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1° FESTIVAL DELLA DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA

DISCORSO DEL CARD. TARCISIO BERTONE,
SEGRETARIO DI STATO DEL SANTO PADRE

Verona
Domenica, 18 settembre 2011

 

LA SPIRITUALITÀ CRISTIANA
COME MODO DI ESSERE NEL MONDO PER CAMBIARLO

Eccellenza Reverendissima,
Illustri Signori e Signore,
cari amici!

Quando ho ricevuto l’invito di Mons. Adriano Vincenzi a questa iniziativa – invito per cui lo ringrazio di cuore – ho pensato che solo poco tempo fa sarebbe stato difficile pensare ad un “Festival della Dottrina sociale della Chiesa”. Il fatto che oggi si sia realizzato significa almeno due cose: che la società italiana, grazie a Dio, nutre un’apertura e un interesse sempre attuali per il pensiero cattolico e la sua proposta etica; e inoltre, più in particolare, che la dottrina sociale della Chiesa sta conoscendo un rinnovato interesse, teorico e pratico. A questo proposito, debbo congratularmi con i promotori del Festival, che non è un momento isolato, ma dà visibilità ad un impegno diffuso e durevole, portato avanti da gruppi e associazioni in tutta Italia.

a) Brevi considerazioni sulla spiritualità cristiana

Ho voluto precisare il tema del mio intervento in questi termini: “La spiritualità cristiana come modo di essere nel mondo per cambiarlo”. Partirei dunque da una breve considerazione sulla spiritualità cristiana, che sta alla base delle diverse espressioni generate dai carismi di cui lo Spirito Santo ha arricchito la Chiesa, assicurando in essa il fondamento della santità vissuta.

Una domanda innanzitutto: dove nasce e come si costituisce “la spiritualità cristiana”? La risposta appare al contempo semplice ed esigente: “essa nasce dal rapporto personale con Dio in Gesù Cristo”. Da ciò deriva uno stile di vita interiore che si conforma personalmente a quello di Gesù, mediante l’azione dello Spirito Santo, e da cui consegue esteriormente la responsabilità etica in vista dell’altro. Ecco allora perché la dimensione spirituale si configura, anche dal punto di vista teologico secondo una prospettiva insieme verticale ed orizzontale. Verticale perché nasce e si nutre dell’incontro con Dio (e questo è sempre un dono dall’Alto), orizzontale, perché si traduce in senso relazionale e sociale, comunitario ed ecclesiale. Perché ho incontrato Cristo nella mia vita sono responsabile del mio prossimo come di me stesso: l’altro, il lontano diventa mio familiare al punto da chiamarlo fratello. E ciò fino alla dimesione più radicale: “io amo, in Dio e con Dio, anche la persona che non gradisco o neanche conosco. Questo può realizzarsi solo a partire dall'intimo incontro con Dio, un incontro che è diventato comunione di volontà arrivando fino a toccare il sentimento” (Benedetto XVI, Deus caritas est, n. 18).

Lo stile di vita di Gesù, il suo modo di essere nel mondo, possiede come fine ultimo, non di lasciarlo così com’è, ma di trasformarlo. Come direbbe il poeta Charles Péguy, Gesù non è venuto nel mondo per fare una passeggiata e raccontare alcune storielle edificanti, ma “propter nos homines et propter nostram salutem”, come recita il Credo. Si è fatto uomo per salvare l’uomo, per tirarlo fuori dalle sabbie mobili del male. Solo Lui poteva farlo e può farlo, con l’onnipotenza di Dio, che è onnipotenza d’amore.

