dell’unico Corpo di Cristo. I fedeli devono essere consapevoli di questo e i pastori grati, e se ai primi si richiede coraggio e umiltà nell’esprimersi, ai secondi fiducia e disponibilità nell’ascoltare e nel fare tesoro.

Vorrei ora soffermarmi ad analizzare una tentazione che potrebbe inficiare anche il disegno ideale dell’organizzazione ecclesiastica, e cioè “la logica mondana della ripartizione del potere”.

Potere, servizio e responsabilità

Potrebbe essere che talora le nuove strutture sinodali, specialmente della Chiesa particolare, siano concepite, e talora persino strumentalizzate, in funzione di una logica mondana di potere: dall'alto verso il basso per la conservazione dello "status quo", dal basso verso l'alto per la scalata al potere, vale a dire in funzione della così detta "democratizzazione" della Chiesa. Proprio all'interno di quest'ultima tendenza si dimentica facilmente che anche la democrazia, come ogni sistema costituzionale, è una struttura di potere, che si pone perciò, lo si voglia o no, al pari di ogni sistema di governo, essenzialmente in termini di ripartizione di potere. Evidentemente tale dinamica del potere, se trasportata nell'ambito ecclesiale, non può non diventare radicalmente equivoca, perché nella Chiesa il rapporto strutturale, anche al livello decisionale-operativo, tra la Gerarchia e il resto del Popolo di Dio, non può mai ultimamente essere posto in termini di ripartizione di potere, a meno di scadere nell'empirismo teologico e perciò anche giuridico. Infatti, il problema non può essere posto né in termini ideologici di lotta di classe, né in quelli più tipicamente politici dell'equilibrio delle forze. All'interno della Chiesa il problema di una necessaria e ordinata ripartizione delle competenze non può mai coincidere, come ultimamente avviene all'interno dell'ambito statale, con il problema del possesso di una porzione più o meno grande del potere, perché il potere - se per potere si intende la responsabilità ultima e perciò il servizio specifico dei Vescovi di fronte alla vita della Chiesa - non è divisibile. La divisione delle competenze dovrebbe servire, nell'ordinamento canonico, solo a regolare, con un legittimo criterio di efficienza, l'intervento operativo delle singole persone e dei singoli organismi, tenendo conto della loro funzione e del loro carisma [13].

Voto consultivo e voto deliberativo

L’assemblea sinodale non esercita alcun potere democratico analogo a quello delle istituzioni parlamentari moderne. Il can. 466 del CIC, di fatto, stabilisce che “nel sinodo diocesano l’unico legislatore è il Vescovo diocesano, mentre gli altri membri del sinodo hanno solamente voto consultivo”. Dunque è solo il Vescovo ad attuare la potestà di governo; ai membri ammessi all’assise sinodale spetta di cooperare con lui nella funzione legislativa.

Evidentemente dentro una dinamica mondana di logica di potere anche l'istituto del voto consultivo può apparire solo come una pesante riduzione dell'effettivo esercizio del principio collegiale nella Chiesa e in pratica come una esclusione dall'esercizio del potere. In questo giudizio giocano evidentemente componenti di natura anche psicologica, ma al di là di queste, esso affonda le sue radici in una concezione ecclesiale mutuata da moduli mondani. Un’esplicitazione corretta della struttura sinodale della Chiesa, propria anche della Chiesa particolare, al livello giuridico formale della collegialità, può basarsi solo sul principio che il Vescovo, essendo il fondamento dell'unità della sua Chiesa, non può demandare la responsabilità di questo servizio a nessuno, neppure ad una maggioranza. Il problema dell'unità all'interno della comunità cristiana, che fa costantemente l'esperienza dell'esistenza di una maggioranza e di una minoranza, non può perciò essere risolto con l'assolutizzazione del principio maggioritario.

Anche al Concilio Ecumenico, dove peraltro i Vescovi godono di voto deliberativo, la votazione non può essere intesa come un atto di forza, attraverso il quale una maggioranza impone il suo punto di vista con criterio parlamentaristico. La votazione è un fatto giuridico-formale, che serve anzitutto a constatare l'opinione dei singoli Vescovi che rappresentano le singole Chiese particolari; non è un atto politico di potere, ma prima di tutto la constatazione di un fatto. Si tratta di constatare quali Chiese hanno raggiunto la comunione su un particolare problema. La ragione per cui la testimonianza del Papa è essenziale, in questo contesto, ha la sua origine nel fatto che la comunione con il Vescovo di Roma è costitutiva per la comunione dei Vescovi tra loro. La "Communio ecclesiarum" non è data necessariamente dalla maggioranza dei Vescovi come tale, ma da quei Vescovi che si esprimono in comunione con il Vescovo di Roma. Ciononostante il voto dei Vescovi mantiene tutto il suo peso e la sua forza inappellabile; non ha solo carattere consultivo, perché il loro compito non è, a questo livello, quello di consigliare il Papa, ma quello di testimoniare la fede che hanno e che vivono insieme alla loro Chiesa particolare. A rigore però il voto dei Vescovi al Concilio non è neppure voto deliberativo, se per deliberativo si intende un voto il cui valore vincolante formale è dato semplicemente nel segno della tradizione volontaristica, dalla forza della volontà umana; è deliberativo nel senso che la testimonianza dei Vescovi è la testimonianza decisiva, ultima. Nel loro voto emerge in modo inappellabile la fede della loro Chiesa, di tutte le Chiese particolari. La fede non è un fatto che può essere deciso volontaristicamente con criteri politici, la fede può essere solo constatata ed è integrale solo se è vissuta [14].

