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Contro la tentazione di ricorrere a strumenti egoistici

Una mano visibile e solidale
per risolvere la crisi


di Ettore Gotti Tedeschi

Non è stato il mercato, non è stata la finanza, e non è stata la globalizzazione a produrre questa crisi. È perciò sbagliato proporre formule genericamente neokeynesiane o - ancora peggio - soluzioni quali una nuova Bretton Woods. Se si sbaglia la diagnosi, infatti, come si potrà poi ottenere una buona prognosi?
Non è stato il mercato a produrre la crisi attuale. È stato semmai il cattivo uso degli strumenti di mercato da parte di Governi che hanno camuffato, e non controllato, una crescita del Pil egoistica, artificiale e non sostenibile. In pratica c'è stato fin troppo Stato, ma molto inefficiente. Non è stata l'innovazione finanziaria ad avere provocato i problemi. La finanza è uno strumento che, bene usato, permette di creare ricchezza e di proteggersi dai rischi, soprattutto quando i mercati sono grandi e, di conseguenza, maggiori sono quegli stessi rischi. Non è stato neppure il processo di globalizzazione a creare o a peggiorare la crisi. La globalizzazione ha al contrario aperto a due miliardi di persone la prospettiva concreta di accedere al benessere e ora potrebbe permettere una gestione più equilibrata della crisi. Si potrebbe infatti affermare che uno dei tentativi finora intrapresi per risolvere le bolle nate negli Stati Uniti - vale a dire il trasferimento delle produzioni nei Paesi emergenti per produrre minori costi e garantire maggiore potere di acquisto - ha concorso a ridistribuire il benessere.
Peccato però che non ci siano stati il tempo e le condizioni per estendere questi benefici a quella enorme parte del pianeta che ancora ne è esclusa. Grazie alle delocalizzazioni e agli investimenti avviati per il proprio interesse dai Paesi ricchi, oggi grandi Paesi come India, Cina e Brasile hanno non solo acquisito posizioni di leadership in settori economici internazionali (come siderurgia, industria automobilistica, aeronautica, tecnologie sofisticate di software, elettrodomestici, cinematografia), ma sono persino pronti a salvare imprese europee e americane attualmente in difficoltà. Nel tentativo di attuare strategie per sostenere - attraverso la delocalizzazione produttiva - la crescita artificiale del Pil degli Stati Uniti, è stata finalmente consentita la reale emersione di quei Paesi che una volta erano appunto definiti "emergenti". Essi hanno ora raggiunto un certo benessere ed esprimono un vero potere economico.
Anche Mario Deaglio, nell'articolo Un mondo capovolto:  crisi finanziaria e redistribuzione del potere economico mondiale sul numero di novembre-dicembre 2008 della rivista "il Mulino", ricorda che attualmente i maggiori gruppi industriali e bancari non sono più negli Stati Uniti e che non si può prescindere da questo dato per trovare una soluzione alla crisi. Si potrebbe dire che la finanza (e i problemi finanziari) sono rimasti negli Stati Uniti, e forse anche in Europa, mentre gran parte dell'industria e dell'economia reale è stata trasferita nei Paesi emergenti che ora hanno, oltre a una sovracapacità produttiva a costi bassissimi, liquidità da investire. Si pensi quindi a quali squilibri su scala mondiale verrebbero prodotti se gli Stati Uniti decidessero ora di fronteggiare la crisi riportando in patria tutte le produzioni - grazie alle loro capacità tecnologiche potrebbe non essere difficile - anziché cercare di trasferire la capacità produttiva inutilizzata in quel resto del mondo che aspetta di beneficiarne.
Non si possono perciò proporre soluzioni alla crisi senza tenere conto dei nuovi equilibri economici planetari e senza investire nei Paesi ancora in via di sviluppo. C'è invece il sospetto che, ripescando vecchie teorie keynesiane e pratiche di governo rooseveltiane, si stia pensando di risolvere egoisticamente una crisi già dovuta a egoistici sviluppi economici. Ciò attraverso svalutazioni monetarie, attraverso protezionismo e autarchia, attraverso dirigismo e pressione tributaria. Ma a pagare queste manovre sarebbero in realtà gli ex Paesi emergenti, quelli ancora in attesa di emergere e quelli ancora più poveri. Ma sarebbero anche i ceti più deboli delle popolazioni dei Paesi ricchi e i risparmiatori.
Ci sono poi i nostalgici di Bretton Woods che stanno pensando di riagganciare il valore delle monete all'oro e di stabilizzare i cambi come mezzo per ricreare fiducia fra gli Stati. È una nostalgia che in realtà si fonda su una premessa molto dubbia, secondo la quale l'attuale instabilità sarebbe dovuta a una crisi di carattere finanziario all'interno di un sistema monetario inadeguato. La crisi è invece stata causata da politiche governative inadeguate, da un uso cattivo e non trasparente degli strumenti finanziari e dalla mancanza di controlli. Inoltre, l'attuale clima di sfiducia riguarda non gli Stati, ma i rapporti tra banche, e quelli tra queste e le imprese. Imporre regole rigide, alla Bretton Woods, potrebbe accrescere la sfiducia anziché diminuirla. È stata la mancanza di trasparenza a generare sfiducia, così come è stata una crisi di valori dell'uomo a spingere verso uno sviluppo fittizio ed egoistico. È in fondo una crisi di valori morali, che non può essere certo curata con nuovi organismi sovranazionali e con altrettanti poteri sopranazionali.
È utile ripetere che la soluzione alla crisi può essere rintracciata in un nuovo piano Marshall per i Paesi poveri e in una bolla di solidarietà. Ma è anche necessario affermare che, invece di accendere gli "spiriti animali" di Keynes, sarebbe meglio accendere gli "spiriti umanitari" e che, invece di contare ancora una volta sulla "mano invisibile" di smithiana memoria, sarebbe opportuno puntare su una mano visibile e solidale.

 

(© L'Osservatore Romano 14 gennaio 2009)