b) La Dottrina sociale della Chiesa contiene e trasmette una spiritualità

Nell’ambito ristretto di questa mia esposizione non mi è consentito di tracciare un quadro esaustivo degli elementi che formano la dimensione concreta e etica della spiritualità vissuta dal cristiano. Mi interessa però sottolineare che la dottrina sociale contiene in sé e trasmette una spiritualità che è portatrice di un messaggio di rinnovamento della società e del mondo. Questa spiritualità ha, da una parte, un carattere immutabile, perché intrinseco alla spiritualità cristiana; dall’altra, essa riflette le sensibilità e le accentuazioni dei diversi contesti storici e geografici in cui la Chiesa vive. Attualmente, le coordinate in cui ci troviamo sono quelle del Concilio Vaticano II e del magistero dei Pontefici Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Magistero sociale, ma non solo, o almeno non in senso stretto. Basti pensare, infatti, a quanto abbiano inciso nella nostra spiritualità espressioni quali, ad esempio, la definizione della Chiesa posta all’inizio della Lumen gentium: “La Chiesa è in Cristo come sacramento, ossia segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano”; oppure l’incipit della Gaudium et spes: “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuori”. La nostra spiritualità è impregnata di queste espressioni. Oppure di quest’altra, che troviamo nella prima Enciclica di Giovanni Paolo II, la Redemptor hominis: “In questa via che conduce da Cristo all’uomo, su questa via sulla quale Cristo si unisce ad ogni uomo, la Chiesa non può essere fermata da nessuno” (n. 13). La concezione della Chiesa quale mistero di comunione in Cristo e di missione nel mondo è alla base della spiritualità cattolica degli ultimi 50 anni e quindi anche della dottrina sociale di questa epoca.

c) Una spiritualità per i laici

Tutto questo, che potremmo sintetizzare con l’espressione “spiritualità del Concilio Vaticano II”, vale per ogni stato di vita nella Chiesa: sacerdoti, religiosi e laici. Naturalmente ciascuna vocazione particolare, con i relativi carismi e ministeri, comporta poi caratteri specifici, o accentuazioni proprie. Qui devo privilegiare evidentemente la vocazione dei laici a vivere la spiritualità cristiana come modo di essere nel mondo per cambiarlo. A questo proposito, dopo quelli conciliari, il Documento di riferimento è l’Esortazione apostolica postsinodale Christifideles laici di Giovanni Paolo II: non fa parte della Dottrina sociale della Chiesa, ma ha con essa grande attinenza proprio in ragione del ruolo primario che i laici rivestono nell’impegno diretto in campo sociale e politico.

A questo proposito vorrei ricordare l’invito formulato da Benedetto XVI nel corso della sua visita pastorale a Cagliari nel settembre 2008. Egli ha espresso un auspicio che ha avuto grande risonanza mediatica: il cristiano, mosso dallo Spirito Santo che vive in lui, sia reso capace “di evangelizzare il mondo del lavoro, dell’economia, della politica, che necessita di una nuova generazione di laici cristiani impegnati, capaci di cercare con competenza e rigore morale soluzioni di sviluppo sostenibile”.

In questi ultimi decenni è emersa con chiarezza l’affermazione della responsabilità dei laici in tali ambiti di azione. Occorre soprattutto valorizzare il loro apporto originale, arricchito dall’esperienza e dalla competenza. Essi, infatti, possono contribuire in maniera decisiva all’educazione della coscienza sociale; al discernimento in situazioni complesse e specifiche, come pure per giudizi morali su problemi sociali, o per scelte e orientamenti operativi concreti; possono contribuire alla diffusione, all’approfondimento e all’elaborazione della stessa Dottrina sociale della Chiesa; alla preparazione e realizzazione di progetti di pastorale sociale; in genere, a far crescere la sensibilità, l’attenzione e l’iniziativa della comunità ecclesiale in campo sociale. Il lavoro, ad esempio, che ha stimolato fin dai tempi passati forme di alta spiritualità (basti pensare ad esempio al coinvolgimento spirituale individuale e collettivo di artisti e maestranze nella costruzione delle grandi cattedrali) richiede, nel mutare dei tempi, nuove reti di solidarietà sostenute da una robusta spiritualità. Vorrei ribadire, in questo contesto, quanto ho avuto modo di dire recentemente al Convegno delle ACLI riguardo al lavoro come “vocazione”. Ho ricordato che la dottrina sociale della Chiesa coglie questa dimensione teologica del lavoro là dove indica la sua realtà collettiva e sociale e là dove afferma che il lavoro umano contribuisce, certo in modo misterioso ma reale, alla nuova creazione, ai cieli nuovi e alle terre nuove (cfr. Gaudium et spes, 34). Il lavoro vissuto come vocazione, è mezzo ordinario di santificazione, perchè vissuto come attuazione laica e concreta della volontà di Dio. Si pone allora in evidenza una dimensione comunitaria della santità, vissuta non più solo nei monasteri e nei conventi, ma anche nelle comunità delle donne e degli uomini del lavoro. Contemplazione e azione nel mondo, nel cuore stesso delle strutture produttive per la presenza di Gesù stesso secondo la sua promessa (“Dove due o più sono uniti nel mio nome io sono in mezzo a loro”, Mt 18,20) fra i lavoratori.