Proprio perché i preti e i laici non hanno all'interno dei Consigli Diocesani la stessa funzione dei Vescovi al Concilio, la loro testimonianza non è altrettanto qualificata. I preti sono i “collaboratori del Vescovo”, ma collaboratori necessari. I laici sono quei membri del Popolo di Dio che vivono lo stesso mistero della Chiesa e realizzano la stessa comunione cristiana dei Vescovi e dei preti, senza avere funzioni ministeriali speciali, ma con la funzione di servizio propria di tutto il Popolo di Dio. Al Vescovo, in quanto fondamento ultimo della vita della Chiesa particolare, spetta la responsabilità di dare un giudizio autoritativo sulla validità della collaborazione del suo presbiterio e sull'autenticità dei carismi di tutti i cristiani della propria Chiesa particolare. Il giudizio del Vescovo è autorevole, vale a dire si esprime geneticamente dentro la struttura propria della Chiesa, solo se si forma dentro la concretezza dei rapporti di comunione di tutto il popolo di Dio; altrimenti sarebbe non solo sociologicamente astratto e avulso dalla realtà, ma, quel che più conta, non si porrebbe come fatto di comunione cristiana, che è la struttura propria della Chiesa, diventando in ultima analisi un semplice atto di potere che si esprime in una logica mondana. Se l'ambito nel quale il Vescovo deve fare maturare il giudizio ecclesiale è la comunione di tutto il popolo di Dio, ne deriva che la struttura sinodale, individuata come essenzialmente funzionale a tale giudizio, deve essere caratterizzata necessariamente come ambito di comunicazione e di consultazione. La consultazione è essenziale e il voto consultivo è parte integrante e costitutiva del processo dal quale nasce il giudizio dell'autorità.

In altre parole, la potestà legislativa, la quale spetta solamente al Vescovo diocesano, e il carattere consultivo che caratterizza il voto dei membri partecipanti al Sinodo, non devono essere intesi in opposizione reciproca. Piuttosto devono essere considerati come due momenti dell’unico – e più autentico – processo di elaborazione delle decisioni ecclesiali. L’atto con cui il Vescovo sottoscrive le conclusioni del Sinodo, impegna la sua personale potestà episcopale e ne manifesta il significato autentico, in quanto non si tratta dell’esercizio di una volontà arbitraria, ma di un vero discernimento autorevole, che presuppone l’ascolto dei fedeli e la comune ricerca di ciò che lo Spirito suggerisce alla Chiesa. Emerge così il giudizio diventato comune all'interno di una Chiesa particolare, dove la qualifica di comune non è dunque mai misurabile con criteri matematici di maggioranza. Non solo, ma il giudizio comune non è costituito in quanto tale finché l'autorità non pronuncia la sua parola ultima [15].

L'istituto del voto consultivo perciò non può essere considerato come un istituto di compromesso tra una prassi autoritaria e una democratica. Non è uno strumento di esclusione dal potere, ma ha una forza vincolante propria, generata dalla struttura della comunione specialmente al livello della Chiesa particolare. In definitiva sia il voto deliberativo che quello consultivo, sono istituti giuridici che nella Chiesa traducono una realtà radicalmente diversa da quella della convivenza sociale umana. Il loro significato e la loro funzione giuridica sono solo analoghi a quelli degli istituti civilistici moderni, anche se sembra ormai dimostrato che questi ultimi hanno fortemente subito l'influsso da quelli ecclesiali e in particolare da quelli sviluppati negli Ordini e Istituti Religiosi. Sarebbe perciò profondamente errato pretendere per i Consigli Diocesani una funzione deliberativa che renderebbe il parere della maggioranza vincolante anche per il Vescovo, il quale invece non può demandare globalmente la sua responsabilità a nessuno perché tradirebbe la sua funzione all'interno della comunità ecclesiale, funzione di giudizio e di decisione sull'unità.

Fatte queste considerazioni, che cercano di cogliere, al di là di una concezione giuridica puramente civilistica anche se eventualmente formulata con concetti canonici, il mistero e la struttura della comunione ecclesiale, che non può essere ridotta a un problema di ripartizione di potere, ne risulta come corollario che una certa crisi riscontrabile nei Consigli Diocesani non può essere superata con riforme di natura puramente tecnico-giuridiche, quand'anche queste fossero da un punto di vista canonico veramente corrette, tanto più che ogni riforma giuridica è sempre relativa e che la natura delle cose, le situazioni concrete, la limitatezza dei mezzi espressivi domanderanno sempre di ricorrere all'istituto giuridico-formale del voto.

Ritengo perciò che i Consigli Diocesani non sempre funzionano secondo le aspettative, prima di tutto perché queste strutture non sono sempre vissute con autentica mentalità ecclesiale, ma con un tipo di preoccupazione che le fa concepire a volte come ambiti dove è in gioco l’acquisizione del potere, cioè come piccoli parlamenti e non come diaconia all'interno di un ambito di comunione.

