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Tra spinte al consumo e necessità di risparmio

Paradossi della crisi economica


di Ettore Gotti Tedeschi

Ricordo una vecchia vignetta, trovata in un libro di preghiere, che rappresentava un anziano moribondo su un letto che soffiava con forza verso uno scheletro dotato di falce, che rappresentava la morte. L'iscrizione diceva:  "Rimedio infallibile contro la morte:  quando appare soffiatele in volto perché non vi porti via, ma non smettete per nessuna ragione, altrimenti sarete morti...". Il paradosso fa sorridere, eppure oggi qualcosa di simile viene proposto quando si sente dire da alcune parti:  "Rimedio infallibile per sconfiggere i rischi di povertà conseguenti la crisi economica in atto:  per non diventare poveri spendete, consumate e indebitatevi, pur di far funzionare l'economia, ma non smettete mai se non volete che la recessione si aggravi...".
È vero, se si riesce a soffiare vuol dire che si è vivi, se si può spendere vuol dire che si hanno soldi, o prospettive per averli, o qualcuno disposto a prestarli. Ma per superare la crisi è necessario continuare lo stesso comportamento che l'ha provocata, cioè consumare e indebitarsi? E, soprattutto, sarà ancora possibile produrre adeguato reddito e avere credito per continuare a consumare? La domanda è legittima perché da altre parti, più istituzionali, si sente continuamente affermare che la recessione è in atto e il peggio deve ancora venire. Questa constatazione è in totale conflitto con la prima raccomandazione. È meglio quindi consumare (per sostenere la domanda) o risparmiare (nell'attesa di tempi ancora più difficili)?
Perché il peggio deve ancora venire? Perché non si sa stimare quanto possa essere, in dimensione e durata, il crollo futuro del Pil e perché non si è ancora quantificato con precisione accettabile il crollo degli utili delle imprese e il suo effetto non è stato ancora ben incorporato nel loro valore di mercato. Così il mercato è ancora considerato sopravvalutato e alcuni settori - industria di base, consumi ciclici, manufatti produttivi - sono considerati a forte rischio di perdite. Ciò implica una dubbia capacità di sostenere non solo gli investimenti, ma la produttività stessa, l'occupazione, il potere di acquisto. Come si potrà pensare di mantenere una condotta consumistica, e di potere nello stesso tempo  risparmiare,  in  queste  condizioni?
Ma non basta, il peggio può ancora venire perché non è chiaro come, e in quanto tempo, possa riprendersi il settore finanziario, considerato il "re nudo" della crisi. Il settore bancario, infatti non sembra avere solo problemi legati ai titoli "tossici" e alle insolvenze a essi legati, ma anche problemi relativi ai molti anni di accantonamenti insufficienti per coprire i rischi reali prodotti nella ricerca di maggiori profitti. Le banche dovranno pertanto assorbire, o fare assorbire, le perdite dovute a crediti in sofferenza a causa di garanzie non utilizzabili (case, che oggi nessuno comprerebbe se non a sconti impensabili).
Le banche verranno tutelate e ricapitalizzate, ma i provvedimenti adottati in questo senso presuppongono tassi bassi ed emissione di carta moneta, che a sua volta produrrà inflazione. Inflazione e tassi bassi genereranno conseguenze negative anche sul sistema bancario stesso. Le politiche di bassi accantonamenti significano inoltre che le banche hanno sottovalutato il rischio a lungo termine e privilegiato il risultato a breve, rinviando al futuro una serie di problemi e creando valori fittizi, come peraltro è stato fittizio gran parte del valore della crescita economica passata. Così, oggi, molte banche mancano del capitale minimo indispensabile per coprire i crediti concessi e il rischio preso. Dovranno ricapitalizzarsi e realizzeranno meno utili. È questo il sistema su cui si dovrebbe contare per indebitarsi al fine di nuovi consumi?
In questi ultimi giorni è stata sollevata la questione dell'utilità di mantenere o meno i criteri di Maastricht e persino della necessità di ripensare la stabilità degli accordi sull'euro. Ho l'impressione che questi possano di fatto essere già messi in discussione, non dai Governi, bensì dai mercati, se il differenziale di interesse su titoli emessi da due diversi Paesi europei supera l'uno per cento. Questo fenomeno può provocare speculazioni sui titoli di Stato - comprando i più forti e vendendo i più deboli "allo scoperto" - ma è una tentazione che è meglio respingere al più presto, come è meglio chiarire la stabilità degli accordi, perché al contrario a pagare sarebbero i soliti risparmiatori che oggi non sanno più come preservare con certezza il loro capitale.

 

(© L'Osservatore Romano 17-18 novembre 2008)