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Tra Israele e Hamas

Una tregua a orologeria


di Luca M. Possati

Why Israel Can't Win. Per essere veramente corretto, forse, il titolo dell'ultimo numero del "Times" andrebbe formulato anche in un senso inverso:  nessuno - nemmeno Hamas e i suoi sostenitori - può vincere questa guerra. La tregua decisa separatamente dallo Stato ebraico e dal movimento di resistenza islamico potrebbe diventare il primo passo in direzione di una vera stabilità soltanto a una condizione:  quella di inserirsi in un dialogo regionale chiaro e diretto, animato da una volontà politica coraggiosa e coerente. Un dialogo basato sulle risoluzioni dell'Onu e che affronti tutti i principali nodi ancora aperti. La questione israelo-palestinese, come sostengono molti analisti, non può essere scissa dalla questione arabo-israeliana.
Il ruolo di mediatore dell'Egitto - con il suo uomo di punta, il negoziatore Omar Suleiman, capo dell'intelligence - rischia di essere incrinato dalla spaccatura interna al mondo arabo emersa nella conferenza di Doha. Proprio in quell'incontro - boicottato dal Cairo e dall'Arabia Saudita - il presidente siriano, Bachar Al Assad, ha condannato l'offensiva su Gaza, invitando tutti i rappresentanti dei Paesi intervenuti - tra cui, l'Iraq, l'Iran, il Libano, la Libia, il Marocco, il Senegal, il Sudan, la Turchia e l'Indonesia, ma non l'Autorità palestinese - a chiudere le ambasciate israeliane nelle proprie capitali e definendo "morta" l'iniziativa di pace saudita adottata dalla Lega araba nel vertice di Beirut del febbraio 2002. Quel piano - nei mesi scorsi rilanciato da più parti - prevedeva la normalizzazione dei rapporti con Israele da parte di tutti gli attori regionali in seguito al ritiro del primo dai territori occupati. Assad non ha esitato a definire lo Stato ebraico come "la forma più pericolosa del nazismo dei nostri tempi", lanciando al contempo un chiaro avvertimento:  "Quel che è stato portato via con la forza sarà recuperato con la forza".
A Doha non era presente il premier turco, Recep Tayyp Erdogan, che però ha fatto sentire la sua voce, chiedendo l'espulsione di Israele dall'Onu. "Mi domando - ha detto Erdogan - come si possa ancora consentire a un Paese che ignora costantemente le risoluzioni del Consiglio di sicurezza di passare attraverso le porte del Palazzo di Vetro". Pur ribadendo di non voler rompere le relazioni con Israele, Erdogan ha ricordato l'importanza della vittoria di Hamas alle elezioni per il rinnovo del Consiglio legislativo dell'Autorità palestinese nel 2006:  "Se vogliamo far progredire le democrazie in questa regione, dobbiamo rispettare le persone che si sono recate alle urne". Occorre lasciare tempo ad Hamas, metterlo nelle giuste condizioni per poter governare:  "È un partito legittimo, non va escluso dal dialogo politico". Se fallisce, ha spiegato Erdogan, "sarà sconfitto alle urne, ma non dobbiamo spingerlo in un angolo, perché questo non può che rafforzare l'estremismo".
Hamas intanto proclama la sua "vittoria storica" nella lotta di "resistenza". Ma non mancano le tensioni tra i diversi gruppi. Ahmed Yussef, consigliere politico del movimento a Gaza e - dicono gli analisti - segreto interlocutore di Barack Obama sul Medio Oriente, ha attaccato l'ala oltranzista del "siriano" Kaled Meshaal:  "Qual è la vostra forza? Ci avete portato a un terribile disastro! Avete condannato a morte Gaza!". Ma non si tratta - come sostenuto da molti - della semplice contrapposizione fra i moderati di Gaza e i "duri" di Damasco, fra trattativisti e intransigenti:  il malcontento circola da una parte e dall'altra. Molti nella Striscia criticano i leader per essersi protetti dai raid nel sicuro dei loro bunker. Altri attaccano Al Fatah e le sue spie che avrebbero favorito le operazioni di Israele, come nel caso dell'uccisione di Siad Siam, alto esponente di Hamas colpito da un f-16 israeliano poco dopo essersi trasferito in un'abitazione considerata sicura. C'è però una consapevolezza comune, sempre più chiara:  prima o poi il movimento di resistenza islamico dovrà riconoscere Israele e gli accordi di pace siglati dall'Olp, altrimenti il rischio è l'aprirsi di una spaccatura incolmabile tra i palestinesi con ripercussioni disastrose.
È questo il pensiero anche del presidente dell'Autorità palestinese, Abu Mazen:  "Abbiamo bisogno di formare un Governo palestinese di unità nazionale che porti a elezioni presidenziali e legislative simultanee". Il raìs di Ramallah è tornato a proporre incontri diretti con Hamas in Egitto:  "È l'unica cosa adeguata". Secondo Salam Fayyad, premier dell'Autorità palestinese, l'Esecutivo di "riconciliazione nazionale" dovrebbe essere composto da venticinque personalità accettate da Hamas e da Al Fatah, con l'obiettivo di ripristinare l'unità politica dei Territori, rotta dopo il sanguinoso "colpo di mano" dei miliziani islamici nel giugno 2007.
Per lo Stato ebraico l'operazione "Piombo Fuso" potrebbe avere conseguenze pesanti e inattese. Le immagini mandate in onda dalle televisioni di tutto il mondo in queste settimane non hanno certo giovato alla sua immagine nell'opinione pubblica internazionale. E ora il timore è che la tregua possa dare l'occasione ad Hamas di riarmarsi, tornando a minacciare i civili israeliani.
Il punto cruciale su cui si giocano le trattative è il controllo del valico di Rafah, l'unico passaggio dalla Striscia di Gaza verso l'Egitto, al di sotto del quale sono stati scoperti centinaia di cunicoli, una fitta rete usata - secondo l'intelligence israeliana - per il traffico di armi e di munizioni. Il movimento islamico ha già detto no alla proposta che tutti i valichi tornino sotto il controllo dell'Autorità palestinese nei termini dell'accordo del 2005, mostrandosi favorevole alla presenza di controlli gestiti dal Governo turco. Israele è invece propenso ad accettare la supervisione dell'Autorità palestinese, ma rifiuta l'idea di osservatori internazionali.
Sul piano interno, l'offensiva su Gaza non ha avuto effetti particolari sugli equilibri elettorali israeliani. A tre settimane dal voto, resta in testa nei sondaggi il Likud di Benjamin Netanyahu. Seguono il Kadima di Tzipi Livni e, più staccato, l'Avoda, il partito laburista guidato da Ehud Barak. Tuttavia, sembra essere proprio l'attuale ministro della Difesa colui che ha ricevuto i maggiori benefici politici. All'unisono con il capo di stato maggiore, Gaby Ashkenazi, in questi anni Barak ha dedicato le sue energie alla riorganizzazione delle forze armate, dopo le difficoltà incontrate in Libano nel conflitto con gli Hezbollah nel 2006. È stato un lavoro preciso e meticoloso - dicono gli esperti - con risultati tangibili. Il deterrente di Tsahal è adesso molto superiore. E nel Paese si avverte un senso di riconoscenza. Con molta probabilità, ciò potrebbe tradursi in una conferma alla guida della Difesa, anche nel caso di una disfatta elettorale dei laburisti.

 

(© L'Osservatore Romano 21 gennaio 2009)