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SOLENNITÀ DI SAN CAMILLO DE LELLIS

OMELIA DEL CARD. TARCISIO BERTONE,
SEGRETARIO DI STATO DEL SANTO PADRE

Chiesa di Santa Maria Madalena
Martedì, 14 luglio 2009

  

Carissimi Fratelli e Sorelle,

sono particolarmente onorato di celebrare oggi la Solennità di San Camillo de Lellis in questa chiesa di Santa Maria Maddalena, attigua alla Casa Generalizia, dove egli dal dicembre del 1586 fino alla sua morte, avvenuta il 14 luglio 1614, con i suoi primi Religiosi ha vissuto e testimoniato l’esaltante esperienza della carità verso gli infermi.

Ringrazio quindi il Superiore Generale, padre Renato Salvatore, i Reverendi Consultori e tutti i Religiosi Chierici Regolari Ministri degli Infermi, per l’invito rivoltomi. Ugualmente, porgo il mio saluto alle Religiose dei due rami femminili, rispettivamente le Figlie di San Camillo e le Ministre degli Infermi, che, sorte nell’800, hanno fatto proprio lo spirito evangelico, testimoniato da questo Santo della carità che ancora oggi costituisce un modello per tutta la Chiesa.

La figura di San Camillo è immediatamente ed emblematicamente legata alla croce rossa che egli ottenne di portare cucita sull’abito religioso da papa Sisto V con il Breve Cum Nos nuper del 20 giugno 1586. In particolare, come riferisce nel 1620 padre Sanzio Cicatelli, primo biografo del Santo, “per tre ragioni piacque al padre nostro che portassimo la Croce né vestimenti, tenendola per nostra impresa e insegna. La prima per far distinzione dall’abito della Compagnia di Gesù. La seconda per far conoscere al mondo che tutti noi segnati di questo impronto di Croce siamo come schiavi venduti e dedicati per servigio dè poveri infermi. E la terza per dimostrare che questa è religione di croce, cioè di morte, di patimenti e di fatica, acciò quelli che vorranno seguitar il nostro modo di vita, si presuppongano di venir ad abbracciare la Croce, di abnegar se stessi e di seguitar Giesù Cristo fino alla morte”.

Non risulta strano, pertanto, che lo stesso Santo non si sia mai distaccato dal Crocifisso, ora venerato nella cappella alla mia sinistra, dal sorgere dell’idea dell’Istituto nelle corsie dell’Ospedale di San Giacomo in Augusta fino a portarlo, da ultimo, in questa chiesa, memore di un legame indissolubile che si era rafforzato e consolidato anche a seguito delle parole incisive e severe che lo stesso Crocifisso, in un momento di sconforto e di scoraggiamento, secondo la tradizione, aveva proferito a quel gigante nei tratti fisici e spirituali. Infatti, secondo quanto riferito sempre da padre Cicatelli, “poiché ritrovandosi egli in un’altra grandissima tribolazione, per l’infinite difficoltà che se gli paravano avanti […] ricorrendo egli all’oratione e alla detta Santissima Imagine, perseverando in quella con lagrime e sospiri, vidde che l’medesimo e Santissimo Crocifisso, havendosi distaccate le mani dalla Croce, lo consolò e lo animò, dicendogli: Di che t’affliggi o pusillanimo? Seguita l’impresa ch’io t’aiuterò, essendo questa opera mia e non tua…”.

Quell’incoraggiamento rivolto a San Camillo dal Crocifisso a proseguire nell’opera di carità intrapresa, e segnato visivamente anche dalla croce posta sul petto nell’abito dei suoi religiosi, risuona anche per noi oggi secondo i diversi carismi e ministeri conferitici, indicandoci il perenne valore della carità, come abbiamo ascoltato nel brano della prima Lettura, tratto dal libro del Siracide: “Non rifiutare il sostentamento al povero, non esser insensibile allo sguardo dei bisognosi, non respingere la supplica di un povero, non sì distogliere lo sguardo dall’indigente…”.

Affiora così l’intrinseco legame tra Crocifisso e carità, che si ripropone anche nella “Formula di vita” redatta da San Camillo per il suo Ordine, e che contiene tutti gli elementi che verranno in seguito ripresi nel 1591 nella Bolla di istituzione “Illius qui pro gregis” di Papa Gregorio XIV; la “Formula di vita”, infatti, mentre indica la specificità del carisma dei Ministri degli Infermi, riafferma la priorità del Crocifisso e la funzione primaria della carità nel servizio agli ammalati: “Se alcuno - sono le parole di San Camillo -, ispirato dal Signore Iddio, vorrà esercitare l’opre di misericordia, corporali et spirituali, secondo il Nostro Istituto, sappia che ha da esser morto a tutte le cose del mondo, cioè a parenti, amici, robbe, et a se stesso, et vivere solamente a Giesù Crocifisso sotto il suavissimo giogo della perpetua povertà, castità, obidienza et servigio delli poveri infermi ancorché fussero appestati, nei bisogni corporali et spirituali, di giorno et di notte […], il che farà per vero amor de Dio, et per far penitenza de suoi peccati; ricordandosi della Verità Christo Giesù, che dice: quod uni ex minimis meis fecistis, mihi fecisti; dicendo altrove: infirmus eram et visitastis me, venite benedicti mecum, et possidete Regnum vobis paratum ante constitutionem mundi[1].