La Chiesa può diventare una democrazia?

E' vero che diversi movimenti oggi reclamano, anche con violenza, una forma di democratizzazione della Chiesa, nel senso di integrare nella sua costituzione interna quel patrimonio di diritti della libertà che l'illuminismo ha elaborato e che da allora è stato riconosciuto come regola fondamentale delle formazioni politiche. Così sembra la cosa più ovvia recuperare quanto era stato trascurato e cominciare coll'erigere questo patrimonio fondamentale di strutture di libertà. Il cammino conduce - come si suole dire - da una Chiesa paternalistica e distributrice di beni ad una Chiesa-comunità. Si dice che nessuno più dovrebbe rimanere fruitore passivo dei doni che fanno esser cristiano. Tutti devono invece diventare operatori attivi della vita cristiana. La Chiesa non deve più venire calata giù dall'alto. No! "Noi siamo Chiesa" [16] è il nome di un movimento sorto di recente, che partendo dal principio che siamo noi che "facciamo" la Chiesa e la facciamo sempre nuova, dobbiamo farla diventare finalmente la "nostra" Chiesa, e noi i suoi attivi soggetti responsabili. L'aspetto passivo cede a quello attivo. Ecco allora che la Chiesa sorge attraverso discussioni, accordi e decisioni. Nel dibattito emerge ciò che ancora oggi può essere richiesto, ciò che oggi può ancora essere riconosciuto da tutti come appartenente alla fede o come linea morale direttiva. Vengono coniate nuove "formule di fede" abbreviate. In Germania, a un livello abbastanza elevato, è stato detto che anche la liturgia non deve più corrispondere a uno schema previo già stabilito, ma deve sorgere invece sul posto, in una data situazione, ad opera della comunità per la quale viene celebrata. Anche questa del resto, non deve più essere precostituita, dev'essere invece qualcosa di fatto da sé, qualcosa che sia espressione di se stessi. Su questa via si rivela essere di ostacolo per lo più la parola della Scrittura, alla quale però non si può del tutto rinunciare e che quindi va affrontata con ampia libertà di scelta. Non sono molti però i testi che si lasciano impiegare in modo tale da adattarsi senza disturbi a quell'autorealizzazione, alla quale la liturgia ora sembra essere destinata.

In quest'opera di riforma, in cui finalmente anche nella Chiesa l'autodeterminazione democratica deve sostituire l'essere guidati da altri, sorgono però presto delle domande. Chi ha qui propriamente il diritto di prendere le decisioni? Su quale base ciò avviene? Nella democrazia politica a questa domanda si risponde con il sistema della rappresentanza: nelle elezioni i singoli scelgono i loro rappresentanti, i quali prendono le decisioni per loro. Questo incarico è limitato nel tempo; è circoscritto anche contenutisticamente in grandi linee dal sistema partitico, e comprende solo quegli ambiti dell'azione politica che dalla Costituzione sono assegnati alle entità rappresentative. Anche a questo proposito rimangono delle questioni: la minoranza deve inchinarsi alla maggioranza, e questa minoranza può essere molto grande. Inoltre non è sempre garantito che il rappresentante che ho eletto agisca e parli davvero nel senso da me desiderato, cosicché anche la maggioranza vittoriosa, osservando le cose più da vicino, non può considerarsi affatto nella sua interezza come soggetto attivo dell'evento politico. Al contrario essa deve accettare anche "decisioni prese da altri", onde non mettere in pericolo il sistema nella sua interezza.

Più importante per la nostra questione è però un problema generale. Tutto quello che gli uomini fanno può anche essere annullato da altri. Tutto ciò che proviene da un gesto umano può non piacere ad altri. Tutto ciò che una maggioranza decide può essere abrogato da un'altra maggioranza. Una Chiesa che riposi solamente sulle decisioni di una maggioranza diventa una Chiesa puramente umana, ridotta al livello di ciò che è fattibile e plausibile, di quanto è frutto della propria azione e delle proprie intuizioni e opinioni, dove l'opinione sostituisce la fede. Effettivamente, nelle formule di fede coniate da sé, che io conosco, il significato dell'espressione "credo" o “noi crediamo”, non va mai al di là del significato "noi pensiamo". La Chiesa fatta da sé (“Religione fai da te”, come dice Benedetto XVI) ha alla fine il sapore del "se stessi", che agli altri "se stessi" non è mai gradito e ben presto rivela la propria piccolezza, si ritira nell'ambito dell'empirico, e così si dissolve anche come ideale sognato. La domanda che ora sorge spontanea è quali prospettive ecclesiologiche sono necessarie per superare una simile crisi.

