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di Gaetano Vallini Il mare ha le sue leggi. Quelle non scritte sono radicate nel cuore di quanti sul mare e del mare vivono. E la legge più importante è anche la più semplice: se qualcuno è in difficoltà bisogna soccorrerlo. Perché in mare non esistono stranieri, ma solo uomini, persone. È stato sempre così. Lo sanno i vecchi marinai e i pescatori, che conoscono il valore della solidarietà, soprattutto quando quell'immensa distesa d'acqua da fonte di vita diventa improvvisamente pericolo incombente.
Non è un mare vasto il Mediterraneo, ma per chi vi si avventura a bordo di imbarcazioni fatiscenti appare come una sterminata barriera, e le sue coste luogo di respingimenti anziché approdo sicuro e accogliente. Quel mare nostrum - cioè di ogni popolo che di esso ha vissuto e ancora in parte vive grazie a pesca, commerci e turismo, e che ha contribuito a costruire storia e identità culturale dell'occidente - oggi sembra una frontiera invalicabile, che divide non solo continenti, ma mondi timorosi di incontrarsi. Per la verità, ad aver paura è soprattutto quella parte di mondo che, stretta tra crescente denatalità e fame di mani pronte a lavori che nessuno vuol più fare, meno avrebbe da temere e molto da guadagnare. Ma l'Europa, che pure si dice aperta, vista dall'altra parte del mare appare spesso come una inespugnabile fortezza.
A differenza della gente - pronta a fare generosamente la sua parte senza condizionamenti, come dimostrato dagli abitanti di Lampedusa che ben conoscono le leggi del mare - la legislazione, malgrado promesse e buone intenzioni dei politici, lascia pochi spiragli a quanti bussano alle porte e non riesce a contrastare con efficacia il vergognoso traffico di esseri umani che Papa Francesco ha definito "la schiavitù più estesa in questo ventunesimo secolo", e con esso la silenziosa strage di uomini, donne e bambini che si consuma sul mare.
Non a caso il Centro Astalli di Roma ha scelto per la campagna di sensibilizzazione in occasione della giornata mondiale del rifugiato lo slogan "Il mare unisce, la terra non divida". L'obiettivo è evitare nuovi lutti, ma anche rendere l'Italia - e soprattutto un'Europa che troppo spesso sembra lavarsi le mani di fronte a questo dramma - luoghi dove il chiedere asilo non sia una corsa a ostacoli, ma un percorso agevole, e dove accoglienza e integrazione siano garantiti a chi fugge non solo da guerre e persecuzioni, ma anche da povertà ed emarginazione. Non basta, dunque, stipulare accordi con i Paesi di partenza, ma occorre costruire canali umanitari accessibili e sicuri e rendere più semplici i controlli. Soprattutto, bisogna uscire dalla logica dell'emergenza continua, mettendo a punto strategie e interventi di ampio respiro.
Non si deve giocare al ribasso, limitandosi a soddisfare i requisiti minimi di un'accoglienza dettata dalla fredda burocrazia e dal populismo, ma puntare a coinvolgere le culture e le religioni. In questo modo l'accoglienza potrà essere trasformata in ospitalità, arginando il dilagare di quella globalizzazione dell'indifferenza di cui ha parlato il Papa a Lampedusa. Si tratta di far sì che, per altri, possa realizzarsi il sogno infranto della profuga siriana di 49 anni, stroncata da un malore a bordo del barcone sul quale si era imbarcata, in fuga dalla guerra, con i due figli e il marito, che ha generosamente acconsentito a donare i suoi organi, salvando così tre italiani. O quello dell'egiziano Moharan, annegato con altri cinque immigrati, a pochi metri dalla costa siciliana nel quinto tentativo di sbarco in dieci anni. Ma si tratta anche di offrire un futuro certo a chi è riuscito ad arrivare, come la piccola Nadha, figlia di profughi siriani, nata sul mare e approdata a Siracusa dopo una traversata durata una settimana.
Chi ha responsabilità politiche e di governo, prima di legiferare ricordi queste storie. Si possono coniugare accoglienza e legalità. Senza dimenticare la saggezza racchiusa nelle leggi del mare.