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Candidate al Nobel per la pace due suore missionarie austriache che hanno speso la loro vita accanto ai lebbrosi

Una finestra di speranza

di Vincenzo Faccioli Pintozzi

 

Lo spirito di sacrificio che hanno mostrato in quarant’anni di servizio «dovrebbe divenire una pietra di paragone per questa nostra era, incentrata sul materialismo». È la motivazione fornita dai funzionari di un ospedale pubblico coreano per giustificare la decisione di candidare al premio Nobel per la pace due suore cattoliche missionarie. Le due, austriache, hanno passato la stragrande maggioranza della propria vita a lavorare per i lebbrosi in un paese che, nella malattia di Hansen, ha visto e continua a vedere «una maledizione del cielo».

Suor Marianne Stoeger e suor Margaret Pissar hanno superato la soglia degli ottant’anni. La prima è tornata lo scorso maggio nell’isola di Sorok, dove ha sede l’ospedale nazionale Sorokdo, per celebrare il centesimo anniversario della fondazione della struttura. La seconda è invece rimasta in Austria, dati i limiti imposti dall’età e da una malattia degenerativa. La straordinarietà di queste due religiose è che ritengono di «non aver mai fatto nulla di straordinario». La pensano in maniera diversa gli ex ricoverati, i loro figli e nipoti, che oggi — dicono — «non sarebbero qui senza le due suore».

In Corea, così come in Giappone e in Cina, la malattia di Hansen porta con sé uno stigma sociale connesso all’idea che si tratti di una sorta di punizione divina. Ancora oggi il lebbroso è considerato — in una società fortemente permeata dal concetto del karma — come una persona che in qualche modo «si merita quello che ha». Per decenni, e in modo particolare durante gli anni dell’invasione giapponese, nell’Asia orientale sono sorti dei veri e propri lager dove venivano rinchiusi i malati. Abbandonati a loro stessi, sterilizzati per impedire loro di procreare, circa ventimila persone hanno vissuto come reclusi senza alcuna colpa. Incalcolabile invece il numero di coloro che sono morti per scarsità delle cure, isolamento e forse violenza.

L’isola di Sorok è stata per anni uno di questi lager. Nel 1962, quando suor Marianne arriva nel paese, trova una situazione che lei stessa definirà anni più tardi terrificante: «I malati dovevano chiamarci “signore” ed essere umili e deferenti. Le botte erano la regola, così come gli aborti forzati e le sterilizzazioni. Ci sono voluti decenni per cambiare le cose». Il primo passo per cambiare sta nell’esempio: mentre medici e infermieri locali usano mascherine, guanti e tute protettive, le due donne, non ancora trentenni, lavorano senza protezione. Persino quando sangue e pus dalle ferite infette le colpiscono in faccia.

La liberazione dal dominio giapponese arriva con la fine della seconda guerra mondiale e la capitolazione di Tokyo. Ma le cose per i ricoverati di Sorokdo cambiano poco. Come riconosciuto da una sentenza emessa da un tribunale di Seoul nel 2015, gli abusi contro i lebbrosi e i loro familiari «sono stati sistematici, lesivi dei diritti umani e del tutto ingiustificabili. Questi sono andati avanti dalla liberazione fino a metà degli anni novanta del secolo scorso. I sopravvissuti hanno diritto a un risarcimento da parte del governo».

L’unica soluzione era la guarigione, che suor Marianne definisce «la più grande delle gioie. Quando vedevamo un paziente che veniva dimesso, che poteva tornare a casa con le ferite curate, si apriva una finestra di speranza». In quei decenni, infatti, la missione principale delle due suore è stata rendere la dignità ai pazienti: «Cercavamo di visitarli al mattino presto, quando non c’era nessuno, e parlavamo con loro. Molto spesso cenavamo insieme la sera tardi, sempre per evitare i controlli. E facevamo il possibile». Coinvolgendo l’Austria, vengono raccolti dalle due religiose medicinali e contributi economici per costruire una casa per i figli non malati dei pazienti, un’ala per i tubercolotici e un’altra per i malati mentali.

La candidatura al Nobel per la pace ha un altissimo valore simbolico, ma vuole essere anche un monito. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), la lebbra è una malattia cronica ma curabile. Per esempio, i pazienti registrati in Corea del Sud sono quasi quattordicimila, ma i numeri potrebbero essere maggiori: centinaia, secondo fonti della Chiesa locale, sarebbero i malati non registrati che preferiscono isolarsi nelle proprie case per non finire nei sanatori.

Diagnosticare in tempo la malattia e curarla con i farmaci multi-drug resistant continuano a essere gli elementi fondamentali per eliminare la malattia come problema di salute pubblica. Se non curata, la lebbra può provocare lesioni progressive e permanenti alla pelle, ai nervi, alle estremità e agli occhi. In base ai dati ufficiali provenienti da 115 Paesi, gli ultimi disponibili in ordine di tempo, l’incidenza della lebbra registrata alla fine del 2012 era di 189.018 casi. Ma nello stesso anno sono stati notificati circa 232.857 nuovi casi. Creati, secondo l’Oms, da poca informazione, poca prevenzione e troppa paura immotivata.

(© L'Osservatore Romano 24 settembre 2016)