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«Caritas in veritate»

Un'enciclica che va oltre Westfalia


di Giandomenico Picco
Già Sottosegretario Generale delle Nazioni Unite

Lo Stato-nazione moderno, che nacque con il trattato di Westfalia nel 1648 e venne plasmato dalle rivoluzioni americana e francese, ha sempre avuto un'arma segreta:  il concetto di identità al singolare. Lo storico statunitense Arthur Schlesinger diceva che il nostro intelletto non è strutturato per immaginare le molteplici possibilità del futuro. Era difficile in realtà immaginare la globalizzazione come si è sviluppata negli ultimi decenni:  ha cambiato il concetto di vicino, inteso come chi può avere un impatto positivo o negativo sulla vita di ognuno. Oggi, infatti, le azioni di chi vive in altri continenti possono influenzare la nostra quotidianità, mentre da bambino, il mio concetto di vicino erano la Carinzia austriaca, la Slovenia allora jugoslava e il Veneto.
La Caritas in veritate sottolinea che la globalizzazione "ci rende vicini, ma non ci rende fratelli" (19). Nel mio percorso tra popoli in guerra e terrorismo il concetto di comunicazione e dialogo, di convivenza e anche amicizia - non importa quanto diverse fossero le culture - appariva ed era realizzabile; ma devo ammettere che il concetto di fratellanza non figurava negli obbiettivi di nessun negoziato, ufficiale o non ufficiale. Lo spiega subito dopo la stessa enciclica:  la ragione è in grado di stabilire "una convivenza" ma non "la fraternità".
Negli occhi - la sola parte del volto che potevo vedere - del libanese mascherato che mi aveva fatto incappucciare e portare via di notte dalle strade di Beirut, cercavo una comunanza umana. Mi sarebbe stato utile in quella occasione avere in mente altre parole dell'enciclica, che sono molto care a Papa Benedetto:  e cioè che "la religione ha sempre bisogno di venire purificata dalla ragione per mostrare il suo autentico volto umano" (56).
Nella Caritas in veritate ho trovato semi di una visione del futuro assetto internazionale che sono propri anche del mio modo di leggere la realtà e della mia storia personale multiculturale di figlio di zone confinarie e manovale della mediazione tra genti in conflitto. Il riferimento ai limiti dello Stato nel mondo globalizzato (cfr. 24), e più ancora l'affermazione che "non è necessario che lo Stato abbia dappertutto le medesime caratteristiche" (41), aprono le porte a una visione che oserei chiamare postwestfaliana dello Stato-nazione.
Nel sistema che vedo emergere, ogni attore è più forte e al tempo stesso più debole di una trentina di anni fa, come effetto di interrelazioni e interdipendenze impensabili in passato. La possibilità che ogni progetto nazionale abbia una sua durata di vita diversa da altri e che poi si esaurisca è plausibile:  per alcuni Stati-nazione tale progetto potrebbe essere vicino alla conclusione.
Il Papa accenna a una autorità politica mondiale che non esiste ancora, ma anche al ruolo dei singoli e dei gruppi non governativi, non eletti, come attori della società internazionale che sta emergendo. Sono forse accenni al germinare dei primi elementi di democrazia diretta in una società mondiale dove anche l'individuo ha nelle sue mani più strumenti che mai per comunicare la propria volontà e opinioni al di là dei sistemi di rappresentatività indiretta?
L'enciclica incoraggia il concetto di "responsabilità di proteggere" (67) - i cittadini di ogni Paese da genocidio, crimini di guerra, pulizie etniche e crimini contro l'umanità - anche se i rispettivi Stati non sono in grado di farlo:  è questa la nuova frontiera del diritto internazionale che va molto oltre Westfalia. Ancora più importante negli accenni al futuro assetto del mondo è l'appello a liberarci da quelle ideologie "che semplificano in modo spesso artificioso la realtà" (22). Una speranza che incontra oggi, in varie parti del mondo, una resistenza forte dovuta forse alla paura che la nuova complessità di un mondo globalizzato ha di fatto provocato in molti.
Fondamentalismi di varia estrazione sono purtroppo presenti in diversi Paesi e con essi l'arroganza dell'ignoranza sparge ancora i semi dello scontro e del conflitto. Il numero delle variabili che deve essere tenuto in conto dai gestori del mondo è aumentato negli ultimi vent'anni e la tentazione di rifugiarsi in teorie semplicistiche si nutre di sentimenti ancestrali. A questo l'enciclica risponde:  "La speranza incoraggia la ragione e le dà la forza di orientare la volontà" (34). Da qui nasce la necessità di generare speranza.
Benedetto XVI auspica anche una riforma del sistema delle Nazioni Unite e delle strutture internazionali economiche e finanziarie. Spero che ciò non si faccia solo a livello numerico:  un Consiglio di sicurezza molto allargato, per esempio, sarebbe una riforma modesta e potrebbe generare anche una riduzione della sua efficacia. A essere oggetto di riforme dovrebbe piuttosto essere il metodo di lavoro dei vari organi delle Nazioni Unite.
"L'unità della famiglia umana non annulla in sé le persone, i popoli e le culture, ma li rende più trasparenti l'uno verso l'altro, maggiormente uniti nelle loro legittime diversità" (53) afferma la Caritas in veritate, sottointendendo forse un modo di leggere l'identità in maniera diversa. La globalizzazione sta lentamente minando ciò che Amartya Sen chiama "l'illusione della identità obbligata" (choiceless identity), l'arma segreta dello Stato-nazione. L'emergere dell'identità multipla, a mio avviso, non solo cambierà il sistema internazionale, ma anche lo stesso Stato-nazione e renderà più realizzabile il concetto di famiglia umana. Allora, forse, avremo leader che sapranno essere tali anche senza bisogno di un nemico.