Questi contributi sono elementi molto importanti dell’opera della nuova evangelizzazione, alla quale siamo oggi chiamati. In sostanza, dai laici, e dalla qualità della loro spiritualità, dipende in buona parte la nuova evangelizzazione dell’ambiente sociale e, di conseguenza, la sua trasformazione secondo le prospettive di una visione alta dell’uomo e della società.

L’essere nel mondo da cristiano domanda una continua rivalutazione del principio di responsabilità verso Dio e verso gli altri, tanto nella dimensione personale come in quella comunitaria. Tale esigenza etica è stata interpretata con particolare profondità anche da alcuni filosofi contemporanei non cristiani. Penso in particolare ad Emmanuel Lévinas che ci ha donato riflessioni personalissime su questo tema. Ne cito una tratta dal testo “Umanesimo dell’altro Uomo”: “Essere Io significa, in conseguenza, non potersi sottrarre alla responsabilità, come se tutto l’edificio della creazione posasse sulle mie spalle” (pag. 73).

L’umanesimo della responsabilità, illuminato poi dalla fede e radicato nell’incontro con Cristo, assume per i cristiani il valore fondamentale della Testimonianza. In questa prospettiva non esiste una sorta di contrapposizione tra dimensione spirituale ed azione sociale, ma proprio a partire dal Mistero dell’Incarnazione di Cristo e della Sua libera donazione per la Salvezza del mondo, possiamo dire che non può esistere un vero atto di “redenzione” sociale dell’uomo e della sua dignità che non sia, allo stesso tempo, espressione dell’Amore di Dio.

Questo impegno conferma i due aspetti accennati all’inizio: la necessità del forte radicamento in Cristo, radicamento sacramentale, eucaristico - “La Chiesa è in Cristo come sacramento…” - e servizio alla società. Un servizio che non si declina semplicemente con l’aspetto assistenziale, ma solidale e di condivisione, come quello di Gesù.

d) Alcuni elementi di una spiritualità vissuta a beneficio delle convivenza umana per migliorarla

Alcuni elementi di una spiritualità vissuta a beneficio della convivenza umana per migliorarla, meritano di essere sottolineati: la partecipazione sociale (ricordo che l’ACR aveva fatto proprio, ormai molti anni fa, il celebre slogan di Don Lorenzo Milani: “I care”, “Mi interessa”), la collaborazione, la conversione perenne, l’incarnazione e la condivisione. Il tutto suffragato dall’adesione alla Croce di Cristo nell’offerta delle proprie fatiche e sofferenze e alimentato dalla preghiera.

Un breve esame in senso ecclesiale di questi elementi, può essere utile. Se, come abbiamo detto, la spiritualità cristiana per sua natura porta alla partecipazione e all’incarnazione nelle realtà umane per migliorarle, ne consegue che oggi più che mai la Chiesa può e deve essere una scuola di partecipazione ed anche una scuola di collaborazione, nel senso che chi vuole impegnarsi per cambiare il mondo non può illudersi di farlo da solo, ma sempre in una rete relazionale globale, mettendo in comune i diversi doni, le idee e le forze.