La comunione come principio formale della vita ecclesiale

Dobbiamo tornare alla visione del cristiano, l'uomo nuovo, che avendo incontrato Cristo possiede di fatto una struttura, non solo morale ma ontologica, nuova. Egli ha nel Cristo la causa ultima della sua salvezza e della sua speranza; sa di appartenere a Cristo e sa che questa appartenenza genera in lui un criterio nuovo ed unico per affrontare la realtà e l'esistenza. Il cristiano possiede perciò un metodo nuovo di vita, che è reale tensione al coinvolgimento totale di sé con gli altri. La concezione dell'uomo come uomo nuovo, inaugurata da Cristo, è l'unica che risolve l'antinomia tra persona e società e permette anche di concepire in modo nuovo il pluralismo all'interno della Chiesa. Se la personalità cristiana si costituisce solo all'interno di un ambito di comunione, ne deriva che anche il pluralismo ecclesiale non può essere concepito come pluralismo di individui, ma fondamentalmente come pluralismo di Chiese particolari o di comunità.

La Chiesa universale, infatti, non è data dalla somma di tutti i cristiani riuniti in una grande diocesi, ma prima di tutto dalla comunione di tante Chiese particolari. Questa struttura si ripete anche all'interno delle singole Chiese particolari, dalle quali e nelle quali si realizza la Chiesa universale. Se il pluralismo ecclesiale è costituito in primo luogo da un pluralismo di comunità che hanno il loro momento genetico nella celebrazione dell'Eucaristia, è evidente che la tecnica del suffragio universale non può mai rappresentare il criterio esaustivo di espressione dell'opinione ecclesiale.

Il fatto della comunione domina tutta la personalità cristiana e ne informa le varie ed articolate espressioni. Non è quindi una cosa da fare tra le altre cose, è il modo di fare ogni cosa. Questo è capitale per intendere rettamente il significato delle strutture sinodali e di conseguenza il modo di lavorare in esse. Lo specifico dell'elemento ecclesiale, vale a dire il lavoro per un giudizio comune operativo-decisionale all'interno della comunità cristiana, non può mai essere ridotto ad una forma di attivismo associazionistico. Il "fare o decidere qualche cosa assieme" può eventualmente esaurire il significato delle associazioni secolari, come i circoli culturali, le società economiche e altre consimili, che non chiedono alle persone di giocarsi integralmente o comunque al di là delle prestazioni richieste. I cristiani per contro non si riuniscono mai solo per decidere qualcosa assieme, per dare una prestazione, ma per vivere la comunione facendo e decidendo assieme. La comunione non è in funzione dell'attività, ma l'attività in funzione della vita in comunione. La ragione ultima per cui i cristiani si riuniscono è data dal fatto che essi si riconoscono convocati da Cristo, originati e costituiti da Lui nella comunione.

I Consigli pastorali, diocesani e parrocchiali, e gli altri organismi di partecipazione si collocano nell’assetto e nella dinamica della Chiesa particolare, secondo la rinnovata disciplina canonica, espressione di quella ecclesiologia di comunione che ne costituisce l’idea centrale e fondamentale nei documenti del Concilio. Tutte le articolazioni sinodali anche delle diocesi si pongono come ambiti di comunione viva tesi a generare un giudizio comune sulla vita della comunità tutta, come contributo all'azione pastorale di cui il Vescovo è responsabile ultimo. Si tratta di un servizio nella comunione, che recuperando una categoria biblica può essere sinteticamente chiamato diaconia. Il problema del funzionamento delle strutture consultive diocesane è perciò essenzialmente il problema della conversione ad una simile concezione categoriale di esse. Da questa concezione del cristiano e della Chiesa come realtà di comunione si possono trarre alcune conseguenze.

La costruzione della Chiesa come impegno globale del cristiano

Il primo compito del cristiano è quello di costruire la Chiesa, affinché attraverso di essa possa avvenire l'annuncio della salvezza al mondo. L'annuncio cristiano non può avvenire individualisticamente, è un annuncio di comunione generato da una comunione.

La costruzione della Chiesa è il compito immediato al quale è chiamato indistintamente ogni cristiano, prescindendo da qualsiasi funzione ministeriale, perciò è il compito al quale è chiamato anche il fedele laico. Esso, infatti, non è costituito in quanto tale dalla sua indole secolare, ma dalla partecipazione "suo modo" alla funzione sacerdotale, profetica e regale di Cristo [17].

Costruendo la Chiesa il cristiano costruisce il mondo, lo anima, lo trasforma e redime perché la Chiesa è nel mondo [18]. Il Santo Padre Benedetto XVI ha recentemente invitato a riscoprire la vocazione laicale a servizio dell’annuncio evangelico: “Ogni ambiente, circostanza e attività in cui ci si attende che possa risplendere l’unità tra la fede e la vita è affidato alla responsabilità dei fedeli laici, mossi dal desiderio di comunicare il dono dell’incontro con Cristo e la certezza della dignità della persona umana. Ad essi spetta di farsi carico della testimonianza della carità specialmente con i più poveri, sofferenti e bisognosi, come anche di assumere ogni impegno cristiano volto a costruire condizioni di sempre maggiore giustizia e pace nella convivenza umana, così da aprire nuove frontiere al Vangelo” [19].