Queste parole, riecheggiate anche nel Vangelo odierno in questa chiesa dove riposano le spoglie mortali del vostro Fondatore, cari Religiosi Ministri degli Infermi, ci offrono la possibilità di soffermarci brevemente sul senso della consacrazione religiosa secondo quel particolare carisma, che nel corso della storia ha contraddistinto il vostro Ordine e ancora oggi costituisce motivo di stima e di autentica testimonianza della carità stessa di Cristo e della sua Chiesa, in particolare nelle strutture socio-sanitarie nelle quali siete presenti, soprattutto in terra di missione, e che anch’io ho potuto personalmente visitare il 5 marzo 2008, in occasione della mia Visita all’Ospedale “Redemptoris Mater” di Ashotsk in Armenia.

Quell’Ospedale, infatti, voluto dalla solidarietà del Servo di Dio Giovanni Paolo II per il tramite della generosità della Caritas Italiana e costruito all’indomani del terribile terremoto che, quasi vent’anni fa, colpì quella che era ancora la Repubblica Socialista Sovietica di Armenia, e in assenza di qualsiasi forma organizzata della Chiesa Cattolica, costituì il primo segno di amore e di vicinanza che il Papa poté mostrare al popolo armeno. La generosa quanto pronta disponibilità di voi, Religiosi Camilliani, e delle Piccole Sorelle di Gesù consentì a quest’opera di servire i poveri in piena gratuità, per tutti questi anni e fino ad oggi con un instancabile ed encomiabile impegno. Di questo, anche a nome del Santo Padre Benedetto XVI, ve ne sono grato, certo che Dio non mancherà di benedire con l’abbondanza della sua grazia la vostra Famiglia religiosa.

Il comandamento dell’amore al prossimo, che nel corso dell’Antico Testamento - ricordatoci anche nel libro del Siracide - poteva apparire in qualche modo come secondario di fronte al comandamento dell’amore a Dio, si sposta nel Nuovo Testamento addirittura in primo piano, ma in modo tale che la sua misura diviene lo stesso amore del Dio fatto uomo: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati” (Gv 15, 12). Chi non ha l’amore è a tal punto caduto fuori dalla sua vocazione, da ciò a cui è destinato, che egli, pur quanto al corpo, è morto: “Chi non ama, rimane nella morte” (1Gv 3, 14), egli stesso ha pronunciato su di sé il giudizio di condanna. Poiché su nient’altro verrà giudicato nel giorno del Giudizio che sull’amore. Questa sarà la sorpresa, per il buoni come per i cattivi. Fino all’ultimo essi non avranno afferrato quanto seriamente, quanto sia alla lettera l’unità di amore a Dio e al prossimo intesa dal Signore che ora fa da giudice. All’affermazione del Signore i giusti porranno stupiti, non meno degli ingiusti, la domanda: “Signore, quando mai ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? (…) Ma il Signore risponderà loro: ‘In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me’” (Mt 25, 34-40). Chi ama cristianamente il prossimo ha amato Dio in lui, e chi così ama ha adempiuto al comandamento dell’amore ed entra nella vita eterna.

In tal modo, viene altresì ribadito che la vocazione all’amore è assoluta, non tollera alcuna eccezione. E l’amore, che è il destino a cui siamo chiamati, non lo è in una qualche forma misurata, limitata, ristretta forse in maniera corrispondente alle nostre deboli energie umane. Non una parte soltanto della nostra vita deve venire occupata dall’amore; non un periodo soltanto della nostra vita deve essere consacrato all’amore, mentre gli altri momenti potrebbero forse essere dedicati a noi stessi. Il comandamento è universale, precisamente in una forma concerta, che richiede e riserva per sé tutto della nostra natura: “Con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutte le forze” o, secondo la “Formula di vita” intesa da San Camillo, “morto al mondo, cioè ai parenti, amici, cose e a se stesso, per vivere solamente per Gesù crocifisso”.

Il senso dei voti religiosi da voi Ministri degli Infermi professati sulla scia del vostro Fondatore, richiede la radicalità e la definitività, perché l’amore perfetto consiste nell’offerta di sé senza condizioni, “in donum sui”. Contenuto di ogni amore reale è questo atto di offerta, che pone a disposizione di Dio tutto ciò che ha di proprio, gli affida tutto come un dono consacrato, con la forma interiore del voto.

