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Dopo il fallimento della clonazione terapeutica

I rischi di una ricerca scientifica autoreferenziale


Eugenia Roccella

La clonazione terapeutica è fallita. Da tempo il riconoscimento del più grandioso fiasco scientifico degli ultimi tempi era nell'aria, tra riluttanti ammissioni, dati statistici espliciti, risultati deludenti. Ma finora la consapevolezza dell'insuccesso era rimasta confinata nelle pubblicazioni e nei convegni specialistici, senza mai raggiungere il grande pubblico. La ricerca sulla clonazione, che implica la creazione e la distruzione di embrioni umani, era pubblicizzata come la strada maestra per arrivare a terapie miracolose. Persino la colossale truffa imbastita dal coreano Hwang Woo Suk non aveva smontato il mito: Hwang, considerato in patria un eroe, aveva convinto la comunità scientifica internazionale di essere riuscito a ottenere cellule staminali embrionali grazie alla clonazione. Tutto falso, ma anche quando l'imbroglio è venuto alla luce, l'ombra del discredito non si è allargata al metodo. Oggi, però, lo scienziato Ian Wilmut, noto a tutto il mondo per aver clonato la pecora Dolly, annuncia di voler abbandonare la ricerca sugli embrioni umani, dichiarando che la strada "cento volte più promettente" per ottenere staminali embrionali è quella individuata da un'équipe di scienziati giapponesi. Il nuovo metodo, che Wilmut ha definito "sconvolgente ed eccitante", consiste nel far regredire cellule adulte fino allo stadio embrionale, grazie a una manipolazione genetica. Lo studio dei ricercatori giapponesi sarà reso pubblico solo domani, ma l'entusiasmo di Wilmut indica che difficilmente si può trattare di un bluff.
Le cellule staminali embrionali hanno una particolarità: sono totipotenti, cioè si possono trasformare in cellule di qualunque tipo di tessuto del corpo. La grande promessa degli scienziati è di poter sostituire i tessuti danneggiati dalle malattie, sconfiggendo patologie degenerative come per esempio l'Alzheimer o il morbo di Parkinson. Per poter trapiantare un tessuto o un organo senza timore di rigetto, però, è necessario che ci sia compatibilità genetica: bisogna quindi disporre di cellule staminali con lo stesso Dna del malato. Per ottenerle si svuota un ovocita, estraendone il nucleo e sostituendolo con quello di una cellula somatica di un individuo adulto. L'embrione che, con opportune stimolazioni, si sviluppa dall'ovocita modificato avrà il codice genetico dell'individuo da cui è stata prelevata la cellula somatica. Se l'embrione viene impiantato in utero e lasciato crescere, si parla di clonazione riproduttiva, quella che ha portato alla pecora Dolly; se invece si distrugge al quattordicesimo giorno per ottenerne cellule staminali, si parla di clonazione terapeutica, quella che avrebbe dovuto portare alla creazione di tessuti ed organi fatti "su misura" per il singolo paziente.
Il problema è che nessun laboratorio al mondo è mai riuscito a fabbricare cellule staminali da embrioni umani con questo sistema. La clonazione terapeutica si è rivelata un'araba fenice, un miraggio sfuggente. Quanto alla clonazione riproduttiva, che ovviamente è stata sperimentata solo sugli animali, non si può dire che i risultati siano stati brillanti. La resa del metodo è bassissima, non superiore al due per cento, e i pochi individui che riescono a nascere, in genere sono aggrediti dalle malattie e muoiono presto.
Eppure, quante volte abbiamo letto che il sacrificio seriale di embrioni umani era finalizzato al bene dell'umanità, e sarebbe servito a trovare in tempi brevi nuove terapie? Quante volte, in tempi recenti e in diversi paesi, si è ripetuto che porre limiti alla ricerca era una crudeltà, come se le cure fossero lì a portata di mano, impedite solo da resistenze antiscientifiche e pertanto oscurantiste? Quanti scienziati, in questi anni, hanno alimentato inutilmente - e talvolta strumentalmente - la speranza dei malati?
Oggi l'addio di Wilmut alle pratiche di clonazione dimostra che chi è sempre stato contrario alla ricerca sugli embrioni umani aveva ragione, non solo sul piano etico, ma su quello scientifico. La clonazione si è rivelata un indirizzo di ricerca fallimentare, che ha drenato per anni finanziamenti smisurati e ha deviato troppe energie su un binario morto. Se negli ultimi tempi sono cresciuti i dubbi e le perplessità sulla clonazione terapeutica lo si deve anche al blocco dei finanziamenti federali statunitensi ai progetti di ricerca che comportavano la distruzione di embrioni umani. Una decisione politica che ha suscitato polemiche, ma ha stimolato l'avvio di altre linee di ricerca e ha posto con forza il problema del rapporto tra scienza ed etica. Molti studiosi sostengono che la scienza deve autogovernarsi, e che nessuno può imporle barriere dall'esterno. Ma se la ricerca scientifica mondiale si è ostinata per tanto tempo a percorrere una strada senza uscita è anche perché non ha incontrato ostacoli esterni sul proprio cammino. Fare i conti con il limite permette di evitare l'autoreferenzialità e di riconoscere più facilmente l'errore; sottoporre le proprie azioni, come tutte le azioni umane, al giudizio etico, è utile anche allo scienziato.

 

(© L'Osservatore Romano 19-20/11/2007)