La vita del cristiano nel mondo è segnata e sostenuta dalle categorie generate dalla comunione ecclesiale senza conflitti e soluzione di continuità con la verità intrinseca alle realtà terrestri. Intesa in questo senso non esiste un'autonomia del cristiano come persona, ma solo un'autonomia delle cose. Il suo compito consiste nel sapersi rapportare con le realtà terrestri usando le categorie proprie della fede. E non esiste un'autonomia del laico nei confronti della gerarchia, nel senso che non esiste un ambito in cui il laico costruisce il mondo in modo disgiunto e indipendente senza costruire nello stesso tempo la Chiesa. Può costruire però la Chiesa solo in comunione con tutto il popolo di Dio e perciò anche con la gerarchia. Il rapporto tra laicato e gerarchia è perciò un rapporto di comunione, non di sottomissione né di potere.

L'efficacia dei Consigli Diocesani dipende pertanto, in primo luogo, dalla misura in cui le persone che vi fanno parte, Vescovo compreso, sono autorevoli per la disponibilità e totalità con la quale si lasciano coinvolgere tra loro dalla logica della comunione e per la prudenza con la quale esplicano la funzione o usano il carisma della competenza loro propria. Al di fuori di questa dinamica si cade inevitabilmente in una dinamica parlamentaristica unicamente fondata su un gioco di forze e sull'autorità giuridico-formale delle decisioni prese.

La diaconia come efficienza cristiana

L'operatività di un organismo decisionale consultivo, e perciò anche la sua forza di annuncio di comunione dentro la Chiesa particolare, non possono essere misurate in ultima analisi con un criterio di efficienza, anche se la tensione all'efficienza deve essere reale e totale. L'associazionismo e il parlamentarismo si esprimono e lavorano essenzialmente secondo una logica mondana di efficienza, la quale non mira solo a raggiungere risultati concreti ma tende a controllare con criterio puramente razionale gli effetti del proprio sforzo. L'efficienza è un valore umano che non può essere semplicemente trasposto in ambito ecclesiale, dove non è mai criterio di giudizio ultimo, perché la forza della proposta cristiana non dipende da una sapienza umana. Il criterio dell'efficienza è il prodotto di una logica di autoaffermazione e di potere. Questa logica mondana non può mai essere totalmente corretta da nessuna morale sociale o filosofica, perché solo il mistero della morte e resurrezione di Cristo è in grado di spezzare alla radice ogni categoria di potere, fosse pure umanamente molto equilibrata e morale. Anche la logica dell'interesse, che al pari di quella del potere, da cui deriva, muove e domina l'operatività mondana, non può essere eretta a criterio e sostegno del gesto cristiano. L'interesse è superato e capovolto cristianamente a tutti i livelli, dal concetto di diaconia, la quale è servizio fatto nella gratuità: "Chi perde la propria vita per causa mia la troverà" [20]. La crisi dei Consigli Diocesani può essere più facilmente compresa come derivante dall'uso più o meno consapevole di criteri di efficienza e di interesse, anche se certamente occorre fare tutto il possibile perché quanti vi prendono parte si sentano pienamente protagonisti. Tuttavia l’unico criterio che salva il funzionamento e di conseguenza l'efficienza ecclesiale degli organismi consultivi può essere solo quello della gratuità, che è diaconia senza pretesa di nessun risultato tangibile immediato, personale o comunitario.

Testimonianza invece di rappresentanza

L'idea fondamentale del parlamentarismo è quella della rappresentatività. Il potere è demandato dal popolo a persone che lo rappresentano, sulla base del suffragio universale. Nella comunità cristiana il concetto di rappresentatività è fondamentalmente diverso per due ordini di ragioni. Anzitutto le persone che guidano il Popolo di Dio non sono investite, anche quando fossero elette, del potere in forza del quale esercitano la loro diaconia, dal basso, ma dall'alto, attraverso il Sacramento e la missione. Al livello della Chiesa universale solo il Papa o tutto il Collegio Episcopale possono parlare in nome della Chiesa, cioè rappresentare la Chiesa. Al livello della Chiesa particolare, solo il Vescovo rappresenta la Diocesi; infatti, è lui, e non uno dei Consigli Diocesani, a rappresentare la Diocesi in seno al Concilio Ecumenico, né i Consigli Diocesani senza il Vescovo, possono rappresentare i cattolici di una Diocesi.

In secondo luogo la fede non è rappresentabile da nessuno, perché la salvezza è un fatto eminentemente personale. Non ci si può far salvare da un altro, come ci si può far rappresentare da un terzo nell'ambito economico o anche più strettamente personale, come nel matrimonio per procura. E' per contro affermazione corretta il dire che il Vescovo rappresenta la fede dei membri della sua Chiesa particolare, per esempio al Concilio Ecumenico. Il concetto di rappresentanza assume però in questo contesto un significato diverso, originalmente ecclesiale. Rappresenta questa fede solo nella misura in cui la sua fede è ortodossa, e quella corrisponde alla sua. Non la rappresenta in forza di un mandato dei suoi diocesani, ma la testimonia in forza della sua partecipazione più piena all'ufficio profetico, sacerdotale e regale di Cristo, mediatore tra Dio e gli uomini. La traduzione più corretta del concetto di rappresentanza è perciò in sede ecclesiale quello di testimonianza. Solo la testimonianza del Vescovo in merito alla sua Diocesi ha valore vincolante ultimo, cioè giuridico, con valore appunto di voto "deliberativo", in seno al Collegio Episcopale. Ne consegue perciò: da una parte che il rapporto tra le persone dentro la comunione non è riducibile a nessuna categoria giuridica civile – infatti, la natura del diritto canonico è solo analogica a quella del diritto secolare - dall'altra che i Consigli Diocesani non sono organi rappresentativi nel senso parlamentaristico della parola. I membri degli stessi non rappresentano la fede di nessuno, ma la propria fede. Per analogia con il Vescovo, ma solo per analogia, perché il loro gesto non ha la stessa forza vincolante, testimoniano la fede delle comunità dalle quali provengono.

