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Alla vigilia del vertice del g8

La guerra del dollaro
è appena cominciata


di Luca M. Possati

Alla vigilia del g8 all'Aquila, il Governo cinese - d'intesa con gli altri componenti del Bric (Brasile, Russia e India) - ha annunciato di voler comprare obbligazioni del Fondo monetario internazionale (Fmi) fino a 50 miliardi di dollari e ha chiesto che la diversificazione del sistema valutario venga discussa nel summit abruzzese. Due mosse parallele, che vanno in un'unica direzione:  limitare il primato del dollaro. Ma a quale scopo? Se Pechino è e resta il principale finanziatore planetario degli Stati Uniti - con miliardi di Treasury Bond acquistati e investimenti crescenti nel Paese - quali vantaggi può ottenere da un deprezzamento del biglietto verde?
Complice la crisi finanziaria, i vecchi problemi che per anni hanno pesato sui rapporti tra Pechino e Washington rischiano di tornare prepotentemente d'attualità. Con una novità, il debito americano. E di questo, quasi certamente, dovranno parlare Obama e Hu Jintao nel corso del loro incontro al g8 italiano. Pechino potrebbe iniziare a fare i conti in tasca al suo grande debitore, complici anche le tante polemiche - in patria e fuori - scatenate dal piano di incentivi fiscali varato dal segretario al Tesoro, Timothy Geithner, e i recenti attriti al Wto.
Circa un terzo del totale delle riserve valutarie cinesi sono oggi impiegate in titoli del debito statunitense. Se il dollaro perdesse troppo valore, ne risentirebbero automaticamente questi titoli. E anche, più in generale, l'economia e la competitività del made in China:  il valore di mercato di gran parte delle valute asiatiche - dicono gli analisti - è strettamente correlato ai corsi del biglietto verde e alle garanzie di solvibilità degli Stati Uniti.
La richiesta di una nuova moneta quale strumento d'equilibrio finanziario mondiale va appunto in questa direzione:  svincolarsi da Washington per evitare il tracollo, cioè il formarsi e l'esplodere di una nuova bolla creditizia. Una delle soluzioni proposte dalla Cina - principale investitrice nei bond del Fmi - è il ricorso ai Sdr (diritti speciali di prelievo, la moneta del Fmi). Prospettiva discussa anche al recente vertice di Ekaterinburg, dove il Bric ha chiesto esplicitamente un rinnovamento nel segno della diversificazione e che comporti l'istituzione di una divisa sovranazionale e di nuovi mezzi di pagamento, ma anche una riforma delle organizzazioni finanziarie. Le due banche centrali di Pechino e Brasilia hanno annunciato di aver raggiunto un accordo per eliminare il dollaro come moneta di pagamento nel commercio bilaterale tra i due Paesi:  l'interscambio sarà pagato con yuan e real. Nel primo trimestre 2009 le esportazioni brasiliane nella Repubblica Popolare (soprattutto soya e minerale ferroso) sono aumentate del 64 per cento rispetto allo stesso periodo del 2008. Contemporaneamente, Pechino ha già tagliato di 4,4 miliardi di dollari i propri investimenti in titoli di Stato americani.
È quindi evidente che la Cina vuole essere un protagonista attivo nella definizione di un nuovo ordine economico mondiale e dei compiti delle istituzioni finanziarie internazionali. Finora, pur essendo la terza potenza economica, essa non fa parte del g8 e nel Fmi detiene una quota di voto inferiore a quella del Belgio. È annoverata soltanto tra quei Paesi (gli altri sono l'India, il Messico, il Brasile e il Sud Africa) regolarmente invitati a discutere delle principali questioni, ma il ruolo di partner a pieno diritto è una cosa completamente diversa. D'altronde, presto il protagonismo del Dragone sarà un dato che le potenze occidentali dovranno comunque accettare. Jim O'Neil, capo economista della Goldman Sachs, ha pubblicato numerose previsioni sul momento in cui l'aggregato del prodotto interno lordo dei Paesi del Bric supererà quello del g8. E ciò potrebbe accadere già nel 2027. Nello stesso periodo l'economia cinese supererà quella statunitense.
Il destino del dollaro sembra segnato. Il sistema di Bretton Woods - già profondamente indebolito dalla decisione presa da Nixon nel 1971 di sganciare la moneta statunitense dal valore delle riserve auree - è stato definitivamente sotterrato dalla crisi finanziaria in atto. Come scrive sul "The Wall Street Journal" Richard Clarida, docente alla Columbia University ed ex sottosegretario al Tesoro, il declino del biglietto verde ha attraversato dal 2001 a oggi tre fasi, scandite dagli orientamenti di politica monetaria della Federal Reserve. Fino al 2004, con l'economia a stelle e strisce in tenue ripresa e la Fed impegnata ad allentare drasticamente la leva dei tassi, il dollaro non ha fatto che deprezzarsi. È seguito un periodo di consolidamento, dall'estate 2004 all'estate 2006, che ha coinciso con un certo irrobustirsi dell'espansione economica e con la decisione della Fed di dare il via libera a una serie di rialzi dei tassi. Lo scoppio della bolla immobiliare e il crollo del sistema creditizio hanno costretto l'istituto guidato da Ben Bernanke a una politica monetaria sempre più espansiva e coraggiosa per evitare, o quanto meno per rendere meno severa, la recessione. Ne è risultato - ed è cronaca di questi giorni - un nuovo, lento ma costante, deprezzamento della valuta americana.

 

(© L'Osservatore Romano 4 luglio 2009)