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Limiti di una definizione nata sessant'anni fa

La salute e l'utopia della perfezione


di Carlo Bellieni

Sessant'anni fa, nel 1948, veniva promulgata la Costituzione dell'Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), che sanciva una nuova definizione del termine "salute":  volendo garantire non solo il benessere fisico ma anche un miglioramento delle condizioni sociali di vita, il termine non veniva più limitato a indicare l'assenza di malattia. Esso aveva infatti l'ambizione di indicare altre possibili sorgenti di disagio. Questo importante passo fu definitivamente sancito, il 10 dicembre dello stesso anno, dalla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo che riconosceva la salute come un diritto fondamentale. Purtroppo, come segnalato da molti autori, la definizione di salute che ne scaturì finì col nascere zoppa e insoddisfacente:  "La salute - vi si leggeva - è uno stato di completo benessere psichico, fisico e sociale". Come è facilmente intuibile, la definizione rischia di scivolare nella pura utopia, dato che nessuno può vantare un simile livello di benessere, e rischia di far diventare malattia ogni stato di non completo benessere. Questo porta a una serie di pericolose conseguenze sotto i nostri occhi.
La prima è la creazione del cosiddetto "mercato delle malattie" che, stigmatizzato dalla comunità scientifica, altro non è che la corsa a una vera e propria creazione di "nuove malattie" per vendere nuovi farmaci ("PLos Medicine", maggio 2008). Infatti se la salute è tutto, tutto può essere malattia, basta indurre il soggetto a ritenere che una certa condizione lo è. Le strategie sono varie:  dal far passare sui mezzi di comunicazione sociale come malattia una condizione fino ad allora considerata normale, al gonfiare la prevalenza di una malattia e incoraggiare l'autodiagnosi. La lista delle malattie inventate è lunga e la documentata strategia di mercato comprende ben congegnate campagne pubblicitarie con tanto di testimonial:  Mayer Brezis denuncia sull'ultimo numero dell'"Israel Journal of Psychiatry and Related Sciences" (ottobre 2008) una "massiccia campagna pubblicitaria mirata ai dottori e al pubblico sempre più sofisticata" per promuovere il suddetto mercato.
Parallela è la cosidetta "medicalizzazione del desiderio". Un esempio sono le mutilazioni o le alterazioni estreme del corpo fatte per scopi non medici e non accettabili esteticamente per la maggioranza delle persone - ad esempio la sezionatura della lingua, la marchiatura a fuoco o l'infissione di fil di ferro nella carne - di cui parla Thomas Schramme su "Bioethics" di gennaio 2008, sostenendo l'assenza di motivi etici per impedire questi interventi una volta che il soggetto abbia deciso che la sua salute ne trarrà vantaggio. Se tutto può diventare malattia, il medico può essere chiamato a soddisfare richieste che non solo non condivide, ma che sa essere potenzialmente dannose per la salute, come la richiesta del taglio cesareo in epoche e condizioni controindicate da parte di alcune gestanti (cfr. Minkoff in "Seminars in Perinatology" del 2006), o come il fornire farmaci anabolizzanti ad atleti pronti ad assumerli. Anche il suicidio assistito rientra in questa visione:  se è il soggetto a decidere insindacabilmente ciò che è malattia, si può arrivare a sostenere che in certi casi addirittura la vita stessa può essere vista come una patologia secondo il parere personale, con la conseguente offerta di strutture e mezzi per mettervi fine. È quanto accade in Svizzera:  uno studio del Fonds National Suisse de la Recherche Scientifique (4 novembre 2008) mostra che circa nel 30 per cento dei casi il suicidio assistito non è eseguito su persone affette da malattie letali, ma su soggetti non in fin di vita, come il ventiduenne inglese che, bloccato su una sedia a rotelle, non sopportava quell'esistenza di "seconda classe" ("Il Tempo", 18 ottobre 2008) e si è presentato in Svizzera per farla finita.
I limiti della definizione di salute sono palesi se ci apriamo a un'altra realtà:  quella del mondo della disabilità e della malattia in cui vediamo tanti malati che hanno performance sportive, artistiche e filosofiche di livello eccelso, o magari anche semplicemente una serenità stupefacente, che cozzano con una visione idealizzata e utopica della salute (soprattutto se messi a confronto con la fatica di vivere di molte persone ritenute, secondo la definizione suddetta, in buona salute). Idealizzare un utopico "completo benessere" inserisce invece un vulnus nelle loro aspettative e nei loro sforzi. Molti di loro saranno infatti indotti a pensare che, nonostante tutti i tentativi, non potranno mai raggiungere un buono stato di salute, avendo comunque una malattia o un'anomalia che li separa dalla "perfezione".
Dopo sessant'anni vale allora la pena rimettere mano a un termine che, sicuramente nato per un fine buono, ha finito per cadere in maglie anguste. Riscrivere il significato del termine salute è un impegno per coloro che operano nel campo della filosofia e della medicina - che non possono avere come orizzonte un mondo in cui la salute è un'utopia - e per gli Stati, che troppo spesso aprono cancelli a scorciatoie per terminare la vita. Alla cura, alla ricerca e all'integrazione sociale ed economica di chi è malato vengono invece aperte solo minuscole porte.

 

(© L'Osservatore Romano 19 novembre 2008)