![]() |
![]() |
![]() |
![]() |
Nel recente messaggio inviato alla Conferenza episcopale italiana, Papa Francesco ha sottolineato con forza un elemento decisivo per promuovere quella "conversione pastorale" tante volte evocata, sin dall'inizio del pontificato, e che sta al centro del suo magistero: la Chiesa non necessita di "preti clericali" o di "preti funzionari" ma ha bisogno di "sacerdoti santi". È un passaggio fondamentale che, se non compreso pienamente, rischia di vanificare qualunque riflessione sul rinnovamento della Chiesa. Un rinnovamento che non è certo riassumibile con la riforma di una struttura ma è, all'opposto, identificabile con il proposito di restituire alla Chiesa la sua maternità e la sua più autentica missione. A partire, per l'appunto, dalla vocazione alla santità del prete.
È questo un tema importantissimo su cui il Papa si è soffermato molte volte nel corso dell'ultimo anno. Basti pensare all'udienza generale del 12 novembre quando ha sottolineato che i preti sono, prima di tutto, "un dono grande del Signore" e "un segno vivo della sua presenza e del suo amore". Oppure, quando, nel discorso del 3 ottobre alla Congregazione per il clero, ha esortato tutti i sacerdoti a "essere" preti e non solo a "fare" i preti, in modo da liberarsi di "ogni mondanità spirituale" per conformarsi sempre di più a Cristo e sviluppare un "potente slancio missionario". O anche nell'udienza del 27 febbraio alla Congregazione per i vescovi, quando ha detto con nettezza che alla Chiesa non servono dei vescovi-manager o degli amministratori d'azienda ma, all'opposto, servono dei "testimoni del Risorto". Poche settimane prima, durante la messa dell'11 gennaio a Santa Marta, aveva sottolineato con decisione che solo "il rapporto con Gesù Cristo" salva il prete dalla tentazione della mondanità e dal rischio di diventare "untuoso" anziché "unto". È dunque un magistero ricchissimo quello di Francesco, scandito da dichiarazioni d'amore e da campanelli di allarme, da carezze e da ammonimenti. Un magistero che - potremmo dire sulla scorta delle omelie del santo curato d'Ars - ci invita ad abbandonare ogni maldicenza, a "esaminare soltanto la nostra condotta e non quella degli altri" e ci sprona a trovare la sorgente della nostra identità in "Cristo sacerdote".
I preti, dunque, non sono chiamati a essere dei superman della fede, insuperabili nelle loro virtù, e neanche dei contabili dello spirito, che si limitano a elargire sacramenti o assoluzioni. Ma sono chiamati, prima di tutto, a essere testimoni autentici del Vangelo perché, come disse Paolo vi, "l'uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri o, se ascolta i maestri, è perché sono dei testimoni". Il testimone, infatti, svolge un ruolo fondamentale per l'uomo solo e fragile di oggi, non tanto perché promuove se stesso come un modello di perfezione, ma perché attesta un fatto di cui è stato reso partecipe. Ma non solo. Per spiegare come deve essere un sacerdote, a don Divo Barsotti, uno dei grandi mistici del Novecento, bastavano due versetti del Vangelo di Marco: "Li chiamò perché stessero con lui e li mandò". Essere preti significa, pertanto, stare con Cristo, anzi, "essere Cristo", perché "Cristo è colui che espia per gli altri, è colui che per tutti implora e ottiene". E dunque, il sacerdote, deve "essere per il mondo, ma non può essere nulla per gli altri se prima non è un uomo di Dio".
Non c'è dunque alcun rinnovamento della Chiesa se prima non rinnoviamo autenticamente il nostro cuore. Ed è inutile e dannoso caricare di pesi i fedeli se non siamo noi per primi a portare il peso glorioso della Croce. Don Barsotti traduceva questi pensieri in un'immagine stupenda che ogni sacerdote dovrebbe avere davanti agli occhi per tutti i giorni della sua vita: "Nei monumenti colui che deve essere ricordato e ammirato sta in cima al piedistallo, qui invece il sacerdote sta sotto il piedistallo e ne porta il peso. Tale peso il sacerdote lo innalza a Dio con la sua preghiera".
(© L'Osservatore Romano 22 novembre 2014)