Tutto questo comporta delle conseguenze. I membri dei Consigli Diocesani non sono rappresentanti parlamentari, ma semplicemente persone scelte, magari per elezione, per consigliare ed aiutare il Vescovo, nel governo della Diocesi. Ciò non toglie che la loro scelta non possa, anzi debba avvenire con criteri molto "rappresentativi", proprio perché il nesso del Vescovo con le parrocchie e gli altri gruppi comunitari, organizzati o meno, deve essere stretto e funzionale. La loro funzione perciò non è quella di rappresentare democraticamente la fede degli altri, e la loro prima diaconia è quella di realizzare l'esperienza di fede comune a tutto il popolo di Dio anche dentro l'ambito in cui devono svolgere il loro compito specifico [21].

Comunione come esperienza comune

La comunione è il principio formale della comunità cristiana, e di conseguenza anche di tutte le sue strutture e di tutti i suoi istituti giuridici. Il rapporto tra il Vescovo e i fedeli non può essere risolto ultimamente in termini di controllo di potere, ma solo in termini di esperienza di comunione. Le forme di controllo introdotte nel corso della storia per contenere gli abusi di potere da parte della gerarchia, raramente hanno generato un'autentica esperienza di comunione cristiana.

Applicato ai Vescovi il discorso di comunione implica un esercizio delle loro competenze entro un contesto di informazione e consultazione. La competenza consultiva dei Consigli Diocesani, introdotti dal Concilio Vaticano II, tende ad abbracciare tutti i settori della vita della Diocesi e della missione della Chiesa. Ciò non elimina la responsabilità eminentemente personale del Vescovo e il fatto che certi rapporti e problemi esigono, per loro natura, di essere trattati con la dovuta discrezione. Si tratta di saper leggere intelligentemente le situazioni e la natura delle cose. Il potere discrezionale del Vescovo è garanzia di comunione, perché esclude ogni forma di collettivismo meccanico [22].

Conclusione: l'essenza della vera riforma

Mi avvio alla conclusione con le parole pronunciate dal Cardinale J. Ratzinger a Rimini, il 1 settembre 1990, nel corso del Meeting dell’amicizia tra i popoli. «L'attivista, colui che vuol costruire tutto da sé, è il contrario di colui che tutto accoglie, tutto riceve con stupore rinnovato. Egli restringe l'ambito della propria ragione e perde così di vista il mistero. Quanto più nella Chiesa si estende l'ambito delle cose decise e fatte da sé, tanto più angusta essa diventa per noi tutti. In essa la dimensione grande, liberante, non è costituita da ciò che noi stessi facciamo, ma da quello che a noi tutti è donato e che non proviene dal nostro volere e inventare, bensì è un precederci, un venire a noi di ciò che è inimmaginabile, di ciò che è più grande del nostro cuore. La reformatio, quella che è necessaria in ogni tempo, non consiste nel fatto che noi possiamo rimodellarci sempre di nuovo la "nostra" Chiesa come più ci piace, che noi possiamo inventarla, bensì nel fatto che noi spazziamo via sempre nuovamente le nostre proprie costruzioni di sostegno, in favore della luce purissima che viene dall'alto e che è nello stesso tempo l'irruzione della pura libertà.

Lasciatemi dire con un'immagine ciò che io intendo, un'immagine che ho trovato in Michelangelo, il quale riprende a sua volta antiche concezioni della mistica e della filosofia cristiane. Con lo sguardo dell'artista, Michelangelo vedeva già, nella pietra che gli stava davanti, l'immagine-guida che nascostamente attendeva di venir liberata e messa in luce. Il compito dell'artista - secondo lui - era solo quello di toglier via ciò che ancora ricopriva l'immagine. Michelangelo concepiva l'autentica azione artistica come un riportare alla luce, un rimettere in libertà; non tanto come un fare.

La stessa idea, applicata però nell'ambito antropologico, si trovava già in san Bonaventura, il quale spiega il cammino attraverso cui l'uomo diviene autenticamente se stesso, prendendo lo spunto dal paragone con l'intagliatore di immagini, cioè con lo scultore. Lo scultore non fa qualcosa, dice il grande teologo francescano. La sua opera è invece un'ablatio: essa consiste nell'eliminare, nel togliere via ciò che è inautentico. In questa maniera, attraverso l'ablatio, emerge la nobilis forma, cioè la figura preziosa. Così anche l'uomo, affinché risplenda in lui l'immagine di Dio, deve soprattutto e prima di tutto accogliere la purificazione, attraverso la quale lo scultore, cioè Dio, lo libera da tutte quelle scorie che oscurano l'aspetto autentico del suo essere, facendolo apparire solo come un blocco di pietra grossolano, mentre inabita in lui la forma divina.