Entrambi questi aspetti – partecipazione e collaborazione – domandano di radicarsi anzitutto a livello interiore, in una spiritualità che si traduce in atteggiamenti e stile di comportamento. Fra questi di massima importanza è quello della conversione, da intendersi come atteggiamento interiore permanente. Chi vuole agire nel mondo per migliorarlo, deve prima di tutto coltivare sempre in se stesso questo atteggiamento, considerando la propria vita come il primo campo in cui lavorare, con la grazia di Cristo. Come Francesco d’Assisi, che riparò la casa di Dio, che era in rovina, incominciando da se stesso, con la sua personale conversione, e mantenendo tale impegno per tutta la vita. Perciò è diventato testimone e apostolo di riconciliazione e di pace.

Entrando poi nel merito dello stile operativo, bisogna prendere in considerazione la necessità dell’incarnazione. Il cristiano, guarda al mondo come creazione di Dio, dunque non come luogo da cui uscire, per sfuggire dai mali che lo feriscono, ma al contrario in cui essere presente, come Gesù Cristo, per rinnovarlo dall’interno con la forza creatrice dello Spirito Santo, che opera in quanti con animo retto lottano e soffrono per il bene e la verità. La volontà di rinnovare le realtà secolari dall’interno comporta il rispetto della loro sana laicità e delle loro leggi proprie; implica inoltre la cura delle competenze specifiche nei diversi campi di studio e di lavoro. Tutto questo sempre fortemente animato dall’ispirazione cristiana: come Gesù ha potuto immergersi pienamente nel mondo perché la sua vita rimaneva sempre profondamente ancorata al Padre, così il cristiano che vuole inserirsi senza riserve nelle complesse realtà secolari, deve conservare un saldo radicamento spirituale ed ecclesiale.

L’incarnazione richiede discernimento, ossia la capacità di valutare in modo critico i valori in campo, le proposte, le tendenze, per decifrarne le ambiguità e riconoscere i pericoli, soprattutto quelli che minacciano la pace che, magari dietro una facciata allettante e “politicamente corretta”, possono attentare alla dignità dell’uomo. Non dimentichiamo il monito di Giovanni XXIII espresso nella Pacem in terris, di cui nel prossimo 2013 si celebrerà il 50° anniversario. Egli affermava: “Una deviazione, nella quale si incorre spesso, sta nel fatto che si ritiene di poter regolare i rapporti di convivenza tra gli esseri umani e le rispettive comunità politiche con le stesse leggi che sono proprie delle forze e degli elementi irrazionali di cui risulta l’universo; quando invece le leggi con cui vanno regolati gli accennati rapporti sono di natura diversa, e vanno cercate là dove Dio le ha scritte, cioè nella natura umana” (4). Per questo la Chiesa non si stanca di affermare con forza la centralità della persona umana portatrice di diritti e di doveri inalienabili, pur nel mutare delle contingenze storiche, sociali ed economiche.

Occorre poi mettere in risalto come la spiritualità insita nella dottrina sociale della Chiesa abbia maturato e sviluppato in modo sempre più chiaro la dimensione della condivisione. In effetti, l’opera di Cristo nel mondo, la sua missione mostra questo stile, che è quello della solidarietà con la nostra condizione umana. La via seguita dal Figlio di Dio per salvare il mondo non è quella di una grande azione assistenziale, ma quella della spogliazione di sé per assumere la “forma umana” e la “condizione di servo”. La condivisione è la forma eminentemente cristiana dell’amore, riassunta nel gesto eucaristico dello spezzare il pane, a cui Cristo ha legato la sua presenza reale in mezzo ai suoi. Così il cristiano, nutrito dell’Eucaristia, può essere sale e lievito nel suo ambiente di vita e di lavoro proprio spezzando il pane del proprio tempo, del proprio pensiero, delle proprie energie… Non c’è vera trasformazione della società e del mondo al di fuori della via della condivisione.