Ma ciò che compete a voi come religiosi, non è dissimile dall’impegno che, come affermava San Paolo nella Lettera ai Romani, conformemente ai “doni diversi secondo la grazia data a ciascuno di noi” (Rm 12, 6), è affidato ad ogni cristiano. In particolare, vedendo in questa occasione di festa anche persone e amici che appartengono al mondo politico e dell’imprenditoria finanziaria, e che fanno corona al vostro Fondatore, non si può non rilevare che il vostro impegno specifico si fa oggi più incisivo, soprattutto di fronte a scelte che, particolarmente in questo momento di crisi mondiale, potrebbero rischiare di perdere di vista il bene comune, come bene simultaneamente di tutti e di ciascuno, e soprattutto a scapito della inviolabile dignità della persona umana e, in specie, di coloro che costituiscono l’anello più debole della società, la vita nascente, i poveri, i malati, i disabili, le persone in stato terminale…

Nella sua recente enciclica Caritas in veritate, Benedetto XVI denuncia le “manifestazioni abusive di dominio sulla vita, che in certe condizioni viene considerata non più degna di essere vissuta. Dietro questi scenari stanno posizioni culturali negatrici della dignità umana. Queste pratiche, a loro volta, sono destinate ad alimentare una concezione materiale e meccanicistica della vita umana. Chi potrà misurare gli effetti negativi di una simile mentalità sullo sviluppo? Come ci si potrà stupire dell'indifferenza per le situazioni umane di degrado, se l'indifferenza caratterizza perfino il nostro atteggiamento verso ciò che è umano e ciò che non lo è? Stupisce la selettività arbitraria di quanto oggi viene proposto come degno di rispetto. Pronti a scandalizzarsi per cose marginali, molti sembrano tollerare ingiustizie inaudite” (cfr n. 75). E’ questo, del resto, l’insistente monito con il quale il Santo Padre non manca di mettere i dito nella piaga del dramma non solo dell’Europa, ma dell’intera umanità. Dramma non superficiale, perché raggiunge i livelli più profondi delle culture e dell’ethos collettivo, nello smarrimento dell’identità dell’uomo che affonda le radici nella dimenticanza di Dio.

In questo scenario, come non apprezzare le diverse iniziative per celebrare il IV Centenario della morte di San Camillo de Lellis, che cadrà nell’anno 2014? Fra queste, in particolare, la Fondazione Camilliana Progetto Salute, che intende coinvolgere laici e religiosi per promuovere e per realizzare attività di alta formazione, di qualificazione e di aggiornamento professionali in campo socio-sanitario, sia sotto il profilo scientifico che gestionale; essa costituisce un’opportunità, per recuperare il valore umano della vita della persona umana e soprattutto della persona ammalata, nella certezza che chiunque ama l’uomo per quello che è, e non semplicemente per quello che serve, implicitamente afferma la trascendenza e postula il Trascendente, Dio.

Tenendo fisso lo sguardo a questo impegno e assumendoci, come religiosi e come laici, le nostre responsabilità per una “nuova scuola di carità” così come l’ha indicata San Camillo, a favore della persona umana, in qualunque sembianza essa si presenti, fosse anche quella più martoriata dalle ferite corporali o spirituali, potremo veramente vedere Dio, recuperando le radici più profonde della nostra cultura e della nostra convivenza civile ed ecclesiale.

Maria, che ha creduto prima di vedere e per questo è stata inabitata dalla stessa carità di Dio divenendone Madre; Maria, che in questa Chiesa viene invocata con il titolo di Salute degli Infermi e, ancora prima, quando l’immagine della Vergine venne donata a questa chiesa il 25 maggio 1616, con il titolo di Santa Maria della Sanità (Sanctae Mariae Sanitatis), sia gelosamente custodita e amata da voi Ministri degli Infermi e da tutti noi come il tipo, il modello della reintegrazione della sanità totale dell’intera umanità.

Con il suo materno aiuto e spronati dall’esempio di San Camillo, lasciamoci plasmare nell’esercizio della carità, per scrutare fino in fondo e proprio nel volto sfigurato del fratello infermo, il mistero dell’amore divino, nel quale un giorno speriamo di essere accolti definitivamente e per sempre. Amen.


[1] “E - sono le parole di San Camillo -, ispirato dal Signore, uno vorrà esercitare le opere di misericordia corporali e spirituali secondo il nostro Istituto, sappia che deve essere morto al mondo, cioè ai parenti, amici, cose e a se stesso, per vivere solamente per Gesù crocifisso sotto il soavissimo giogo della perpetua povertà, castità, ubbidienza e servizio dei poveri infermi anche appestati, nelle necessità corporali e spirituali, di giorno e di notte […]. Farà questo per vero amore di Dio, per la penitenza dei propri peccati, ricordandosi di quanto la Verità, Gesù Cristo, dice: ‘Ciò che avete fatto a uno di questi minimi miei fratelli, l’avete fatto a me’, e altrove: ‘Ero infermo e mi avete visitato: venite con me, o benedetti, possedete il Regno preparato per voi prima della fondazione del mondo’”.

  

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