In una retta comprensione, possiamo trovare in questa immagine anche il modello-guida per la riforma ecclesiale. Certo la Chiesa avrà sempre bisogno di nuove strutture umane di sostegno, per poter parlare e operare ad ogni epoca storica. Tali istituzioni ecclesiastiche, con le loro configurazioni giuridiche, lungi dall'essere qualcosa di cattivo, sono al contrario, in un certo grado, semplicemente necessarie e indispensabili. Ma esse invecchiano, inglobano scorie che rischiano di presentarsi come la cosa più essenziale, e distolgono così lo sguardo da quanto è veramente essenziale. Per questo le scorie devono sempre di nuovo venir portate via, come impalcature divenute superflue. Riforma è sempre nuovamente un'ablatio: un toglier via, affinché divenga visibile la nobilis forma, il volto della Sposa e insieme con esso anche il volto dello Sposo stesso, il Signore vivente.

Una simile ablatio, una simile "teologia negativa", è una via verso un traguardo del tutto positivo. Solo così il Divino penetra, e solo così sorge una congregatio - un'assemblea, un raduno, una purificazione, quella comunità pura a cui aneliamo -una comunità in cui un "io" non sta più contro un altro "io", un "sé" contro un altro "sé". Piuttosto quel donarsi, quell'affidarsi con fiducia, che fa parte dell'amore, diventa il reciproco ricevere tutto il bene e tutto ciò che è puro. E così per ciascuno vale la parola del Padre generoso, il quale al figlio maggiore invidioso richiama alla memoria ciò che costituisce il contenuto di ogni libertà e di ogni utopia realizzata: "Tutto ciò che è mio è tuo..." (Lc 15,31; cfr. Gv 17,1)».

La vera riforma è dunque un'ablatio, che come tale diviene congregatio: purificazione per la comunione.

Vorrei concludere con un bel pensiero di San Giovanni Damascèno, dottore della tradizione ecclesiastica, specialmente orientale, di cui proprio oggi facciamo memoria. Egli ci invita ad essere protagonisti nella costruzione della Chiesa con ardente impegno e fedeltà: “Tu puoi, o nobile vertice di perfetta purità, o nobilissima assemblea della Chiesa, che attendi aiuto da Dio [e da tutti i tuoi membri!]; tu in cui abita Dio, accogli da noi la dottrina della fede immune da errore, e la dedizione delle opere; con esse si rafforzi la Chiesa, come ci fu trasmesso dai Padri” [23].

Grazie di cuore per il vostro paziente ascolto.


Fonti:

- Documenti del Concilio Vaticano II, soprattutto cost. dogm. Lumen gentium, e cost. past. Gaudium et spes.

- Codex Iuris Canonici, LEV 1983.

- Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium, LEV 1995.

- I discorsi del Papa alla Rota, Città del Vaticano, 1986.

- Lettera Enciclica di Giovanni Paolo II, Sollicitudo Rei socialis, 30 dicembre 1987.

- Esortazione Apostolica di Giovanni Paolo II, Christifideles laici, 30 dicembre 1988.

- Lettera Enciclica di Giovanni Paolo II, Centesimus Annus, 1 maggio 1991.

- Educare alla Legalità. Nota pastorale della Commissione ecclesiale Giustizia e Pace, Roma 4 ottobre 1991.

- Legalità, giustizia e moralità. Nota pastorale della Commissione Ecclesiale Giustizia e Pace, Roma 20 dicembre 1993.

- Stato sociale ed educazione alla socialità. Nota pastorale della Commissione ecclesiale Giustizia e Pace, Roma 1 maggio 1995.

- Arrieta Juan Ignacio, Il sistema dell’organizzazione ecclesiastica. Norme e documenti,Edizioni Università della Santa Croce, Roma 2006.

Bibliografia:

- Coste R., Les communautés politiques, Paris 1967.

- Corecco E., Parlamento ecclesiale o diaconia sinodale? in “Communio”, 1 (1972), 32-44.

- Mattai G., Morale politica, Bologna 1975.

- Maritain J., L'homme et l'Etat, trad. it.L'uomo e lo Stato, Milano 1975.

- Ghirlanda G., Il diritto nella Chiesa mistero di comunione, Roma, 1990.

- Berlingò S., Giustizia e carita nell'economia della Chiesa, Torino, 1991.

- Ratzinger J., La Chiesa - Una comunità sempre in cammino, Torino 1992.

- Rivella M. (a cura), Partecipazione e corresponsabilità nella Chiesa, Milano 2000.

- Associazione Teologica Italiana, Chiesa e sinodalità. Coscienza, forme, processi, a cura di Riccardo Battocchio e Serena Nocetti, Glossa, Milano 2007.

 

[1] Cfr. GS 29.

[2] Cfr. GS 73.

[3] Cfr LG 8.

[4]Cfr. CIC, can. 204.

[5] Cfr. CIC, can. 208.

[6] Cfr. CIC, can. 129 § 2.

[7] Cfr. LG 22 e 23.

[8] Cfr. GS 24.

[9] Cfr. can. 356 §1 CIC 1917.