Dimensione ineliminabile, anzi, essenziale alla spiritualità cristiana, anche nell’impegno sociale, è quella della Croce. Perché? Perché il male esiste, e chi si impegna per il bene e la verità necessariamente si trova ad affrontarlo. Qui, più che mai, parlano le testimonianze di quanti, sacerdoti, religiosi, e non pochi laici, anche in Italia, hanno pagato di persona, con la sofferenza e a volte con la vita, il prezzo della loro coerenza. Pensiamo ad un Rosario Livatino, ucciso dalla mafia. E’ normale: la sorte dei discepoli non è diversa da quella del Maestro. La spiritualità della Croce permette al cristiano impegnato nel sociale di partecipare alla trasformazione del mondo compiuta da Cristo nel mistero pasquale, associandosi alla sua passione redentrice con le proprie fatiche, le incomprensioni, le contrarietà sopportate per amore della giustizia e della verità.

Infine, non si può parlare di spiritualità senza indicare la forza che viene dalla preghiera. Nel vibrante capitolo conclusivo dell’enciclica sociale Caritas in veritate, Benedetto XVI ha espressamente richiamato questo aspetto dicendo che “lo sviluppo ha bisogno di cristiani con le braccia alzate verso Dio nel gesto della preghiera, cristiani mossi dalla consapevolezza che l'amore pieno di verità, caritas in veritate, da cui procede l'autentico sviluppo, non è da noi prodotto ma ci viene donato. Perciò anche nei momenti più difficili e complessi, oltre a reagire con consapevolezza, dobbiamo soprattutto riferirci al suo amore. Lo sviluppo implica attenzione alla vita spirituale, seria considerazione delle esperienze di fiducia in Dio, di fraternità spirituale in Cristo, di affidamento alla Provvidenza e alla Misericordia divine, di amore e di perdono, di rinuncia a se stessi, di accoglienza del prossimo, di giustizia e di pace. Tutto ciò è indispensabile per trasformare i «cuori di pietra» in «cuori di carne» (Ez 36,26), così da rendere «divina» e perciò più degna dell'uomo la vita sulla terra”. “L'anelito del cristiano – continua Benedetto XVI - è che tutta la famiglia umana possa invocare Dio come «Padre nostro!». Insieme al Figlio unigenito, possano tutti gli uomini imparare a pregare il Padre e a chiedere a Lui, con le parole che Gesù stesso ci ha insegnato, di saperLo santificare vivendo secondo la sua volontà, e poi di avere il pane quotidiano necessario, la comprensione e la generosità verso i debitori, di non essere messi troppo alla prova e di essere liberati dal male (cfr Mt 6,9-13)” (n. 79).

e) Conclusione

A conclusione di questo intervento vorrei ancora offrirvi un breve punto di sintesi che traggo dal testo “introduzione al Cristianesimo” di Joseph Ratzinger, pubblicato nel 1968 e che conserva un’attualità impressionante. Egli si domanda: “Cosa significa, infine, essere cristiano?” Ed ecco la risposta dell’allora teologo Ratzinger:

“Il vero cristiano non è colui che appartiene allo stesso nostro gruppo confessionale, bensì colui che, attraverso il suo essere cristiano, è divenuto veramente umano. Non è colui che osserva un sistema di norme in modo servile o badando solo a se stesso, bensì colui che è diventato libero per la bontà semplice ed umana. Il principio ‘amore’, se vuole essere autentico, include ovviamente la fede […]. Così la nostra riflessione ci porta alle fine spontaneamente a quelle parole con le quali Paolo indicava i pilastri portanti dell’essere-cristiano: “Queste dunque le tre cose che rimangono la fede, la speranza e la carità, ma di tutte più grande è la carità” (1Cor. 13,13)”.

 

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