[10] La Chiesa dispone di una riserva enorme di persone e di energie: non si devono tenere queste risorse sospese solo perché a volte difficilmente omologabili tra di loro. Come dimenticare quando afferma la LG al n.9, che cioè la Chiesa è "popolo di Dio in cammino, che ha per capo Cristo, per condizione la dignità e la libertà dei figli di Dio, nel cuore dei quali dimora lo Spirito Santo, che ha per legge il nuovo precetto di amare come lo stesso Cristo di ha amati, che ha per fine il Regno di Dio qui iniziato e che deve essere dilatato all'umanità e che sarà portato a compimento da Cristo quando ritornerà"? Realizzare sempre più questa Chiesa adombrata dalla Lumen gentium diventa per tutti un imperativo, anche se faticoso.

[11] LG 12b.

[12] LG 27c.

[13] In nome di una ripartizione delle competenze però, nessuno può essere escluso da una corresponsabilità effettiva e globale nella preparazione del giudizio di comunione dal quale deve nascere geneticamente l'intervento decisivo dell'Autorità. Il problema del potere all'interno del Popolo di Dio perciò non può essere, in ultima analisi, che quello della natura del rapporto a livello operativo-decisionale tra i Vescovi e gli altri cristiani e di conseguenza quello della modalità di partecipazione del clero e dei laici alla responsabilità che ultimamente spetta ai successori degli Apostoli, dell'annuncio cristiano nel mondo.

[14] E' un livello, quello di un simile voto, al quale non è possibile nessuna manipolazione politica, nessun cambiamento per opportunismo o tattica parlamentare. La testimonianza può mutare solo per un fatto di conversione, per l'adesione ad una sapienza cristiana che meglio traduca i valori contenuti nella Parola di Dio.

[15] Ciò ovviamente non elimina il rischio di errori. La possibilità di errore però sta appunto a significare che nella comunione cristiana il valore supremo non è l'affermazione della volontà di nessuno, non importa se maggioritaria o minoritaria, ma la coscienza di tutti che la comunione è una realtà che ci è antecedente, perché fatta da Cristo.

[16] International Movement We Are Church (IMWAC), movimento costituitosi come realtà nazionale e internazionale a seguito della raccolta di firme in appoggio ad un “Appello del Popolo di Dio” con cui si proponeva la necessità di una riforma profonda, personale e comunitaria della Chiesa cattolica. La raccolta delle firme ha avuto inizio in Austria nel 1995 e successivamente si è estesa a Germania, Sud Tirolo, Italia, Spagna, USA, Olanda, Belgio, Francia, Inghilterra, Portogallo e Canada. In queste nazioni nella Chiesa cattolica sono state raccolte complessivamente 2.500.000 firme di appoggio all'Appello. Nell'ottobre del 1997 circa 500 delegati di 20 nazioni sono convenuti a Roma per consegnare a Giovanni Paolo II le firme e per affermare la loro volontà di proseguire nel cammino di un profondo rinnovamento ecclesiale in vista di una unità delle Chiese cristiane confermata da un Concilio Universale.

[17] Cfr. cann. 204 § 1, 208 e 224 del CIC.

[18] Realizzando un modo nuovo di vivere i rapporti umani, affettivi, culturali, economici, sociali e politici, il fedele laico costruisce una nuova realtà di mondo senza correre il rischio di cadere in una situazione di dualismo. Come infatti il cristiano è chiamato a rispettare la logica interna della Parola e del Sacramento, così deve rispettare il valore e la logica interna delle realtà terrestri in obbedienza al loro statuto proprio.

[20] Mt 10, 37.

[21] Una simile concezione esclude la possibilità di cercare nello stile parlamentare, sempre di più determinato dai partiti politici e perciò dalla lotta per il potere tra le forze della destra e della sinistra, la soluzione dei bisogni della comunità cristiana. La formazione anche nella Chiesa di fronti tendenti alla conservazione o al progresso, è un atto praticamente inevitabile a causa del nostro limite umano. Questi fronti sono sempre stati i limiti di tutti i Concili. Il fenomeno va accettato senza sottovalutarne l'aspetto positivo, cioè la possibilità che attraverso una pluralità di accenti si pervenga alla lettura più completa della complessità dei problemi, ma senza assolutizzare questa dialettica fino a definirla necessaria al progresso nella Chiesa, perché questo non può essere previsto e programmato, e perciò neppure schematizzato, secondo categorie che sono troppo ristrette e inadeguate a cogliere una realtà che nel suo farsi è mistero.

[22] La comunione tuttavia, se non vuole ridursi a un'espressione solo sentimentale e perciò facilmente eludibile, esige dai Vescovi di vivere in comunione con i propri fedeli, collaborando in tutti i settori della vita ecclesiale. Al Vescovo è domandato di investire i Consigli Diocesani di tutte le responsabilità e competenze necessarie per preparare e costruire il giudizio comune indispensabile per guidare con un criterio cristiano di servizio la vita della Diocesi. Così egli attua la propria diaconia, che risulta la prima, e ha valore di segno, in quanto viene da Colui che è il fondamento dell'unità del Popolo di Dio e il primo responsabile della vita della comunione.

[23] Cfr. San Giovanni Damasceno, Dichiarazione di fede, Cap.I; PG 95, 419.

 

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